Alla fine degli anni Cinquanta il grande semiologo collaborò all'enciclopedia Il Milione. Con testi acuti  che firmava soltanto U.E. E che non hanno perso fascino, attualità o ironia. Gli inglesi? «La storia della loro cultura è ribellione contro le regole assolute e le formule astratte»

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Di Umberto Eco si è detto e ridetto, in Italia e nel mondo, ma c’è un aspetto quasi ignoto se non del tutto sconosciuto della sua attività che merita di essere ricordato. Il 30 gennaio del 1959 oltre centomila italiani si recavano in edicola per acquistare il primo numero dell’Enciclopedia geografica De Agostini Il Milione, prima grande opera divulgativa venduta a fascicoli (“il settimanale che diventa libro” era lo slogan): 312 per la precisione, raccolti in 15 volumi. Giuseppe Sormani, che dirigeva l’opera, ne aveva affidato la cura ad alcuni esperti (Umberto Menapace, Lanfranco Caretti, Marco Valsecchi, Federico Curato, Domenico Porzio), cui spettò il compito di imbarcare centinaia di specialisti, scrittori ed inviati, per costruire un’impresa imponente e fino ad allora inedita. Fu così che qualcuno pensò ad un giovane brillante, e già per molti versi noto tra Torino e Milano (scriveva tra l’altro sul “Giorno”), laureatosi su Tommaso d’Aquino e dagli interessi molteplici.

Il giovane Eco veniva, dunque, reclutato nel nutrito gruppo dei redattori di un’opera, corredata da una doviziosa e seducente selezione iconografica, che avrebbe permesso agli italiani di portarsi a casa, in pochi anni e per la prima volta, le geografie, le culture e le storie delle città, dei paesi, dei popoli del mondo. Sul Milione i suoi contributi erano siglati U.E., ragion per cui è ancora oggi difficile rintracciarne immediatamente la paternità, se non previa consultazione di un fitto elenco di nomi e sigle in apertura di volume.

Siamo alla fine degli anni ’50 e all’inizio dei ’60, una fase cui appartengono alcune sue esperienze dal taglio divulgativo-popolare: un impegno culturale “basso”, certo non distante dal ruolo di programmista che esercitava in Rai dal 1954, che si affiancava a quello, più alto, per la “Rivista di estetica” o “Il Verri”. A questa sensibilità, ad esempio, era da ascrivere la “Storia figurata delle invenzioni” curata nel ’61 insieme a Giambattista Zorzoli, un successo in otto lingue la cui redazione aveva richiesto quattro anni di lavoro faticosi, sia per coordinare gli svariati contributi scientifici che per tradurli in testi accessibili al grande pubblico.

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Per Il Milione, dunque, Eco scriveva due corpose voci, una sugli usi e i costumi del Regno Unito (1959), l’altra su quelli della Grecia (1960), più un breve elzeviro sulla Persia (1962). Il primo era un testo di circa ottanta pagine, probabilmente scritto tra il 1958 e l’inizio dell’anno successivo; il secondo era più breve, poco più di quaranta, probabilmente coevo o di poco posteriore. Entrambi sono ancora affascinanti sia dal punto di vista narrativo che per il patrimonio di conoscenze che l’autore, senza pedanteria, mette a disposizione di un destinatario di massa, e nonostante il tempo trascorso meritano di essere riportati alla luce.

Degli inglesi Eco ci offre un ritratto succoso e interessante ancora oggi. Ne scrive con mirabile sintesi, sulla scorta della conoscenza di un raro libretto di Orwell del ’47 (mai tradotto né ristampato, “The English people”), sottolineando come «tra le caratteristiche salienti di un inglese troviamo l’insensibilità artistica, la gentilezza, il rispetto per la legalità, il sospetto verso gli stranieri, il sentimentalismo per gli animali, l’ipocrisia, la tendenza ad esagerare le distinzioni di classe e l’ossessione per lo sport». Al di là di tutto, però, il cuore vero dell’essere inglese, è il senso pratico, quel «vedere le cose dal punto di vista del loro rendimento alla luce del buon senso, senza chiedersi se esso contrasti o meno con determinati principi. Perché, rimarcava, «forse il tratto più caratteristico della mentalità inglese consiste nel rifuggire da qualsiasi tipo di astrazione, da qualsiasi principio logico, religioso, giuridico, filosofico, politico che non sia immediatamente identificabile con un caso concreto. Tutta la storia della cultura inglese è in fondo la storia di una ribellione alle formule astratte, alle regole assolute, valide per diritto divino o perché logicamente irrefutabili».

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La caccia alla volpe: la voce che Umberto Eco scrisse per il Milione
8/6/2020
E poi ci sono il senso di superiorità, l’odio per l’intolleranza, l’amore per l’equilibrio e quell’umorismo (molto inglese, appunto) «frutto del garbo con cui l’inglese sorride delle cose del mondo, nella conversazione quotidiana, nelle vignette dei giornali, nelle opere teatrali e letterarie» e che «ce lo mostra alle prese con l’arma sua più congeniale, con la quale lotta contro i suoi nemici principali: l’eccesso e la scompostezza». Equilibrio, umorismo, decenza, compostezza, superiorità tutti attributi che trovano per Eco le loro mirabili e irripetibili espressioni nell’ideale umano e sociale del gentleman e nella figura retorica dell’understatement.

