Nelle prime settimane sembrava destinata a diventare un focolaio e invece si è registrata una vistosa frenata. Ecco la ricetta di questa svolta. Ma il professor Crisanti avverte: 'Il contagio continua nelle case, bisogna requisire alberghi per le quarantene"

Coronavirus, il modello Padova: la provincia che era seconda per contagi ora è un esempio

Il pre-triage davanti all'ospedale di Padova
Miracolo a Padova? Mentre il bilancio della pandemia virus continua ad aggravarsi nel mondo, questa provincia veneta offre i primi «barlumi di speranza», come li definiscono gli esperti che stanno gestendo l’emergenza. Nell’ultima decade di febbraio, quando è iniziata l’epidemia nei focolai di Codogno in Lombardia e Vo’ Euganeo in Veneto, questa parte del nordest sembrava condannata al disastro: Padova era la seconda provincia più colpita d’Italia, dopo Lodi, per numero di contagiati, ricoverati e deceduti. Un mese e mezzo dopo, il morbo non è sconfitto, ma almeno qui è in vistosa frenata. Le cifre salgono ogni giorno, ma la tendenza è chiara: il Veneto ha un terzo delle vittime dell’Emilia Romagna, metà del Piemonte, un quindicesimo della Lombardia. E all’interno della regione, Padova soffre molto meno di Verona, che ha più del doppio dei deceduti. Dati oggettivi, che fanno di questa città un modello da studiare. Cominciando da un possibile miracolo. La sperimentazione di una nuova terapia che si fonda sulla generosità e solidarietà umana: pazienti guariti che donano i loro anticorpi per curare malati gravi.

«La sperimentazione è già iniziata», annuncia Giustina De Silvestro, la direttrice del servizio di medicina trasfusionale, che è anche docente di immuno-ematologia: «Il primo donatore è stato un nostro specializzando, che fu tra i primi contagiati ed è guarito. Tutto il plasma raccolto tra i volontari va sottoposto ai test predisposti dagli scienziati della nostra università, che hanno fatto il lavoro più difficile: bisogna essere certi che ci siano gli anticorpi, ma non il virus né altri agenti patogeni. Puntiamo a fare le prime trasfusioni, efficaci e sicure, la prossima settimana, come terapia collaterale per i casi gravi, ma non gravissimi, che secondo i virologi potrebbero rispondere meglio».

La dottoressa, nata sulle montagne bellunesi, laureata in medicina con doppia specializzazione, lavora da sempre nella sanità pubblica e dal 2003 è la “regina del sangue” a Padova, dove guida uno squadra di 70 tecnici e ricercatori.

Solo queste trasfusioni nelle terapie intensive e subintensive, avviate anche all’ospedale di Pavia dopo contatti con Padova, potranno misurare l’efficacia delle donazioni di sangue dei guariti. Ma la speranza è grande: «In anni recenti è stata usata la stessa tecnica contro i virus della Sars, Mers ed Ebola», precisa la direttrice. «La mia prima terapia, da giovane medico, fu proprio questa: usavamo il plasma dei guariti per evitare che i bimbi leucemici si ammalassero di varicella».

A Padova medici, infermieri, professori e ricercatori sono abituati a lavorare insieme, nelle stesse strutture. «Un punto di forza di questa città è la consolidata alleanza operativa tra ospedale e università, tra medicina e scienza», spiega il rettore, Rosario Rizzuto, di un ateneo con oltre 2300 professori e duemila ricercatori e dottorandi. Al rettore, che è medico, si deve l’arrivo a Padova del professor Andrea Crisanti, un virologo di fama mondiale che ha spento il primo focolaio veneto moltiplicando i tamponi. «In Cina gli anticorpi e i farmaci sperimentali hanno dato risultati incoraggianti, ma non risolutivi», avverte lo scienziato, «quindi l’unico modo di ridurre il contagio è la sorveglianza attiva: fare il test a tutte le persone a rischio e isolare i casi positivi». Nei primi 40 giorni di emergenza, solo a Padova sono stati eseguiti oltre 60 mila tamponi: due terzi del totale regionale, un ottavo di tutta Italia, Lombardia compresa. Nella vicina Verona ancora a fine marzo si faticava a superare i 400 tamponi al giorno, per cui restano fuori controllo due terzi dei dipendenti ospedalieri, quasi tutti i medici di famiglia e perfino gli infermieri e dottori dei tanti ospizi falcidiati dal virus. «Siamo a casa con febbre e tosse, ma non ci fanno il tampone», denunciano dozzine di medici di base nei messaggi inoltrati all’Espresso. Padova sembra un altro pianeta. «A fine marzo abbiamo superato i quattromila tamponi al giorno», risponde, tabelle alla mano, il dottor Daniele Donato, direttore sanitario del grande ospedale pubblico cittadino, che ha 1723 posti letto. «Nei prossimi giorni contiamo di superare i diecimila, grazie a un nuovo potente macchinario da 7 mila test al giorno. È già arrivato: l’abbiamo preso in Olanda, lo stiamo installando».

