
[[ge:rep-locali:espresso:285344701]]
È a lui che, raccontano le cronache, tocca rinunciare pure alla cena di mezzanotte per andare a fare toc toc alla stanza del premier, a sua volta impegnatissimo (figuriamoci) a rivedere decreti e commi, per annunciargli l’ennesima rivolta delle regioni. È a lui che tocca l’ospitata alla Vita in Diretta nel primo giorno dei barbieri e dei bar, per ammonire cautela. È a lui che tocca, di domenica, stare in Protezione civile fino alle sette di sera per poi, del tutto casualmente, parlarne con la Stampa («sono stanco, sono ore che parlo e non vorrei, mi sono fermato solo il giorno di Pasqua»), perché proprio quello è il giorno in cui si programmano gli invii di medici e infermieri volontari su tutto il territorio. Ma non dovrebbe pensarci Roberto Speranza, come per la app Immuni?, chiederebbero gli ingenui. A inizio emergenza, in effetti, il ministro della Sanità figurava giusto a fianco di Conte nelle riunioni alla Protezione civile; a fine emergenza è finito praticamente tacciato di letargia - era infatti quello che non rispondeva al telefono, e forse dormiva, mentre i prodi premier e vice fronteggiavano i governatori. Ora, se alla capacità del titolare della sanità bisognerà dedicare un capitolo a parte (vedi alla voce: capro espiatorio), adesso è appunto il momento di Boccia. Nonostante tutto.
L’ultimo suo atto da semplice ministro di Conte, prima dell’inizio dell’emergenza, è a rivederlo oggi tutto un programma. Straordinario quanto a tempismo. Il 22 febbraio Boccia annunciava infatti roboante che il martedì successivo avrebbe portato in Consiglio dei ministri l’epocale «riforma delle autonomie», cioè la naturale prosecuzione di discorsi imprendibili come quelli su devolution e federalismo che, nelle sue mani, era diventata da mesi l’atto simbolico per segnare l’esistenza in vita e nel governo (essenziale per «completare l’autonomia scolpita nella Costituzione», strombettava sul Foglio). Quel martedì successivo, invece, l’Italia era già terza al mondo per diffusione del coronavirus, coi casi aumentati del 45 per cento in un sol giorno. Altro che riforma. Ma c’è di più: l’autonomia che fino al giorno prima Boccia si vantava di aver trasformato in «solidale», superando quella «differenziata», «del tutto contro tutti», «nord contro sud», gli si è in tempo di virus rapidamente rovesciata contro. Dal temibile schermo al plasma a 20 quadratini da cui i governatori hanno ripetutamente rintuzzato in video call le decisioni del governo, infatti, è spuntata in effetti una straordinaria voglia di egualitarismo uguale e contrario. Per una volta era infatti la Lombardia a voler fare come la Campania, e non viceversa. Chiudere come la Campania, Riaprire come la Campania. Mai successo prima. E Boccia, con Conte, ha lasciato che fosse. Senza scomporsi.
Del resto lui, già giovane di Andreatta, assistente di Letta, perdente di Vendola, marito di De Girolamo, sostenitore di Emiliano, è l’uomo della resistenza: «Le peggiori sconfitte sono le battaglie che non si fanno», è il suo motto, ripetuto puntualmente ad ogni batosta. Ha funzionato, pare. Oggi, infatti, è nel governo dell’orgoglio pugliese: quello della ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova che è di Ceglie Messapica come il portavoce di Conte Rocco Casalino, quello dello stesso premier , che è cresciuto a San Giovanni Rotondo e nato a Volturara Appula (tra le etimologie: terra degli avvoltoi), quello appunto di Boccia da Bisceglie. Quindici anni fa, lui diceva che la sua è una «Regione che ha perso l’orgoglio di essere pugliese»: è questa, nel 2004, una delle primissime dichiarazioni del giovane che tentava di agguantare, invano, la possibilità di essere il candidato per il centrosinistra alla guida della regione allora governata dal berlusconiano Raffaele Fitto. In quei tempi Boccia, giovane economista, approdato all’Arel grazie a un paper inviato quando stava alla London school of economics, poi consigliere di Enrico Letta al ministero dell’Industria, da assessore al bilancio nella giunta barese di Michele Emiliano fu spedito a fare il candidato d’apparato nelle primarie contro Vendola, incarnazione ultima della sinistra radicale. Anche lì, un po’ come poi per la riforma delle autonomie, con un tempismo epocale: l’astro allora nascente del bertinottismo proprio in quella occasione si fece carne e voti, con un exploit - per l’epoca - pazzesco. Vendola, lo sfavorito, vinse di misura. Contro tutto il resto del centrosinistra, da D’Alema a Prodi, che pure qualche mese dopo avrebbero fatto un governo. Erano i tempi pre-Pd, quando il centrosinistra riusciva a perdere anche le primarie.
