L'Italia non è solo bianca e cristiana. Ci sono 800 mila ragazzi di colori e credo diversi, nati qui, eppure ancora considerati "strani", non parte del tutto. Una questione di legge, ma soprattutto di cultura. Dialogo tra due intellettuali italiani di origine africana e araba. Tra razzismo, ius soli e mentalità coloniale

Due figlie della migrazione, nate negli anni '70. Due donne italiane che per gran parte della loro vita hanno vissuto in un'Italia che non le ha considerate sue figlie. E la ripartenza, la ricostruzione dopo il virus. Una ricostruzione che non deve essere solo economica, ma anche culturale, di mentalità. Un dialogo sul futuro tra Leila el Houssi, docente di storia del Nord Africa e del Medio Oriente all'università di Firenze, e Igiaba Scego, scrittrice e ricercatrice.


Leila El Houssi: «A quante cose dobbiamo rinunciare? A quante possibilità? A quante prospettive? A quanti sogni? Noi, ragazzi della seconda generazione, italiani di seconda categoria, non italiani. Siamo di colori, religioni, idee diverse; ma siamo tutti uniti in un profondo dolore perpetrato da azioni retrograde e razziste». È il monologo di Said Mahran, protagonista del film uscito nelle sale nel 2013, Sta per piovere, interpretato dal bravissimo Lorenzo Baglioni. Il regista Haider Rashid, anch’egli di seconda generazione, ci racconta di un ragazzo di origine algerina, nato e cresciuto a Firenze, che per mantenersi agli studi lavora come panettiere. E quando il padre di Said a causa della crisi economica perde il posto di lavoro, la richiesta di permesso di soggiorno viene loro respinta. La conseguenza qual è? L’espulsione e il rientro immediato in Algeria. Ma l’espulsione da dove? Dal paese dove Said e suo fratello sono nati e cresciuti (che è l’Italia)? Dal paese dove il padre risiede lavorando da oltre trent’anni? E il rientro in quale paese? In un paese dove Said e il fratello non sono mai stati? Said e la sua famiglia diventano all’improvviso stranieri. Stranieri agli occhi della legge, stranieri agli occhi del mondo.  Ma sono stranieri o sono italiani? Questa è la domanda che accompagna il film dall’inizio alla fine; ma che fondamentalmente riflette il sentire della società nella quale viviamo. Ci si ritrova spesso a ragionare per categorie che si escludono: "o sei italiano o sei straniero”. E quante volte soprattutto negli ultimi vent’anni anch’io mi sono chiesta sono italiana? Sono straniera? Tu Igiaba te lo chiedi?
 
Igiaba Scego: Io sento tanta stanchezza dentro, Leila. Sono lacerata da questo mancato riconoscimento dei nostri corpi e del nostro contributo al paese. Purtroppo ancora oggi la nostra Italia è immobile. Ha troppa paura di affrontare una realtà in cui essere italiani non significa solo essere bianchi o cristiani. Oggi siamo bianchi, cristiani, ma anche afrodiscendenti, musulmani, italoasiatici, induisti etc. Siamo un paese fatto di tante complessità. Poi va detto noi figli di migranti, cosiddette seconde generazioni (termine che mi è venuto a noia) stiamo qui da tanto, ma siamo sempre invisibili. Il paese non ci vede e ci considera ancora strani. E invece siamo sempre stati qui. Abbiamo vissuto i drammi e le sofferenze di questo paese. Abbiamo vissuto i terremoti, gli attentati (io ancora ricordo quanto ho pianto per Falcone e Borsellino, quanto ho pianto per Ilaria Alpi), le sciagure, ma anche le gioie. Ora che siamo in un tempo pandemico, sotto scacco di un virus che conosciamo ancora così poco, io vorrei tanto che ci fosse il coraggio di fare come dice il giovane Goffredo Mameli nel suo Il canto degli italiani, poi diventato nostro inno nazionale, ovvero «di fonderci insieme». Servirebbe adesso costruire l'Italia del futuro, mettendo mano al più presto ad una riforma organica della legge sulla cittadinanza. Non è possibile che oggi abbiamo degli italiani di serie A dotati di tutti i diritti e degli italiani di serie B, ovvero tutti gli italiani di fatto nati da genitori migranti che oggi si vedono esclusi dalla cittadinanza. Il percorso andrebbe reso più agevole, meno burocratico. Andrebbe riconosciuta la realtà di persone che qui hanno vissuto quasi tutta la loro vita e che rischiano di essere etichettati come alieni nel paese dove sono nati e/o cresciuti. Mameli dice un'altra cosa nel suo canto: «Uniamoci, amiamoci, l’Unione, e l’amore. Rivelano ai Popoli, Le vie del Signore». Mameli aveva proprio ragione. Non a caso era un giovane idealista che per un sogno ha perso la vita. Solo l'amore ci può salvare. E sarebbe un atto di amore e di giustizia mettere finalmente mano a questa benedetta riforma della cittadinanza.    
