Coronavirus, gli studi che avevano previsto tutto: "L'Italia e il mondo non sono pronti"
Gli scienziati dell'Organizzazione Mondiale della Sanità e della Banca Mondialeavevano realizzato a settembre un report sul rischio: "Minaccia reale di una pandemia di un patogeno respiratorio altamente letale". Gli esperti della John Hopkins School: "Italia al 51esimo posto per capacità di risposta e mitigazione di un'epidemia"
Se l’epidemia di coronavirus è la prova generale di una possibile pandemia distruttiva, il mondo (e l’Italia) sembra averla miseramente fallita. Comunicazione del rischio confusa, inadeguatezze della prevenzione e dei piano di contenimento, posti in terapia intensiva per la ventilazione meccanica insufficienti, mancanza di protocolli unici a livello nazionale e internazionale: nulla è andato come sarebbe dovuto andare. I leader politici sono stati presi del tutto alla sprovvista, la comunità scientifica si è divisa, e l’opinione pubblica a rimorchio sta passando da un panico eccessivo a una sottovalutazione errata dell’agente patogeno, che resta insidioso e pericoloso per la tenuta del sistema.
«È normale, è la prima volta che accade», giustificano molti commentatori. In realtà - sostengono alcuni scienziati e due report internazionali pubblicati proprio a fine 2019 - il mondo doveva e poteva prepararsi assai meglio. Perché la minaccia di una pandemia potenzialmente devastante per la salute e l’economia del pianeta era stata annunciata da una sequenza chiara: dal 2003 al 2014 si sono succedute quattro epidemie gravi, cioè la Sars, l’influenza aviaria, la Mers mediorientale ed Ebola in Africa.
«Il Covid-19 è il quinto virus aggressivo in 17 anni. Nessuno sa quando arriverà il sesto, ma una cosa è sicura: arriverà. E potrebbe essere un altro coronavirus, ancora più letale di questo. O uno nuovo sconosciuto e con un tasso di mortalità altissimo», spiega Fabrizio Bianchi, direttore dell’unità di epidemiologia ambientale al Cnr. «Nonostante l’altissima probabilità di una nuova malattia infettiva e gli appelli dell’Oms degli ultimi anni, le nazioni e le organizzazioni internazionali si sono fatte trovare davanti al Covid-19 senza una preparazione adeguata. Questa drammatica esperienza deve insegnarci - una volta che l’emergenza sarà alle nostre spalle - che la prossima volta dobbiamo essere pronti».
Il dossier “A world at risk”, scritto da una commissione di esperti creata da Oms e Banca mondiale, la Global Preparedness Monitoring Board (Gpmb), è stato pubblicato tre mesi prima dell’allarme coronavirus in Cina. Leggendolo lo scorso settembre, qualcuno avrebbe potuto sorridere davanti all’allarmismo da film di fantascienza degli autori. Oggi, si rivela guida fondamentale per capire come il mondo deve cambiare - davanti ai rischi pandemici di infezioni letali - completamente approccio.
Gli esperti ipotizzavano già a settembre «una minaccia reale di una pandemia di un agente patogeno respiratorio altamente letale... Le possibilità di una pandemia globale stanno aumentando. L’influenza spagnola del 1918 ha fatto ammalare un terzo della popolazione mondiale e ha ucciso circa 50 milioni di persone». Se un contagio simile si verificasse oggi, con una nuova popolazione quattro volte maggiore e tempi di viaggio intorno al mondo inferiori a 36 ore, «potrebbero morire 50-80 milioni di persone. Oltre ai tragici livelli di mortalità, una nuova pandemia globale di questo tipo sarebbe catastrofica, creando panico, caos diffuso, instabilità e insicurezza. Il mondo non è preparato».
Visto quello che sta accadendo con il Covid-2019, che sembra meno letale della malattia immaginata dai ricercatori del Gpmb, sembra difficile dare torto al pessimismo del board voluto dall’Oms. Lo studio, sorta di fotografia delle attuali capacità del pianeta di prevenire e contenere una minaccia virale, sottolinea che finora la comunità internazionale si è avviluppata, davanti ai cigni neri delle epidemie, in un circolo vizioso. «Circolo che alterna panico e negligenza: intensifichiamo gli sforzi quando c’è una minaccia grave, e ce ne dimentichiamo rapidamente quando la minaccia scompare». Un comportamento suicida. Collettivamente - questo il messaggio ottimistico degli scienziati - gli uomini avrebbero già oggi gli strumenti necessari per proteggere la salute e, a cascata, la società globale. Quello che sembra mancare, è l’organizzazione, una leadership chiara e una preparazione adeguata «al peggio».
