La strategia giusta sui tamponi è stata quella della regione del Nord-Est. Scelta dagli scienziati che hanno avuto il coraggio di andare contro le direttive dei potenti burocrati locali. Ecco come si sono mosse le altre regioni e quali sono i problemi in vista della fase 2

AGF-EDITORIAL-2742590-jpg
Il Veneto salvato dagli scienziati, contrastati dai manager della sanità regionale di obbedienza leghista. E il resto d’Italia nel panico, tra migliaia di vittime, ospedali assediati, direttive contraddittorie, mancanza di mezzi, laboratori oberati, scorte insufficienti, forniture introvabili, prezzi sempre più alti. La drammatica cronistoria della corsa ai tamponi, i test indispensabili per identificare il virus Sars-Cov-2, fornisce molte risposte sulla diffusione incontrollata del morbo Covid-19 e sulla caotica gestione dell’epidemia.

Un disastro che rischierebbe di ripetersi, nelle prossime settimane, con una gestione imprudente o negligente della cosiddetta ripartenza o fase 2, ora fissata per maggio tra mille incertezze, pressioni economiche e polemiche politiche, che a differenza dei tamponi non mancano mai.

In questa tragedia le date sono importanti. Il 31 dicembre 2019 le autorità cinesi comunicano per la prima volta che nella città di Wuhan è esploso un grave focolaio di polmonite, di natura ignota. Una settimana dopo gli scienziati cinesi identificano il virus (pubblicandone il genoma) e l’Organizzazione mondiale della sanità conferma che si tratta di ceppo nuovo, totalmente sconosciuto. A fine mese si registrano i primi due casi in Italia, provenienti però dall’estero: una coppia di turisti cinesi, ricoverati dal 29 gennaio all’istituto Spallanzani di Roma e poi guariti. Il giorno dopo il governo blocca i voli con la Cina e il 31 gennaio proclama l’emergenza sanitaria.

Solo il 21 e 22 febbraio si scoprono i primi contagiati italiani: l’ormai famoso paziente 1 di Codogno, in Lombardia, poi guarito, e un pensionato di Vo’ Euganeo, in Veneto. Entrambi emergono grazie alla disobbedienza civile di due medici, un professore e una dottoressa, che eseguono la prova del tampone nonostante le direttive di segno opposto.

In quelle ore quasi tutti, fuori dalla Cina, ignorano ancora la pericolosità del virus. Il signor Adriano Trevisan, 78 anni, è ricoverato da una decina di giorni nell’ospedale di Schiavonia. È un piccolo imprenditore in pensione che abita a Vo’ Eugeneo, 3.300 residenti nella bassa padovana. Non è mai stato in Cina e non ha avuto contatti con persone tornate da Wuhan. Quindi, in base alle direttive allora vigenti, non andrebbe sottoposto al tampone. Il dipartimento di microbiologia e virologia dell’università di Padova, diretto dal professor Andrea Crisanti, decide però forzare l’interpretazione delle regole. E sottopone al test quel pensionato, insieme a un compaesano di 63 anni, anche lui già ricoverato. Entrambi risultano positivi. Trevisan muore la sera del 22 febbraio. È la prima vittima accertata in Italia.

Anche in Lombardia il contagio emerge grazie allo scrupolo di un medico: Annalisa Malara è l’anestesista di turno nella notte tra il 19 e 20 febbraio all’ospedale di Codogno, dove è ricoverato il dirigente d’azienda destinato a diventare il paziente 1. La dottoressa sa che quel malato non rientrerebbe tra i casi da testare, ma se ne assume la responsabilità. Il perché lo spiega lei stessa, con semplicità, in un’intervista a Repubblica: «Quando un malato non risponde alle cure normali, all’università mi hanno insegnato a non ignorare l’ipotesi peggiore».
[[ge:rep-locali:espresso:285344143]]
Tra Lombardia e Veneto in quei giorni si consuma uno scontro decisivo per lotta al virus. Già a metà gennaio il laboratorio pubblico di Crisanti ha elaborato un test, con il tampone naso-faringeo, che offre risposte certe in circa tre ore. La svolta viene condivisa con i vertici dell’università, dell’ospedale e della sanità regionale. Lo scienziato, reclutato dal rettore di Padova «per chiara fama», proviene dall’autorevole Imperial College di Londra e conosce i primi studi che consigliano di controllare anche soggetti senza sintomi. Quindi propone di fare il tampone a tutti gli studenti e docenti che tornano in Veneto dalla Cina.

Il 29 gennaio, quando ancora non esistono linee-guida nazionali, l’ateneo padovano istituisce un numero verde per i test. E invita i controllati a rimanere in casa, anche senza febbre o tosse, in attesa dei risultati. L’iniziativa entusiasma la comunità cinese, che scrive al virologo per ringraziarlo. Il potente direttore generale della sanità veneta, Domenico Mantoan, però non è d’accordo. E l’11 febbraio chiede a Crisanti, con una lettera di diffida, «sulla base di quali indicazioni ministeriali o internazionali» abbia scelto di fare quei tamponi. Il grande capo degli ospedali veneti, che è anche presidente dell’Agenzia nazionale per i farmaci (Aifa), evoca addirittura una causa per danno erariale, scrivendo allo scienziato che «ogni spesa associata a soggetti asintomatici non rientra tra le prestazioni coperte dal servizio sanitario nazionale».