 
Leila El Houssi: Vivo anch’io la stanchezza. La stanchezza di dovermi “spiegare” e “narrare” a chi mi considera “altra”. Ma com’è possibile, mi chiedo, essere “altra” nel mio paese? Sono nata negli anni Settanta in un‘Italia che stava attraversando grandi trasformazioni: gli anni di piombo, il terrorismo, i sequestri di persona e poi il compromesso storico. Sono cresciuta nell’illusione dell’effimera rinascita degli anni Ottanta e ho vissuto la gioia della fine della guerra fredda. Ma io, il razzismo, nella piccola città di provincia del nord Italia, dove sono nata e cresciuta, non lo percepivo. C’era una profonda curiosità da parte del mio piccolo mondo verso il mio essere figlia di più culture. Mi sentivo ed ero italiana, nonostante la cittadinanza mi venne concessa solo dopo alcuni anni dalla mia nascita. Poi, improvvisamente, si è prodotta una sorta di cortocircuito. La mia città e la mia regione hanno cambiato abito. La curiosità è stata repentinamente sostituita dal sospetto e in seguito dall’intolleranza. In quel momento ho compreso che alla pluralità di cui tu parli, venivano chiuse le porte. In quel momento ho compreso che il mio corpo e la mia mente subivano la medesima sopraffazione del corpo e della mente che la mia famiglia paterna aveva subito durante il colonialismo. Ho fatto mie le parole di Albert Memmi: la differenza fa paura! Il cortocircuito che si è innescato è, tuttavia, da attribuire a molti fattori. In primis non possiamo esimerci dal dire che intorno alla proposta della legge sullo ius soli sia stata condotta una campagna mediatica ambigua che ha creato enorme confusione. La proposta, poi, è stata strumentalizzata politicamente, mettendo insieme sicurezza, terrorismo, integrazione. Quando in realtà la legge era relativa a tutt’altro. 
 
Igiaba Scego: Sono nata negli anni '70, ma devo dire ero troppo piccola per ricordarmi qualcosa. Ho una immagine sfocata in mente di Supergulp, sai i fumetti in TV? Nick Carter l'investigatore? Ecco lui! Per me gli anni '70 sono stati anche i cartoni animati con i robot giapponesi che al posto dei seni avevano missili. Invece ricordo benissimo gli anni '80 e sono stati brutali. Io sono cresciuta a Roma. Una città dove è racchiuso tutto il bene e tutto il male. Roma è una città che vive di estremi. E il razzismo da subito è stato terribile. Questo anche perché i miei genitori, in fuga dalla dittatura somala, quando sono arrivati qui non conoscevano bene le coordinate della città. Loro in giovinezza erano venuti in Italia, ma ne avevano conosciuto la faccia glamour. Mio padre era un uomo politico e mi ha sempre raccontato di quella Italia del boom che credeva in se stessa più che mai. Mi ha raccontato di quelle splendide olimpiadi del 1960 dove la città era tutta luccicante e in tiro. Ha visto Abebe Bikila vincere la maratona vendicandosi così dei torti coloniali subiti dalla sua Etiopia. Ma poi quando i miei sono venuti qui da rifugiati, non conoscevano la vita reale dell'Italia. E sono finiti in un quartiere molto conservatore della capitale. Per me piccola è stato un incubo. Ero la “negra”, quando mi andava bene mi chiamavano con il nome di quel personaggio dello sceneggiato tivù "Radici", Kunta Kinte, perché per loro il mio destino poteva essere solo la schiavitù. A scuola mi arrivavano colpi in testa e sulle spalle. Tornavo a casa sempre con qualche ferita. E raccontavo bugie ai miei del tipo che ero scivolata, che ero caduta. Un compagno piuttosto perfido mi aveva anche versato degli insetti neri in testa. Li teneva dentro un barattolo. E ancora mi ricordo le sue parole quando mi ha versato in testa tutti quegli esserini neri e brulicanti “Ecco questi sono neri come te. Giocate insieme”. Ero diventata una bambina taciturna e perennemente impaurita. Mi ha salvato la maestra elementare che ha fatto un grosso sforzo per spiegare agli altri che non mi dovevano trattare così, mi ha salvato la mia famiglia e si i libri dove trovavo aria fresca