Diritti
Omotransfobia, il virus ha riportato indietro di vent'anni le battaglie per i diritti civili
Aggressioni in crescita nelle case chiuse dal lockdown, dove non si accetta la sessualità dei figli. Genitori che hanno rischiato multe perché non riconosciuti legalmente. Famiglie arcobaleno invisibili. Ecco le loro storie: «Mi sembra di impazzire. Sono prigioniero, non del Covid che c’è fuori ma dell’omofobia che respiro dentro»
«Tre anni fa mio padre mi cacciò di casa perché ero trans e finii a dormire per strada. Poi ho ricostruito la mia vita. Ci ho messo due anni. Da marzo ho perso tutto di nuovo, in pochi giorni. E sono ritornato dentro un limbo. Pensavo di averlo superato». Il limbo di Ale, il “nessun luogo”, è la condizione di moltissime persone Lgbt da quando è scoppiato il coronavirus. Dove la differenza tra fase 1 o fase 2 o 3 non c’è. La pandemia ha reso più acute le fragilità di una comunità che era in emergenza da tempo - diritti non riconosciuti, discriminazioni, ragazzi e ragazze ai margini e famiglie invisibili. «Nessuno ci guarda in realtà», si sfoga Ale. «Nessun lo ha mai fatto veramente».
Il giorno dopo il suo diciottesimo compleanno, il padre di Ale gli ha messo la valigia sul letto e gli ha detto «Vattene». È un ragazzo trans “ftm”. cioè “female to male”. Si dice così quando si transita dal genere femminile al maschile, mentre viene usata la sigla inglese “mtf”, “male to female”, per il percorso opposto. «Mio padre quando lo ha scoperto mi ha dato due possibilità: sparire o accettare di essere curato per la mia situazione di malattia mentale, come la definiva lui». Aveva 18 anni. Oggi ne ha 21.
Si è costruito una vita dopo averla difesa per strada: tra le panchine e i marciapiedi di Roma, Milano, Sondrio. Infine Torino, dove ha trovato l’ospitalità dentro il To-Housing che accoglie le persone Lgbt in difficoltà: «Finito il mio percorso ho trovato un lavoro, una casa. Sono andato a Milano per fare l’animatore per le feste per bambini in una ludoteca. Poi siamo tutti affondati. Sento che noi persone Lgbt affondiamo un po’ di più, però».
Ale, che viveva con una signora anziana, ha perso anche un tetto sopra la testa: «Lei è morta di coronavirus. Ero in subaffitto me ne sono dovuto andare. Questo mese resto da un amico. Il prossimo non ho idea. Tornerò per strada». Una vita congelata: il percorso di affermazione di genere, vitale per una persona trans, per Ale procede solo con colloqui psicologici: «Avevo un appuntamento a metà maggio. Cancellato».
Gli alloggi per ragazzi Lgbt in difficoltà invece sono pieni: «La mia ultima possibilità sarebbe una struttura per l’accoglienza temporanea rivolta ai senza dimora. Ma ci sono già passato tra insulti e aggressioni transfobiche. Meglio la strada». Ha paura e gli aiuti economici erogati dal governo per Ale non esistono: «Non ho la residenza, non ho un domicilio. Mio padre ha dichiarato che non vivo più lì. Però dice in giro che sua figlia può tornare a casa quando vuole. Ma sua figlia non esiste».
Per chi resta fuori però c’è una comunità che resiste: «Come abbiamo sempre fatto ci aiutiamo da sole», dice Sofia Mehiel detta la Papessa, attivista del Mit (Movimento Identità transessuale) che insieme al Consultorio Transgenere (Torre del Lago) e Atn (Associazione Transessuale Napoli), distribuisce pacchi alimentari e offre sostegno socio-sanitario alle sex worker escluse dagli ammortizzatori sociali e da qualsiasi reddito. «E non solo. Ci sono tantissimi gay, lesbiche che restano ai margini e bussano alla nostra porta. Il Movimento d’Identità transessuale fa l’impossibile. Come dico sempre, siamo tutti sullo stesso yacht», scherza mentre si reca all’ospedale Sant’Orsola di Bologna dove offre assistenza alle persone trans più anziane ricoverate.
Il Mit non ha perso tempo. Alla prima sirena che annunciava la grave crisi sociale ed economica del paese, Porpora Marcasciano, storica attivista e presidente del movimento, ha fatto scattare l’ordine: «Diamoci subito da fare: pacchi alimentari, assistenza socio-sanitaria. Usiamo ogni centesimo. Andremo sotto ma non è il momento di pensarci».
Avevano preparato una tranche di aiuti per 15 trans. Si sono trovati 70 richieste in un giorno. Prima da Bologna poi da tutto il paese: «Aiutiamo la nostra comunità da Roma a Verona». È il welfare militante di questa parte di mondo che continua anche grazie a un’iniziativa lanciata Pia Covre, storica rappresentante del Comitato per i diritti civili delle prostitute: una raccolta fondi sulla piattaforma Produzioni dal basso intitolata “Covid19, solidarietà immediata per le sex worker più colpite dall’emergenza”. Il Mit fa il suo dovere: «C’è tutta una comunità che resiste. Fa la spesa, ci chiama e noi la distribuiamo a chi ha bisogno. Siamo forti nonostante la tempesta».