Altro punto cruciale: i contagi dentro gli ospedali, che fanno strage anche in regioni ricche ed efficienti. Nell’ospedale di Padova lavorano 7.276 persone: alla data del 30 marzo, solo 18 risultavano contagiate in corsia. «In totale abbiamo 95 operatori positivi», puntualizza il direttore sanitario, ma gran parte dei casi sono dovuti a «cause esterne: parenti, amici o periodi di lavoro in altri ospedali». «Tra febbraio e marzo l’ospedale ha testato 5.385 dipendenti, il 74 per cento del totale, nei casi più a rischio con 3 o 4 tamponi ciascuno». I controlli continuano: manca solo il personale che non ha contatti con pazienti.

Nella cronistoria dell’emergenza a Padova, poi, balza agli occhi una circolare con una data non burocratica: domenica 23 febbraio. Due giorni prima, a Codogno, è emerso il primo caso italiano di Covid-19. Poche ore dopo scatta l’allarme nel piccolo ospedale veneto di Schiavonia. La sera stessa, a Padova, si preparano le misure d’emergenza, approvate sabato mattina dopo un vertice d’urgenza con il governatore Luca Zaia. E così, già quella domenica, la direzione sanitaria mette in rete le istruzione che troppi altri ospedali faticano ancora oggi a rispettare, anche per mancanza di mezzi: ingressi e percorsi differenziati per i “sospetti contagiati”; obbligo per tutto il personale a contatto con i pazienti di indossare «tute protettive, guanti, visiere, calzari e mascherine con filtro speciale». Il giorno dopo, davanti all’ospedale, arrivano i tendoni: ora sono undici, i pazienti a rischio vengono visitati lì, «in media ne arrivano 400-500 al giorno». Così il pronto soccorso resta libero, per tutti gli altri malati, senza pericoli di contagio.

Ma perché a Padova abbondano i tamponi che nel resto d’Italia scarseggiano? Il dottor Donato risponde che «la nostra fortuna è il professor Crisanti, che ci ha risolto il problema prima dell’emergenza». Lo scienziato sorride: «Era il 15 gennaio. Due settimane prima la Cina aveva comunicato la nuova epidemia. Il 7 era stato pubblicato il genoma del nuovo virus. Quindi a Padova ci siamo portati avanti: abbiamo comprato subito i prodotti chimici per fare i reagenti per mezzo milione di tamponi». Acquistati in blocco prima del disastro. A costi ridotti: 30 euro a test, tutto compreso. Senza dover dipendere da fornitori privati. O da prodotti esteri ora bloccati alle dogane. «Restava il problema dei macchinari per velocizzare e moltiplicare le analisi, ma ora è risolto anche quello: si chiama prevenzione», minimizza Crisanti. Che alla richiesta di prevedere, a questo punto, la prossima fase della tragedia italiana, risponde con preoccupazione: «Se il numero dei decessi non comincerà a calare in misura notevole, significa che il contagio si è trasferito dalle strade dentro le case. Credo sia urgente pianificare controlli capillari nelle famiglie: se un positivo è costretto a convivere con altri in spazi ristretti, bisogna isolare lui, altrimenti si contagiano tutti. Temo che le autorità politiche dovranno organizzarsi per requisire grandi alberghi e campeggi per ospitare migliaia di persone per la quarantena. Sarebbe anche un modo sensato di soccorrere l’industria del turismo. Pensate a Venezia: con una spesa sostenibile, si potrebbe trasformare gli alberghi vuoti in residenze protette. Se i dati non cambiano, non vedo alternative».

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