da respirare. Devo dire che questa palestra tra asilo e primi anni di scuola elementare mi hanno molto rafforzata. E con il tempo ho cercato di capire come mai il nostro corpo nero subiva quel trattamento. Insomma è da tutte quelle angherie che da bambina subivo che è nato il mio bisogno di giustizia e di lotta contro l'afrofobia. Angherie che continuano ancora oggi su corpi dei neri che arrivano anche al culmine di aggressioni fisiche. Abbiamo i nostri martiri. Penso a Abba preso a sprangate per un pacco di biscotti, penso a Emmanuel steso dal pugno di un razzista che gli aveva insultato la moglie, penso alle 63 coltellate di Giacomo Valent nel 1985. L'afrofobia è un retaggio di quella storia coloniale e postcoloniale mai discussa, mai veramente superata, e le sue scorie le sentiamo addosso ancora oggi. Io sono convinta che l'odio coloniale per il nero suditto, il nero ridotto a merce, sia alla base della mancata presa di coscienza odierna dei diritti dei migranti e dei figli di migranti tutti, di qualsiasi colore o religione. Nella testa di chi ha fatto le leggi non c'era la visione dell'altro come cittadino, ma l'altro come colonizzato, ovvero essere umano con meno diritti. Questo l'ho sempre trovato grave. Ecco perchè l'Italia ha bisogno di essere decolonizzata. Affinché queste strutture profondamente razziste e coloniali possano essere spazzate via. Senza decolonizzazione delle menti e delle strutture anche delle istituzioni, temo non ci possano essere nemmeno diritti.
 
Leila El Houssi: Me lo ricordo il grandioso Nick Carter che se la doveva vedere con il terribile Stanislao MoulinskySuperGulpe i cartoni animati giapponesi. Ricordo quando con i miei amici da piccola stavamo ore a discutere sull’ultima puntata di Goldrakee aspettavamo con ansia quella successiva e, sorridevo all’invidia bonaria di alcuni quando l’estate andavo per le vacanze estive a Tunisi  dove trasmettevano in un canale della tv tunisina episodi non ancora trasmessi in Italia. Insomma, come ti dicevo, durante  la mia infanzia a Padova non ho vissuto intolleranza ma curiosità benevola. È stato in età adulta che ho scoperto il razzismo. E il giorno in cui tutto è cambiato è stato quel maledetto 11 settembre. Da quel giorno chiunque ha cominciato a rivolgere a me e mio padre uno sguardo diverso. Ho scoperto che il mio nome e il mio corpo erano improvvisamente diventati “stranieri”. L’episodio che ha cambiato la mia prospettiva risale a qualche mese dopo quel tragico evento quando nell’accompagnare mio padre a Venezia, dove insegnava all’Università, mi accorsi che sul treno regionale gli occhi di tutti erano puntati su di noi. C’era terrore misto a odio nel loro sguardo. Non capivo il perché, finché una donna nel sedile difronte si alzò e sussurrò in modo ossessivo al bigliettaio che c’erano degli arabi. Ricordo che fu quello il momento in cui il piccolo mondo che, fino a quel giorno era il mio grande mondo, mi crollò addosso. Mi resi conto che l’Italia, che avevo vissuto sino a quel momento aveva cambiato abito. Alcuni mi dicevano negli anni successivi “torna a casa tua!” quando la mia casa era la piccola città del Veneto. Sai, come dice Ghali nella sua canzone “quando mi dicono a casa: rispondo sono già qua!”.  Poi è cominciata la migrazione verso l’Italia e anche coloro che mi conoscevano da sempre mi facevano la battuta “dove lo hai parcheggiato il canotto?”