Per l’altra tempesta invece, l’omofobia che colpisce i giovani lgbt in isolamento con le proprie famiglie che rifiutano la loro identità, non c’è riparo: «La mia famiglia è un carnevale orribile», racconta Danilo, 25 anni, fuorisede: «Ho lasciato Milano e sono tornato al sud dai miei. So quello che pensa la gente: poteva restare a Milano. No, non potevo. Non lavoravo più e non sapevo come pagarmi l’affitto. Dovevo ritornare. Il problema è che avevo fatto coming out a inizio anno. Una liberazione dalla paura di essere scoperti, dalla negazione della mia stessa vita. Non l’hanno presa bene. Pensavo che il tempo e la distanza avrebbero aiutato. Ora che sono stato costretto a rientrare mi rendo conto che non è cambiato nulla. Mio padre non mi rivolge la parola, mia madre sgrana tutto il giorno il rosario perché vuole redimermi. Ogni tanto rido. Ma dentro mi sembra di impazzire. Sono prigioniero, non del virus che c’è fuori ma dell’omofobia che respiro dentro».
L’aumento degli episodi di omotransfobia dentro le mura di casa è l’effetto inevitabile del lockdown, come testimoniano le voci che raccoglie il circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli di Roma attraverso la sua Rainbowline (800.110611). Appartengono a migliaia di persone che soffrono l’isolamento. Ragazzi e ragazze terrorizzati dal rifiuto della famiglia, si inibiscono, rinnegano la propria identità, rimpiangono amori sospesi fuori dalla porta di casa: «Gli episodi di omotransfobia non si fermano, sono tipicizzati: avvengono in famiglia», dice Sebastiano Secci, presidente del Circolo. «Gli adulti in qualche modo riescono a condividere gli spazi con chi non ti accetta. Per i minorenni è più difficile: abituati a respirare libertà grazie alle ore di scuola, alle attività ricreative fuori casa ora si trovano costretti dentro uno spazio ostile. Di recente abbiamo dovuto far intervenire gli assistenti sociali: un quattordicenne subiva costantemente abusi fisici da parte della famiglia. L’omotransfobia cambia solo scenario: si sposta dai luoghi pubblici alle mura di casa».
E poi ci sono le famiglie invisibili. Quelle che non godono della protezione dello Stato italiano, il quale avendo deciso di non decidere in passato, ha destinato alla buona e alla cattiva sorte genitori e figli. Nessuna politica di governo, difatti, si è occupata e si occupa oggi della moltitudine delle famiglie arcobaleno. Soprattutto di quelle di scarsa fortuna: nella fase 1 Alessia, che insieme alla sua ex compagna Chiara porta avanti l’affido condiviso del figlio Levon, di quasi sei anni, sperava nel “buon cuore degli agenti”. «Siamo stati insieme per tanti anni. Abbiamo deciso di avere un figlio poi ci siamo separate. Forse sulla carta siamo un affetto stabile adesso. Ma vai a capire. Il giorno prima dell’ultimo discorso di Conte sono stata fermata dagli agenti mentre riportavo mio figlio dalla mia ex compagna. Tremavo e ho dovuto spiegargli cosa facevo con un minore, legalmente non mio, in macchina e lontana dal mio domicilio. Per fortuna hanno capito. Uno degli agenti ha un’amica lesbica. Abbiamo iniziato a parlare di stepchild. È andata. Chissà in futuro».
Lucia, invece, è felicemente sposata con Clara («All’estero», specifica, «poi l’Italia ci ha degradato a unione civile ma noi diciamo sposate»). Due figli. Anita è nata nel 2013 dopo un percorso di procreazione medicalmente assistita. Dante è nato nel 2017. Lucia di professione fa la libraia e non ha mai smesso di lavorare, così come Clara, medico di base. «Avremmo dovuto chiedere un contributo per la baby-sitter. Lo ha fatto Clara da sola. Se l’avessi dovuto chiedere io sarebbe stata una tragedia, come sempre, e ancora di più adesso: collegarsi siti come l’Inps o l’Agenzia dell’entrate per fare qualsiasi richiesta è impossibile. Ci rimbalzano come un muro di gomma a prescindere dal diritto acquisito». La prova dei fatti è semplice: ci si collega al sito, si accede alla domanda per il bonus baby sitter e si inserisce il codice fiscale dei genitori Lucia e Clara. Errore. Sono due donne. Accesso negato.
I neo-papà chiudono questo girone di dimenticati. L. e M., una storia d’amore lunga 12 anni. «Abbiamo una bambina nata nel dicembre del 2013 in Florida. Agli atti risulta figlia solo del genitore biologico perché il nostro comune non accetta la trascrizione. Restiamo appesi a una sentenza che dovrà stabilire l’adozione in casi speciali, sospesa dal coronavirus». Ma non è questo che li preoccupa: «Avevamo deciso di allargare la famiglia», spiegano, «ma nel pieno della pandemia ci troviamo con una gravidanza arrivata all’ultimo trimestre e noi bloccati qui. Chissà se riusciremo ad arrivare in tempo per assistere alla nascita di nostro figlio».
Il figlio nascerà grazie alla tecnica della maternità surrogata, con ovulo di una donna e gravidanza portata avanti da un’altra. Il coronavirus rallenta così un progetto che nasce da pensieri lunghi: l’informazione, l’organizzazione, i viaggi. I contatti stretti con la portatrice spesso visitata oggi sono fisicamente interrotti, continuano solo via Skype. «Una mamma dolcissima già con i suoi due bambini. Anche lei, con tutta la sua famiglia, è preoccupata della situazione. Nel momento in cui la bambina nasce, essendo stata riconosciuta dal tribunale statunitense come nostra figlia, si troverebbe a dover restare da sola in ospedale mentre noi siamo bloccati in Italia. Speriamo di arrivare negli Stati Uniti in tempo».
Attese, speranze. «Avevamo un sacco di progetti. Volevamo fare una riunione con la gestante della nostra figlia maggiore con la quale continuiamo a coltivare un ottimo rapporto. Ma al momento tutto è incerto». Come il tempo della comunità Lgbt. Un tempo fatto di fortune e sfortune, insofferenza e ansia. Un’indifferenza che ancora una volta mette ai margini.