Il professore risponde allegando una delle prime pubblicazioni scientifiche che confermano la possibilità di contagio da soggetti non sintomatici. E replica a Mantoan con queste parole: «Sulla base delle mie conoscenze e competenze scientifiche, non rinnego il mio parere».

In Veneto l’assessorato alla sanità è da vent’anni un feudo della Lega. E Mantoan ne è l’uomo forte. Nello scontro sui tamponi, l’efficientissimo burocrate sa di avere forti appoggi anche a Roma. Dove in quei giorni cambiano le regole. Il 22 gennaio il ministero della salute, con la prima circolare sul coronavirus, prevede il tampone per qualsiasi paziente che «manifesta un decorso clinico insolito o inaspettato, soprattutto un deterioramento improvviso», anche se non risultano viaggi in Cina, persino «se è stata identificata un’altra eziologia», cioè una causa diversa dal virus. Quella direttiva resta però in vigore solo cinque giorni. Il 27 gennaio il direttore della prevenzione sanitaria del ministero, Claudio D’Amario, dirama infatti una seconda circolare, «aggiornata secondo le indicazioni degli organismi internazionali», che cambia tutto.

I tamponi diventano merce rara. Il paziente deve aver avuto contatti diretti con malati (confermati dai test o con sintomi molto evidenti), o una storia di viaggi in aree già colpite della Cina. Fuori da questi casi eccezionali, non basta più avere una malattia respiratoria acuta: bisogna dimostrare, come prescrive la direttiva-bis, di avere anche «visitato o lavorato in un mercato di animali vivi a Wuhan nei 14 giorni precedenti».

All’epoca la Cina sembrava ancora lontana. Negli stessi giorni del dietrofront sui tamponi, anche i luminari del Centro europeo per il controllo delle malattie e dell’Istituto superiore di sanità scrivevano di valutare «molto basso» il pericolo di propagazione dell’epidemia «cinese». Quando poi esplode il contagio, solo Padova in Italia e la Germania in Europa hanno laboratori pubblici già attrezzati per eseguire tamponi di massa. Il 16 marzo, mentre ormai si contano le prime duemila vittime italiane, l’Organizzazione mondiale della sanità ufficializza così il cambio di strategia: «Abbiamo un messaggio semplice per tutti i Paesi: test, test, test».

La Regione Lombardia, nonostante le stragi giornaliere, continua però anche in aprile a limitare i test: tamponi solo per «i soggetti che manifestano sintomi» e su richiesta dei medici di famiglia. Che non riescono a ottenerli neppure per se stessi. Per le case di riposo, dove stanno morendo migliaia di anziani, l’agenzia regionale milanese scrive di aver fatto il suo dovere comprando «duemila kit», ma «l’esecuzione dei tamponi è riservata agli ospiti sintomatici» e «affidata in autonomia alle strutture stesse». A Bergamo i primi test nei 65 ospizi falcidiati (con oltre 17 mila posti letto) iniziano solo il 10 aprile. La Lombardia è l’unica regione che non ha risposto alle richieste dell’Espresso di pubblicare i dati sui tamponi.

In Veneto invece il governatore Luca Zaia ascolta gli scienziati di Padova e sposa la linea dei tamponi di massa, applicata per debellare il primo focolaio. Quindi già dal 23 febbraio il laboratorio universitario inizia a sfornare più di mille tamponi al giorno. Un terzo del totale nazionale. Il numero raddoppia ogni due settimane: a metà marzo Padova supera i duemila test al giorno, il primo aprile è sopra quota tremila. Prima di Pasqua vengono completati i controlli su tutti i medici, infermieri e personale sanitario, con oltre mila 16 test. Al 15 aprile si contano 85.340 tamponi solo a Padova. In marzo il Veneto realizza un quinto di tutti i test italiani. Come tutta la Lombardia, che però ha un numero di vittime 15 volte superiore.

A Padova i tamponi permettono di isolare i positivi, contenere il contagio e ridurre la mortalità. A quel punto nelle regioni più colpite parte una corsa disperata ai test. «In Piemonte all’inizio dell’emergenza avevamo solo i due laboratori pubblici degli ospedali di Torino, in grado di analizzare 200 tamponi al giorno», spiega il portavoce dell’assessorato regionale alla Sanità. «In due mesi abbiamo creato una rete di 20 laboratori, pubblici e privati, che ora ci garantiscono circa 5 mila tamponi al giorno». A metà aprile, tutto il Piemonte aveva fatto circa 80 mila tamponi, meno della sola provincia di Padova. In Emilia, che oggi ha il triplo delle vittime del Veneto, a metà marzo si contavano solo 12.054 test; a fine mese, dopo sforzi drammatici, il totale è salito a 54 mila, a metà aprile a 112 mila. La metà del Veneto.