. L’ironia era fuori luogo e terribilmente irrispettosa nei confronti di persone che avevano subito un viaggio di violenza e di dolore nel Mediterraneo. Ero in grande difficoltà perché non potevo raccontare quello che provavo a mio padre, tunisino, che come il tuo mi aveva sempre rivelato quell’Italia dell’ospitalità e del “boom che credeva in se stessa più che mai” e a mia madre italiana, che nel 1969 si era, semplicemente, innamorata di un uomo dell’Altra riva. Dovevo preservare il loro mondo. Si, cara Igiaba, fu quel giorno che feci a mia scelta, decisi di superare le barriere e di lottare attraverso l’unica arma che possedevo: quella culturale. Per quello m’imposi di entrare all’Università. L’obiettivo era di raccontare la nostra Storia alle giovani generazioni perché solo attraverso un’educazione alla “diversità” si può far comprendere quanto la pluralità culturale sia una ricchezza. Oggi non posso permettere che i giovani figli di più culture subiscano quel dolore che, con alcune differenze, cara Igiaba abbiamo provato entrambe. Perché io ne sono convinta: solo con la cultura possiamo sconfiggere l’intolleranza. Tu lo fai con la scrittura, io con l’insegnamento e tanti altri come Takoua Ben Mohamed con il fumetto, Esperance Hakuziwana con i suoi libri, Ebla Ahmed con l’associazione contro la violenza sulle donne, Angelo Boccato con il giornalismo, Haider Rashid con il cinema e Ghali con la musica. Noi con la cultura possiamo decolonizzare l’Italia, ne sono convinta.
 
Igiaba Scego:  Io adoro Takoua Ben Mohamed, sono una big fan. È una ragazza intelligente, generosa e la cui ironia trasuda dai suoi fumetti. E poi è sempre così elegante, cool, non a caso ha lavorato recentemente ad un documentario sulla moda e sulla cosiddetta Modest fashion per Al Jazeera. Una ragazza tanto tunisina, ma tanto tanto romana. E io trovo scandaloso che ragazze come Takoua non abbiano la cittadinanza del paese in cui non solo vivono, ma di cui sono anche in un certo senso delle testimonial non solo qui in Italia, ma anche all'estero. Questi ragazzi sono ponti, con le loro doppie lingue, i loro doppi sguardi. Per l'Italia sono una grande ricchezza. Ma l'Italia li rifiuta. Abbiamo una politica, fatta di tutti maschi, tutti bianchi, tutti con poca esperienza transculturale sulle spalle che alla fine, ed è questo il paradosso, sono chiamati a decidere (proprio loro!) della sorte di questi ragazzi che ormai appartengono al mondo. Ogni tanto leggo delle vicissitudini di Takoua sulla cittadinanza sui social e vedo come condanniamo giovani vite, interi gruppi famigliari, a una precarietà ingiusta. La cittadinanza in Italia, questo andrebbe spiegato a tutti, è stata trasformata in un iter burocratico simile aduna di quelle bolge dantesche dove ti può succedere di tutto. Dove ti chiedono mille volte lo stesso documento, dove ti chiedono mille volte il tuo nome, perché le prime mille volte precedenti lo hanno scritto male e quindi devi riparare tu all'errore, o a più errori, degli uffici competenti. C'è una burocratizzazione estrema nel processo di cittadinanza che di fatto rende questa esperienza un incubo. E la burocrazia lo sappiamo è uno dei problemi annosi del paese. Ma per quanto riguarda la cittadinanza è anche una barriera, una sorta di cane a tre teste che ti morde se provi ad avvicinarti. Un confine messo in mezzo ai corpi per delimitare un "noi" da un "loro". In Italia come sai c'è il diritto di sangue, cioè il figlio o il nipote (il bisnipote) di un italiano ha diritto alla cittadinanza italiana. Quando sono andata in Brasile ne ho incontrate tante di persone di origine italiana, che non sapevano l'italiano, ma avevano la cittadinanza pur non avendo una grossa connessione con l'Italia. In generale penso sia una buona cosa che i discendenti degli emigranti italiani siano italiani. Credo che sia importante conservare un legame con la madrepatria degli antenati. Vivo la stessa condizione con la Somalia, pur essendo italiana non vorrei perdere la possibilità (anche se non ho fatto ancora nessun passo per formalizzare questo mio desiderio) di essere connessa al paese dei miei genitori. Ma ecco lo ius sanguinis può convivere con lo ius soli, non sono un diritto contro l'altro, ma un diritto che si somma ad un altro. Così in un mondo più giusto ragazze come Takoua italiane per diritto di suolo, nate, cresciute qui e che qui si sono inventate, reinventate finalmente avrebbero il diritto di essere quello che sono già. Parafrasando Ghali potremmo dire che Takoua è un po' italiana, un