Perché non siamo pronti L’attuale epidemia da coronavirus ha evidenziato errori madornali, a livello nazionale e internazionale. Imperizie che, nel caso di una pandemia ancora più devastante di quella in corso, potrebbero essere esiziali. Il tentativo iniziale dei cinesi di tenere nascosto il virus, l’assenza di protocolli obbligatori sui trasporti e sul contenimento del patogeno, i poteri ancora limitati dell’Oms, la strana differenza dei numeri di infetti tra nazioni confinanti (dovuta a procedure diversificate nell’uso tamponi), l’egoismo nazionale o localistico (come si è visto in Italia nel clamoroso scontro tra governo centrale e Regioni), hanno permesso al Covid-19 di muoversi più o meno indisturbato per mezzo mondo in poche settimane. [[ge:rep-locali:espresso:285341806]] Le risposte politiche e la gestione della comunicazione del rischio, a livello di Unione europea, sono state inesistenti. Dimostrando come la Ue - su una materia centrale come quella della salute pubblica - di fatto non esista. Le mosse dell’Italia, nazione al centro della crisi, sono state (almeno all’inizio) discutibili: nessuno, dalla presidenza del Consiglio ai presidenti di Regione, fino ai sindaci e ai ministri, sembra essere stato pronto all’emergenza. Anche la comunità scientifica mondiale e i media non hanno brillato per efficacia comunicativa: virologi di fama e professori di epidemiologia hanno detto del Covid tutto e il suo contrario, arrivando in Italia a litigare in pubblico e sconcertando chi vorrebbe che la scienza sia - in fasi critiche come quelle pandemiche - voce autorevole e faro indiscusso. Opinion maker, tv e giornali hanno prima urlato creando panico, poi ridimensionato tutto in poche ore, poi rifatto nuova inversione a U, a causa del problema gigantesco delle terapie intensive insufficienti al ricovero di pazienti gravi.
Che l’Italia non fosse preparata a un’epidemia virale, nemmeno a livello di dispositivi medici disponibili, lo si poteva evincere leggendo un altro studio americano, il “Global Health Security Index”. Pubblicato a ottobre 2019 dalla John Hopkins School e finanziato tra gli altri anche dalla Bill & Melinda Gates Foundation, lo studio è sintetizzato da una graduatoria di tutti i paesi della terra, basata sulla capacità di prevenire e controllare una possibile pandemia.
L’Italia, in classifica generale, è 31esima, con una media di 56 punti su 100, e staccata di quasi trenta punti dai paesi più virtuosi, come Usa, Gran Bretagna e Olanda. Nella categoria “Risposta rapida e mitigazione di un’epidemia” il nostro paese è solo 51esimo. Secondo il gruppo di esperti che ha lavorato due anni al progetto, pecchiamo soprattutto nella «preparazione e pianificazione della risposta» all’emergenza (alla nostra voce hanno assegnato 18,8 punti, gli americani toccano i 100). Se gli Usa hanno un punteggio mediocre «nell’accesso alla sanità», i migliori in classifica ci surclassano per «disponibilità di apparecchiature mediche» e nella «capacità di testare e approvare nuove contromisure mediche». Pessimo, soprattutto, il punteggio sulla «comunicazione del rischio alla popolazione», dove con soli 25 punti siamo addirittura sotto la media mondiale. Visto quello che sta accadendo in questi giorni, anche stavolta gli analisti sembrano essere stati preveggenti. Dare informazioni chiare sul contagio è indispensabile. Non solo per evitare gli effetti deleteri della paura incontrollata sul sistema sociale, ma pure a convincere le persone a rispettare ogni comportamento necessario ad arginare il morbo. «In futuro bisognerà fare meglio, gestendo la comunicazione con maggiore cura, e approvando dei protocolli che evitino pericolose polifonie», aggiunge Bianchi dal Cnr. «Il disaccordo tra gli scienziati, per esempio, è in larga misura inevitabile, e anzi sintomo di ricchezza. Tuttavia in situazioni critiche il disaccordo dovrebbe essere gestito in modo adeguato. In ballo c’è la fiducia del pubblico verso le istituzioni, sia politiche che scientifiche».
Il Global Health Security Index chiarisce che quasi tutti i paesi del pianeta «non sono preparati» a una pandemia di un’infezione grave. Anche a causa di un contesto ambientale molto sfavorevole: se il riscaldamento climatico rende i virus più forti e persistenti (dal 1950 a oggi è aumentata del 9 per cento circa la capacità di trasmissione della dengue, quella della malaria - secondo l’Oms - del 20 per cento), l’urbanizzazione di zone selvagge avvicina l’uomo ad animali portatori di potenziali patogeni, a cui diamo semaforo verde per fare il cosiddetto “salto di specie”. Anche le migrazioni, gli spostamenti di massa e il turismo globale creano le condizioni ideali per la comparsa e la diffusione di malattie potenzialmente distruttive in ogni angolo del pianeta. Ma non è l’unico pericolo che mette in luce il dossier americano: «Gli stessi progressi scientifici che aiutano a combattere le malattie epidemiche, permettono di progettare o ricreare gli agenti patogeni in laboratorio». Le nazioni, oltre ad epidemie naturali, devono dunque essere preparate anche a pandemie causate dal rilascio volontario, in caso di guerre o attentati terroristici, di infezioni patogene.