
«La sperimentazione è già iniziata», annuncia Giustina De Silvestro, la direttrice del servizio di medicina trasfusionale, che è anche docente di immuno-ematologia: «Il primo donatore è stato un nostro specializzando, che fu tra i primi contagiati ed è guarito. Tutto il plasma raccolto tra i volontari va sottoposto ai test predisposti dagli scienziati della nostra università, che hanno fatto il lavoro più difficile: bisogna essere certi che ci siano gli anticorpi, ma non il virus né altri agenti patogeni. Puntiamo a fare le prime trasfusioni, efficaci e sicure, la prossima settimana, come terapia collaterale per i casi gravi, ma non gravissimi, che secondo i virologi potrebbero rispondere meglio».
La dottoressa, nata sulle montagne bellunesi, laureata in medicina con doppia specializzazione, lavora da sempre nella sanità pubblica e dal 2003 è la “regina del sangue” a Padova, dove guida uno squadra di 70 tecnici e ricercatori.
Solo queste trasfusioni nelle terapie intensive e subintensive, avviate anche all’ospedale di Pavia dopo contatti con Padova, potranno misurare l’efficacia delle donazioni di sangue dei guariti. Ma la speranza è grande: «In anni recenti è stata usata la stessa tecnica contro i virus della Sars, Mers ed Ebola», precisa la direttrice. «La mia prima terapia, da giovane medico, fu proprio questa: usavamo il plasma dei guariti per evitare che i bimbi leucemici si ammalassero di varicella».
A Padova medici, infermieri, professori e ricercatori sono abituati a lavorare insieme, nelle stesse strutture. «Un punto di forza di questa città è la consolidata alleanza operativa tra ospedale e università, tra medicina e scienza», spiega il rettore, Rosario Rizzuto, di un ateneo con oltre 2300 professori e duemila ricercatori e dottorandi. Al rettore, che è medico, si deve l’arrivo a Padova del professor Andrea Crisanti, un virologo di fama mondiale che ha spento il primo focolaio veneto moltiplicando i tamponi. «In Cina gli anticorpi e i farmaci sperimentali hanno dato risultati incoraggianti, ma non risolutivi», avverte lo scienziato, «quindi l’unico modo di ridurre il contagio è la sorveglianza attiva: fare il test a tutte le persone a rischio e isolare i casi positivi». Nei primi 40 giorni di emergenza, solo a Padova sono stati eseguiti oltre 60 mila tamponi: due terzi del totale regionale, un ottavo di tutta Italia, Lombardia compresa. Nella vicina Verona ancora a fine marzo si faticava a superare i 400 tamponi al giorno, per cui restano fuori controllo due terzi dei dipendenti ospedalieri, quasi tutti i medici di famiglia e perfino gli infermieri e dottori dei tanti ospizi falcidiati dal virus. «Siamo a casa con febbre e tosse, ma non ci fanno il tampone», denunciano dozzine di medici di base nei messaggi inoltrati all’Espresso. Padova sembra un altro pianeta. «A fine marzo abbiamo superato i quattromila tamponi al giorno», risponde, tabelle alla mano, il dottor Daniele Donato, direttore sanitario del grande ospedale pubblico cittadino, che ha 1723 posti letto. «Nei prossimi giorni contiamo di superare i diecimila, grazie a un nuovo potente macchinario da 7 mila test al giorno. È già arrivato: l’abbiamo preso in Olanda, lo stiamo installando».
Altro punto cruciale: i contagi dentro gli ospedali, che fanno strage anche in regioni ricche ed efficienti. Nell’ospedale di Padova lavorano 7.276 persone: alla data del 30 marzo, solo 18 risultavano contagiate in corsia. «In totale abbiamo 95 operatori positivi», puntualizza il direttore sanitario, ma gran parte dei casi sono dovuti a «cause esterne: parenti, amici o periodi di lavoro in altri ospedali». «Tra febbraio e marzo l’ospedale ha testato 5.385 dipendenti, il 74 per cento del totale, nei casi più a rischio con 3 o 4 tamponi ciascuno». I controlli continuano: manca solo il personale che non ha contatti con pazienti.
Nella cronistoria dell’emergenza a Padova, poi, balza agli occhi una circolare con una data non burocratica: domenica 23 febbraio. Due giorni prima, a Codogno, è emerso il primo caso italiano di Covid-19. Poche ore dopo scatta l’allarme nel piccolo ospedale veneto di Schiavonia. La sera stessa, a Padova, si preparano le misure d’emergenza, approvate sabato mattina dopo un vertice d’urgenza con il governatore Luca Zaia. E così, già quella domenica, la direzione sanitaria mette in rete le istruzione che troppi altri ospedali faticano ancora oggi a rispettare, anche per mancanza di mezzi: ingressi e percorsi differenziati per i “sospetti contagiati”; obbligo per tutto il personale a contatto con i pazienti di indossare «tute protettive, guanti, visiere, calzari e mascherine con filtro speciale». Il giorno dopo, davanti all’ospedale, arrivano i tendoni: ora sono undici, i pazienti a rischio vengono visitati lì, «in media ne arrivano 400-500 al giorno». Così il pronto soccorso resta libero, per tutti gli altri malati, senza pericoli di contagio.
Ma perché a Padova abbondano i tamponi che nel resto d’Italia scarseggiano? Il dottor Donato risponde che «la nostra fortuna è il professor Crisanti, che ci ha risolto il problema prima dell’emergenza». Lo scienziato sorride: «Era il 15 gennaio. Due settimane prima la Cina aveva comunicato la nuova epidemia. Il 7 era stato pubblicato il genoma del nuovo virus. Quindi a Padova ci siamo portati avanti: abbiamo comprato subito i prodotti chimici per fare i reagenti per mezzo milione di tamponi». Acquistati in blocco prima del disastro. A costi ridotti: 30 euro a test, tutto compreso. Senza dover dipendere da fornitori privati. O da prodotti esteri ora bloccati alle dogane. «Restava il problema dei macchinari per velocizzare e moltiplicare le analisi, ma ora è risolto anche quello: si chiama prevenzione», minimizza Crisanti. Che alla richiesta di prevedere, a questo punto, la prossima fase della tragedia italiana, risponde con preoccupazione: «Se il numero dei decessi non comincerà a calare in misura notevole, significa che il contagio si è trasferito dalle strade dentro le case. Credo sia urgente pianificare controlli capillari nelle famiglie: se un positivo è costretto a convivere con altri in spazi ristretti, bisogna isolare lui, altrimenti si contagiano tutti. Temo che le autorità politiche dovranno organizzarsi per requisire grandi alberghi e campeggi per ospitare migliaia di persone per la quarantena. Sarebbe anche un modo sensato di soccorrere l’industria del turismo. Pensate a Venezia: con una spesa sostenibile, si potrebbe trasformare gli alberghi vuoti in residenze protette. Se i dati non cambiano, non vedo alternative».