po' tunisina. Ed ecco questo essere un po' di tutto è la vera ricchezza. Ma l'Italia della politica quando lo capirà? Perchè sai io penso che sulla cittadinanza per i figli di migranti si sia consumato un tradimento. C'è chi da posizioni suprematiste si è opposto al varo della legge, ma da parte dei vari progressisti che a parole (parole spesso molto vuote) appoggiavano la battaglia, poi non ci sono state azioni concrete. La legge è morta e rimorta innumerevoli volte. Mi ricordo che in piazza ci sono state poche persone ad appoggiarci dal mondo politico. E di piazze me ne sono fatte tante dal 2005. Siamo sempre stati visti come un fenomeno quasi folkloristico da tutto l'arco parlamentare. Io sai Leila ho paura di morire senza vederla questa riforma della cittadinanza. Oggi ho 46 anni, non sono più giovane, e con tanti abbiamo combattuto, abbiamo pianto, siamo stati creativi, ci siamo disperati in quelle piazze per la cittadinanza. La mia generazione e quella dopo ha dato il sangue. Mi sento male se penso che a Takoua (che ha 29 anni) è ancora negato questo diritto. È estremamente ingiusto.

Leila El Houssi: Anch’io adoro Takoua. Lei è un’eccellenza made in Italy, una giovane donna che a livello internazionale promuove l’Italia. Quell’Italia che non le ha ancora concesso legalmente di esseere cittadina. E quando la incontro o la sento le vorrei dire stiamo lottando per te… anche per te! Sai Igiaba,non dimenticherò mai quel 23 dicembre di tre anni fa in cui abbiamo assistito al fallimento dello Ius Soli per la mancanza del numero legale al Senato. Ricordo i commenti di politici, giornalisti e analisti che in realtà non rispondevano al perché a ottocentomila persone era preclusa la possibilità di diventare cittadini italiani. Io come te, ci speravo, Igiaba, di avere finalmente una riforma della cittadinanza. Ma questo non è avvenuto! Anch’io penso si sia consumato un tradimento. Noi due, nate negli anni ’70, abbiamo vissuto il susseguirsi di riforme importanti sulla cittadinanza ma questo nodo non si è mai voluto affrontare. Ancora oggi la scelta è quella di non ascoltare i figli e le figlie di questo paese che hanno un’origine diversa. Siamo consapevoli che in quella riforma del 2017 vi erano molte criticità in quanto non si trattava di un vero ius solivisto che non prevedeva che chi nasceva in Italia ottenesse automaticamente la cittadinanza, ma era posto ad alcune condizioni tra le quali quella relativa al fatto che uno dei due genitori dovesse trovarsi legalmente in Italia da almeno 5 anni, quella dell’avere un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale e disporre di un alloggio che rispondesse ai requisiti di idoneità previsti dalla legge nazionale. Siamo consapevoli che criticità erano presenti anche verso l’altra condizione per ottenere la cittadinanza, il cosiddetto ius culturae in cui avrebbero potuto chiedere la cittadinanza italiana, i minori stranieri nati in Italia o arrivati entro i 12 anni che avessero frequentato le scuole italiane per almeno cinque anni e superato almeno un ciclo scolastico (cioè le scuole elementari o medie). Ma l’approvazione di quella riforma sarebbe stata un importante passo in avanti di una legislazione ormai obsoleta. In questi tre anni, abbiamo avuto le elezioni politiche che hanno visto la nascita di due governi con maggioranze diverse e tuttavia non si è più posta la questione. La riforma è stata completamente cancellata. È stata dimenticata. Ma ottocentomila persone non possono essere dimenticate dal proprio paese, perché, volenti o nolenti, la politica italiana non può continuare a renderle invisibili. Oggi stiamo vivendo un momento drammatico, causato dalla pandemia covid 19, e saranno molte le difficoltà che l’Italia dovrà affrontare. In questo, la politica deve comprendere che per fronteggiare lo scenario futuro avremo bisogno di sentirci tutte/i parte della nazione… e ottocentomila persone devono poter dire “io sono italiana/o, come voi!”. 
