Uno scritto davvero poco noto del grande semiologo comparso nell'opera divulgativa in 15 volumi nel 1960

Nel mondo dei filosofi greci, nei templi dei loro architetti, in una tragedia come in una orazione giudiziaria, quello cui l’uomo greco aspira è una forma unitaria che dia ordine a tutti gli aspetti senza confonderli in una unità indistinta. Il mistico orientale cerca di annullarsi nella vita del Tutto, nel paradiso del Nirvana, in cui non esiste più nessuna differenza, e uomini, cose, Dio, tempo e Nulla diventano una cosa sola.

L’uomo greco ha sempre mirato invece alla distinzione di tutte le cose, al vedere ciascuna nella propria fisionomia individuale, e tuttavia come unificate da una forma generale che le coordina, gerarchizza, classifica. È con questo atteggiamento mentale che l’uomo occidentale ha costituito i suoi sistemi scientifici ed ha avuto lo stimolo per ampliare sempre più la propria conoscenza del mondo ed il suo dominio su di esso. Se oggi entrando in casa giriamo una chiavetta e accendiamo la luce (utilizzando così forse della natura che l’uomo ha scoperto ed imbrigliato), ciò accade perché, grazie alla lezione greca, l’umanità ha imparato a mettere ordine nelle proprie esperienze, classificandole attraverso definizioni sempre più astratte, senza perdere mai di vista il concreto. Per questo l’uomo greco poté nutrire accanto ad un grande ideale, quello della contemplazione, un’altra spirazione, quella alla perfezione della vita associata: il massimo dell’astrazione unito al massimo della concretezza.

(Umberto Eco, La patria dell’uomo, in Il Milione, vol. IV, pag. 583, De Agostini,1960)