Tonnellate di oggetti utilizzati per contenere i contagi non vengono differenziati o smaltiti correttamente. E questo problema adesso deve essere affrontato (Foto di Rossella Santosuosso)

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Quanti di noi sono rimasti incantanti in queste settimane nel rivedere i delfini nel porto di Trieste o nella scoperta di cieli di nuovo tersi in città da decenni illividite dallo smog. Istantanee di una quarantena solo all’apparenza rassicuranti perché il conto ambientale del Coronavirus deve tener presente anche altro ed è un conto che ogni giorno, nella distrazione generale, sta diventando sempre più salato. Anche perché in due mesi di lockdown le tante voci governative non sono riuscite a indicare con chiarezza innanzitutto la via per smaltire milioni di mascherine e di guanti, e nelle prossime settimane rischiano di dover fronteggiare un fenomeno di proporzioni enormi: secondo una stima, ancora tenuta sotto traccia, del Politecnico di Torino molto presto gli italiani utilizzeranno (e smaltiranno) un miliardo di mascherine e mezzo miliardo di guanti al mese. Con una proiezione, entro fine anno, che porta a numeri da capogiro.

Un far west di materiale monouso e non riciclabile che si traduce, secondo l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra), in una quantità di rifiuti da smaltire compresa tra 150 mila e 450 mila tonnellate.

Ma dove finiscono questi rifiuti? L’Istituto Superiore di Sanità (Iss), in un rapporto quasi sconosciuto, raccomanda che «nelle case in cui sono presenti soggetti positivi al Covid-19 sia interrotta la raccolta differenziata e tutti i rifiuti domestici siano equiparati a rifiuti indifferenziati». In tutte le altre abitazioni non viene interrotta la raccolta differenziata, fatta salva l’indicazione di buttare «a scopo cautelativo, fazzoletti, mascherine e guanti» nell’indifferenziata.

«Abbiamo dato indicazione ai Comuni», spiega Federica Scaini, ricercatore Dipartimento Ambiente e Salute dell’Iss, «di privilegiare laddove è possibile l’incenerimento dei rifiuti indifferenziati anche se oggi nessuno sa quanto questo virus possa sopravvivere all’interno di un rifiuto».
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A questo si aggiungono le cattive abitudini che restano intatte. A poco più di due mesi dal lockdown vediamo mascherine e guanti in plastica abbandonati per strada o, ancora peggio, finiti in mare con un grave danno per l’ambiente marino. «Già oggi è come se nei nostri mari finisse un camion di plastica al minuto, non oso immaginare cosa accadrà se continueremo con questo consumo indiscriminato di usa e getta», dice Giuseppe Ungherese, responsabile Campagna Inquinamento di Greenpeace Italia.

Anche perché il Coronavirus ha cambiato il nostro modo di fare la spesa. I consumatori prediligono sempre più prodotti confezionati, percepiti più sicuri di quelli sfusi. L’Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare (Ismea) ne colloca l’incremento, nella sola Fase 1, attorno al 18 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente e parla di un aumento del 160 per cento, su base annua, dei servizi di spesa a domicilio e di un boom degli acquisti online. «Eppure i prodotti confezionati non garantiscono l’assenza di rischi sanitari, nemmeno quelli in plastica. Anzi la plastica è uno dei materiali su cui il virus sopravvive di più (72 ore) rispetto, per esempio, a carta e metalli», spiega Ungherese. Oggi in Italia consumiamo tra i 6 e i 7 milioni di tonnellate di plastica all’anno. Dopo il Coronavirus rischiamo di vedere crescere in modo esponenziale questo numero, mentre il sistema di riciclo non riesce a tenere il passo.

Al danno, infine, potrebbe aggiungersi la beffa, come dimostra l’uso massivo da parte dei Comuni dell’ipoclorito di sodio, la comune candeggina, nella pulizia quotidiana delle strade. La paura diffusa era, infatti, che il Covid-19 potesse entrare nelle nostre case tramite la suola delle scarpe. L’Istituto Superiore di Sanità ha chiarito che «non esiste alcuna evidenza che le superfici calpestabili siano implicate nella diffusione del virus» e che non ci sono informazioni scientifiche certe circa la sua efficacia sulle superfici esterne.

Ma c’è di più: usare l’ipoclorito di sodio sul manto stradale non solo è inutile ma può diventare altamente rischioso per la salute e per l’ambiente. Perché, è sempre l’Iss a mettere in guardia, «provoca gravi ustioni cutanee e gravi lesioni oculari e può causare irritazione respiratoria». Il suo uso, inoltre, «è associabile a un aumento di sostanze pericolose nell’ambiente, con conseguente possibile esposizione della popolazione e degli animali», spiega Giuseppe Bortone, coordinatore tema Ambiente e Salute del Consiglio del Sistema Nazionale di Protezione Ambientale (Snpa).

Il ricorso indiscriminato di ipoclorito di sodio può essere in grado di inquinare le acque superficiali e sotterranee e, come se non bastasse, il contatto con materiale organico, come quello esistente sulla pavimentazione stradale, può produrre sostanze cancerogene volatili. Per questo motivo Iss e Snpa ne raccomandano l’uso solo in casi strettamente motivati e con concentrazioni non superiori allo 0,1 per cento. Se e come i Comuni avranno rispettato questi limiti lo scopriremo solo più avanti e potrebbe non essere una scoperta piacevole.