 
Igiaba Scego: Negli Stati Uniti pochi giorni fa hanno ucciso un altro fratello nero. La violenza è sistemica sul corpo dei neri in America e non solo. L'uomo ucciso si chiamava George Floyd e hanno distrutto il suo corpo per un controllo di polizia. Lo hanno praticamente soffocato. Lui implorava “non posso respirare”, “non mi sento lo stomaco”, ma loro imperterriti gli hanno tolto anche l'ultima boccata di ossigeno. Ora George Floyd era cittadino degli Stati Uniti, come anche Abba preso a sprangate e ucciso nel 2008 per un pacco di biscotti era cittadino italiano. La cittadinanza, ne sono consapevole, non è l'unica difesa che abbiamo, anzi è una coperta molto fragile. A volte non ti può difendere da chi ti vuole soffocare, distruggere, umiliare, massacrare. La cittadinanza non ha salvato George e Abba. Non ha salvato Trayvon Martin in US o Giacomo Valent qui. Sono morti male, in solitudine, spaventati. Mi fa male pensare a tutte queste giovani vite che nel tempo sono state sistematicamente distrutte nel fiore dei loro anni migliori. Come la vedo io, i fenomeni che hanno attraversato i corpi dei nostri antenati come la schiavitù e il colonialismo non sono mai finiti veramente, si sono solo evoluti, e ora colpiscono con violenza i corpi del nostro presente, inclusi i nostri. Ogni volta penso al seicentesco monumento dei quattro mori a Livorno, 4 schiavi incatenati ad un bianchissimo granduca di Toscana. Uno schiavo assomiglia a me, ha la pelle scura, e un altro, proveniente dalle terre del Maghreb, assomiglia tanto a te Leila, e devo dire un po' a Ghali, la stessa aria riflessiva e sognante. Ecco quella violenza, quelle catene che da secoli lacerano le carni di quei nostri lontani antenati, ora lacerano le nostre carni. Serve quindi una cittadinanza culturale oltre che legale. Ma senza quella legale non può esserci quella culturale. Troppa gente è privata del proprio diritto di essere cittadino italiano, stranieri perpetui nel paese dove sono nati. Questo deve finire! Soprattutto ora che il corpo del paese è ferito dal Covid 19 e che ci chiedono di ripartire. Ecco, se potessi decidere  io, cara Leil,a vorrei che ripartissimo dai diritti. Insomma #Cittadinanzasubito.
 
Leila El HoussiIl colonialismo, noi cara Igiaba, lo subiamo da generazioni. Le ferite psicologiche e fisiche le abbiamo vissute attraverso i racconti e i corpi delle nostre famiglie. Noi siamo, ahimé, le figlie del colonialismo ma anche, permettimi, dell’orientalismo che ha cucito su di noi un’immagine che non ci appartiene. Decolonizzare i corpi e le menti è un nostro dovere ma lo è anche decostruire l’immagine che hanno di noi. Noi lo dobbiamo anche ai nostri antenati che hanno combattuto contro la sopraffazione. So perfettamente che la cittadinanza non è l’unica difesa che abbiamo, ma lottare affinché i nostri fratelli e sorelle possano averla è un atto dovuto a loro, a noi e alle nostre famiglie. Noi dobbiamo cambiare questo sistema e lo faremo con i nostri corpi, con le nostre menti, con la nostra scrittura e dialogheremo con la politica. La politica non potrà non ascoltare quell’urlo che è dentro i corpi e le menti di ottocentomila persone. Quell’urlo che è anche dentro di noi, da sempre. Ce la faremo, Igiaba!