E Boccia, in perfetta linea con la parabola storica del Professore a palazzo Chigi, ci riprovò una seconda volta, come Prodi. «Non ho la vocazione al suicidio», assicurava cinque anni dopo, quando sempre contro Vendola rifece le primarie in Puglia: nella serata conclusiva della sua campagna elettorale intervenne Franco Califano con “Tutto il resto è noia” , saltò fuori che persino nel suo stesso comitato molti votavano Vendola, si brindò con Ernesto Carbone - allora lettiano, poi renzianissimo, ora non rieletto ma al sicuro nel cda di Terna. Risultato finale: invece che il 49 per cento, come la prima volta, Boccia prese il 27.
Reagì con modalità davvero lettiana: «Sono sereno», ebbe a dire. Era all’epoca un alfiere dell’alleanza larga, con i centristi («il mio sacrificio non è stato inutile, le primarie sono servite per tenere in piedi l’alleanza con l’Udc»), mentre vedeva di malocchio Beppe Grillo e Marco Travaglio, che l’attaccavano per la sua appartenenza all’establishment. E sembra un paradosso perché poi, con l’arrivo di Renzi, Boccia quella storia delle larghe intese alla fine l’ha dovuta abbandonare: per diventare sostenitore, senza se e senza ma, dell’alleanza organica coi Cinque stelle. Al punto addirittura da dire che, l’estate scorsa, che la crisi d’agosto lui l’aveva vista arrivare già a luglio. E che, comunque, con l’approdo al governo dei giallorosa siamo a un tornante della storia politica paragonabile al «’96 per il centrosinistra» e al ’94 per Berlusconi. Mentre, ormai, il centro «non esiste».
Prima di Renzi, invece, Boccia aveva precorso i tempi di una pacificazione col berlusconismo, anche nel privato: s’era fidanzato con Nunzia de Girolamo, allora parlamentare di Forza Italia, nel 2009. Quando cioè Berlusconi era ancora a Palazzo Chigi. Un secolo prima che i rispettivi partiti andassero, variamente, al governo insieme.
Lettianissimo, Boccia non è stato al governo proprio con Enrico Letta. Ci andò infatti sua moglie, che poi passò nell’Ncd di Angelino Alfano. Boccia si contentò di stare nel pubblico al Quirinale, nel giorno del giuramento da ministra delle politiche agricole. E, tirato e compreso, le mani giunte, un pugno di mesi dopo, in un’Aula della Camera semideserta (pure i grillini erano solo 11 su 105), senza applaudire, quando lei dovette dimettersi per una spy story beneventana, nel giorno di gennaio che di fatto segnò la fine di quell’esecutivo, proprio mentre, al contrario, entrava in scena il Patto del Nazareno, siglato dall’anti-Letta per eccellenza, Matteo Renzi. In quel tempo, per dire il personaggio, Boccia s’acquattò a fare il presidente della Commissione Bilancio, poltrona che negli anni Ottanta era stata di Andreatta, ma con un rapporto di simpatia con Paolo Cirino Pomicino, che di Andreatta era stato avversario. Un esempio della quotazione che aveva in quella fase: il poi governatore dell’Emilia, Stefano Bonaccini, da renziano, ritwittò senza problemi il cinguettio: «Ma se ci leviamo dalle scatole la De Girolamo, possiamo salutare anche quel simpaticone di Boccia?».
Sostenitore invariabile di Michele Emiliano, oggi governatore della Puglia, («Fare una domanda a me su Michele è come chiedermi se tifo Juve o no», ebbe a dire una volta, da presidente dello Juventus club Montecitorio) adesso se lo è ritrovato controparte nelle battaglie tra governo e regioni. Come Bonaccini, del resto, o del quasi silente Nicola Zingaretti. Ma senza drammi. L’epoca che per alcuni è pervasa di mediocrità, per altri può essere scintillante. E da quando, il 5 settembre scorso, ha potuto replicare al Quirinale, a parti invertite, la scena del giuramento – unico caso nella storia di coppia di ministri, dopo il duo Franco Bassanini-Linda Lanzillotta - con la De Girolamo nel frattempo divenuta personaggio televisivo, e a grandissimo suo agio giusto a chiacchierare con Rocco Casalino, Francesco Boccia si sente dalla parte della storia, adesso, finalmente. È arrivato a paragonare Conte ad un Bearzot, non a caso: non tanto perché Bearzot sia l’allenatore della squadra campione del mondo. Ma perché Conte è una specie di Boccia che ce l’ha fatta.