Il caso
Coronavirus, il modello Padova: la provincia che era seconda per contagi ora è un esempio
6/4/2020
L’urgenza di aumentare i test si scontra con due strozzature: la carenza di reagenti, prodotti da poche multinazionali straniere, e l’insufficienza dei macchinari per le analisi. Mentre la protezione civile centralizza gli acquisti di mascherine e protezioni, la gestione dei tamponi è affidata ai singoli ospedali o agenzie regionali. Il risultato è un caotico affastellarsi di decine di delibere di «somma urgenza»: trattative private con un singolo fornitore, senza gare d’appalto. E i prezzi raddoppiano o triplicano.

La direzione dell’ospedale di Padova ha una «lista costi» che quantifica la spesa media per ogni tampone: 30 euro tutto compreso. Non è un prezzo pagato ad aziende esterne, ma un calcolo contabile, che assomma i costi dei prelievi, bastoncini per catturare il virus, reagenti, uso dei macchinari e ore di lavoro del personale. Nel resto d’Italia, dalla Lombardia all’Emilia, dalla Liguria al Lazio, i centri di spesa si moltiplicano. Tra Torino e Milano i laboratori privati chiedono tra 35 e 60 euro a tampone, con punte di 120. In Veneto anche Verona è in affanno: tra marzo e aprile, mentre la città sale al primo posto nella regione per numero di vittime, la direzione ospedaliera acquista «d’urgenza» cento tamponi al giorno da un fornitore esterno, a 40 euro l’uno, poi altri mille, da un secondo laboratorio privato, questa volta a 50 mila euro al giorno: tariffe che escludono i costi dei kit, dei prelievi, trasporti e Iva. I medici di famiglia veronesi riescono a fare il primo sospirato test solo a metà aprile: prima, in tutta la provincia, si facevano meno di 400 tamponi al giorno.

Il divario di prezzi tra pubblico e privato è notevole ovunque. A Brescia, una provincia devastata dal virus, l’Istituto zooprofilatico ha eseguito, tra marzo e metà aprile, 37 mila tamponi. La sanità regionale ha dovuto rimborsare solo le spese per i reagenti: in media, come informa l’istituto, «il costo della singola analisi è di 9,97 euro più Iva».

Tuttora sotto stress sono anche laboratori pubblici collegati a università prestigiose. Il San Matteo di Pavia, che in febbraio aveva eseguito i primi 70 tamponi lombardi, a partire da marzo è salito da 500 a circa 800 test al giorno, per un totale a metà aprile di 27.500. A Bologna i tecnici del Sant’Orsola, partiti a fine febbraio con 134 test al giorno, hanno moltiplicato le analisi, superando il problema dei reagenti, per arrivare a quota 288 a metà marzo, 895 a fine mese, 1383 a metà aprile. A Piacenza le strutture sanitarie hanno dovuto utilizzare anche laboratori fuori dalla regione per aumentare i test: 1.365 a fine febbraio, 7.885 a fine marzo, 13.992 a metà aprile.

In Emilia la macchina dei controlli è entrata in crisi nella prima metà di marzo, quando l’ondata dei contagi ha superato le capacità dei tre laboratori accreditati di Parma, Bologna e Pieve Sistina. Dal 16 marzo la Regione ha autorizzato anche il laboratorio di Santa Maria Nuova a Reggio Emilia, che in un mese è salito da 100 a 683 tamponi al giorno.

Nella capitale il San Filippo Neri, che analizza i tamponi degli ospedali dell’Asl Roma 1, è passato da 50 a 150 tamponi al giorno. In marzo anche il Lazio ha creato una rete di laboratori pubblici e privati, guidata dall’istituto Spallanzani, ma in tutta la regione si fanno ancora oggi meno tamponi che a Padova. Dove intanto l’ospedale-università ha messo in funzione un nuovo macchinario potentissimo, in grado di analizzare altri 9.600 tamponi al giorno.

Nel resto d’Italia la penuria di mezzi ha scatenato anche una corsa disordinata alle presunte alternative, in particolare i test sierologici. Che non evidenziano il virus, ma gli anticorpi. Hanno alti margini di errore. E sono ancora in attesa di convalide scientifiche. Dopo giorni di annunci, illusioni e smentite, il commissario governativo Domenico Arcuri ha spiegato che il previsto test sierologico su 150 mila italiani si farà solo dopo l’approvazione di un test efficace e servirà solo come indagine epidemiologica, per stimare quanti sono davvero i contagiati e dove si concentrano. Mentre gli esperti del ministero hanno chiarito che nessun test sierologico, per quanto specifico, potrà offrire una «patente d’immunità» individuale. Anche perché i contagiati sviluppano gli anticorpi dopo almeno una settimana. Quindi si rischierebbe di rimandare al lavoro troppi falsi negativi con il virus.

«Come si spegne un focolaio l’abbiamo dimostrato a Vo’ Euganeo», commenta il professor Crisanti: «Di fronte a un nuovo caso, bisogna fare i tamponi a tutte le persone che ha contattato, identificare i contagiati, isolarli e rifare il test alla fine della quarantena. Si chiama sorveglianza attiva. Al momento non esiste una ricetta alternativa ai tamponi».