Certo, a leggere oggi che il cardine della morale inglese è il senso della decenza o dell’equilibrio, quel senso che si materializza nell’orrore per «ogni tentativo di eccedere da misura e compostezza», mentre il pensiero corre alle dichiarazioni del primo ministro Johnson o ai tifosi del Liverpool, non si può fare a meno di sorridere; ma, al netto di un risibile presente, al fondo di quelle considerazioni si coglie pure oggi l’essenza di una secolare tradizione. Altrimenti perché quando «un francese viene presentato dirà che è “incantato” della cosa; un italiano cercherà di dimostrarvi che è “felice” e che prova “molto piacere”, un inglese invece vi domanderà semplicemente “come state?” (how do you do?)».
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Nelle semisconosciute pagine scritte per Il Milione, che per inciso non compaiono nemmeno nella finora più completa bibliografia sull’autore, quella in coda al monumentale volume collettaneo “The Philosophy of Umberto Eco” pubblicato negli States tre anni fa (ancora inedito in Italia), lo scrittore lega con un sottile filo rosso la mancanza tutta inglese di fantasia (mai evidente come nella cucina, chiosa ), la forza della rappresentanza di status più che quella di classe, il gusto perverso per il nonsense, il celebre e inspiegabile (per chi odia gli eccessi) puritanesimo, che è forse, afferma, l’ «inevitabile eccesso in cui cade chi si prefigge continuamente un ideale di decenza e compostezza».

Robusta e affascinante anche la voce, più breve, dedicata alla Grecia, nello stendere la quale Eco mostra non solo la profonda conoscenza di quella cultura ma anche un’eccellente capacità di raccontarla: «cos’ha dato la Grecia all’umanità? Anzitutto potremmo dire l’idea dell’educazione, della paideia. La civiltà greca ha avuto sempre l’uomo come oggetto centrale del suo interesse… In questo senso la Grecia rappresenta una svolta radicale della storia dell’umanità… Ma non fu questo l’unico contributo dei greci alla formazione della cultura occidentale. La Grecia antica fu il luogo dove prese forma e consistenza l’attitudine occidentale al ragionare astratto, allo spirito scientifico della distinzione e dell’unificazione». In fondo «se oggi entrando in casa giriamo una chiavetta e accendiamo la luce (utilizzando così forze della natura che l’uomo ha scoperto ed imbrigliato), ciò accade perché, grazie alla lezione greca, l’umanità ha imparato a mettere ordine nelle proprie esperienze, classificandole attraverso definizioni sempre più astratte, senza perdere mai di vista il concreto».

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La patria dell'uomo: la voce che Umberto Eco scrisse per Il Milione
8/6/2020
Il suo sguardo è più rivolto al passato, ma del presente di quella che fu la «patria dell’uomo» non rinuncia a cogliere i tratti: la crisi della lingua greca, scissa più di altre tra quella dei dotti, molto più vicina al greco antico, e quella demotica parlata da tutti, quei banchetti che si vedono nel Peloponneso non così dissimili da quello «dei Proci nel giorno in cui Ulisse fece ritorno ad Itaca» la cordialità schietta e l’ospitalità totale, «primitiva, senza sottintesi», le danze festose animate da una «barbara essenzialità».

Il terzo contributo di Eco è un elzeviro sulla Persia, nel settimo volume, il solo firmato per esteso da chi nel frattempo, siamo nel 1962, è diventato intellettuale famoso e controcorrente per la cultura italica. Di solito, scrive, si tende a «ridurre la Persia al Paese di fiaba tramandatoci dalle Mille e una notte e dai suoi grandi poeti», ma il lascito vero della cultura persiana per noi occidentali è il pensiero manicheo, un’eredità che, se «come dottrina rimane un fatto per dispute teologiche», «come costume fu una pianta rigorosa che dà frutti abbondantissimi», e perniciosi, «anche oggi», perché, come egli sottolinea, «si è manichei ogni volta che si pensa che ci siano i buoni e i cattivi, i nostri e i loro, la gente per bene e la gentaglia. Si è manichei ogni volta che non si sa cogliere la gamma insensibile delle sfumature e delle gradazioni di cui la vita si sostanzia, e si recide in modo netto, con intolleranza, con cecità, quando non si ammette la possibilità che dall’altra parte ci sia qualcosa di recuperabile. È manicheo il dogmatico di tutte le sette. Il manicheismo», conclude Eco, «è una dimensione della coscienza» che «alligna in ogni dove. Ma la sua formulazione culturale più compiuta l’ebbe in Persia, una Persia a cui siamo debitori di tutto un filone della nostra natura di uomini morali. Ma chi se ne ricordava più?».

Una lezione, come si vede, sempre attuale. Era la fine del 1962, un anno dopo pubblicherà (sempre a proposito di manicheismi…) “Apocalittici e integrati” e l’ultima citazione disegna perfettamente la cifra che da allora avrebbe animato la sua ricerca intellettuale. Lontana da qualsiasi settaria ortodossia.