Urbanistica
«Ripensiamo gli spazi prima della prossima pandemia»
Il virus ha messo in crisi i vecchi modelli di abitazione. Per questo un gruppo di architetti ha già colto la sfida. Puntando su verde, aree di smart-working e servizi in condivisione
Blindati a casa, ci siamo raccontati che proprio la casa abbiamo riscoperto: il maniacale piacere del riordino, le foto d’antan, la seggiola sul terrazzino, la macchina per fare il pane con il lievito che neanche sapevamo a che servisse e ora andava a ruba. Vero, per carità: chi non c’è cascato in questo inatteso culto domestico, una volta privati della frenesia del mondo esterno, delle otto ore d’ufficio al pari dello sballo dell’apericena? Della casa (come degli ospedali, delle infrastrutture tecnologiche, dei sistemi di trasporto, dei luoghi di lavoro, del nostro stesso corpo) abbiamo però sperimentato, in clausura, anche tutte le inadeguatezze, magagne, carenze, inefficienze, sprechi. Fantastiche quelle dirette Facebook, ma proprio adesso si doveva infilare nell’inquadratura il marito in mutande? Che scoperta l’e-learning, onore e lode a maestre e docenti, ma io come la faccio la mia call di lavoro se il pupo mi occupa l’unico tavolino?
«È giusto dire che ci hanno messo “agli arresti domiciliari”, le nostre case sono poco più che celle! Nella migliore delle ipotesi, camere d’albergo. Ci torniamo a dormire, ma viviamo altrove: lavoriamo fuori, e fuori mangiamo, studiamo, incontriamo le persone, facciamo ginnastica», attacca Marco Casamonti, Archea Associati, 120 architetti tra Firenze e sei altre sedi incluse Pechino e San Paolo, dallo stadio di Tirana alla cantina verde Antinori al nuovo quartiere nord di Mosca. «Dagli anni Sessanta è avvenuta una sistematica espulsione dell’abitante dallo spazio domestico. Che è diventato sempre più angusto: dapprima per dare alloggio a più persone possibile, poi per i meccanismi del mercato e del profitto cui conviene vendere meno spazio a parità di capacità media di spesa di una giovane coppia, da ultimo per il dilagare dei bed&breakfast, ti ritiri in due stanze e arrotondi affittando le altre. Con la pandemia questo modello abitativo ha mostrato tutte le sue crepe, è come collassato. Tocca ripensarlo, sradicare comportamenti dati per scontati e inevitabili, ribaltare l’approccio progettuale. E definire nuove norme e leggi».
Non sembra che la politica si sia posta il problema, se nella pletora di task force, già sotto tiro per l’irrisoria presenza di donne, non risultano architetti, urbanisti, designer, né maschi né femmine. Dio ne scampi dall’ennesimo comitato ministeriale dalle diafane competenze. Ma nulla vieta di inventarsene uno da soli. E infatti.
Si conoscono da una decina d’anni, Casamonti e i Fuksas, Massimiliano e Doriana, altra corazzata internazionale con 170 architetti, aeroporti, musei, centri congresso, uffici, più o meno l’intero arco del progettabile, Nuvola inclusa. Si sentono a inizio emergenza, chiamano con sé il catalano Ramon Prat teorico dell’architettura, i luminari della medicina Ottavio Alfieri del San Raffaele, Michele Gallucci della Sapienza, Camillo Ricordi del Diabetes Research Institute di Miami, e Giorgio Moretti l’imprenditore di Dedalus. Più i trenta studenti del laboratorio di Progettazione dell’Università di Genova dove Casamonti insegna. Pensano dapprima di disegnare qualcosa per gli ospedali, che so, moduli di emergenza per terapia intensiva. È Alfieri, proprio un medico, che li dissuade: il problema non è l’ospedale, dove all’inizio tutti si sono riversati trasformando i pronto soccorso in luoghi del contagio. No, la chiave di tutto è la casa.
Se non sei Chatwin (per lui «la casa è una perversione», Taccuini, scatola 41) la casa è il rifugio, il riparo dalle intemperie, la capanna primitiva che per il settecentesco abate Laugier fungeva da paradigma di ogni bellezza dell’architettura passata e futura. Rifugio, non lo è più: perché sempre più stretta, perché non attrezzata con tecnologie peraltro disponibili a costi contenuti, perché non integrata da adeguate strutture di condominio o di quartiere. Il gruppo ci lavora un paio di mesi, poi scrive al presidente Sergio Mattarella, quattro punti secchi con indicazioni concrete sui provvedimenti da mettere con urgenza in cantiere. Massimiliano Fuksas su Repubblica auspica si vietino nuovi alloggi sotto i 60 metri quadri. Apriti cielo: i soliti deliri radical-chic, come faranno gli operai e i poveri cristi, la destra del popolo vs. la sinistra delle élite, lo assalta Il Giornale. Vabbè.
Beghe a parte, come lo dovremmo smontare e rimontare l’abitare post-coronavirus? Questione complessa: coinvolge metri quadri e tecnologie, biologia e psicologia, design degli oggetti e riscrittura delle nostre relazioni con il mondo esterno. Totem e spauracchio, quel telelavoro sul quale da vent’anni si profondono fiumi d’inchiostro pur continuando tutti a lavorare negli uffici e de visu e a spostarsi freneticamente su treni, auto e aerei. Ribattezzato smart-working, è diventato all’improvviso modalità ineludibile del nostro operare. Nel bene e nel male non ce ne libereremo più, vuoi perché ci fa comodo, vuoi perché le imprese ci contano per un drastico taglio di costi e obblighi: Twitter l’ha sancito per prima, chi vuole può decidere di lavorare da casa «per sempre», a ruota Facebook e Google e da noi Enel in via sperimentale, l’intendance suivra, è sicuro.
Uno strepitoso risparmio, certo: in termini di spostamento, costi della benzina, inquinamento. Però. Che effetti avrà la sovrapposizione nella psiche dello spazio personale e familiare con lo spazio esterno, lavorativo e sociale? «Noi funzioniamo in termini di autorappresentazione: in un meeting a distanza io sono fisicamente in un luogo e cognitivamente in un altro, il che comporta uno spiazzamento sensoriale tra lo spazio vissuto e lo spazio rappresentato, e un maggiore affaticamento», risponde Francesca Pazzaglia, direttrice del master in Psicologia dell’architettura e dell’ambiente dell’Università di Padova. Il fenomeno è già stato studiato, e messo in scena in più di un serial, nella sua versione estrema: i piloti di droni che bombardano l’Afghanistan o l’Iraq standosene in una base negli Stati Uniti, in guerra dalle 9 alle 5, poi a cenare in famiglia e bere birra con gli amici al pub. «Quanto a noi, più inadeguata è la casa, lo spazio fisico in cui effettivemente ci troviamo, tanto più difficile sarà far fronte allo spiazzamento cognitivo indotto dallo smart-working, e in proporzione si ridurrà la nostra efficienza, attenzione, capacità di reazione».
A rischio sono anche gli equilibri nella gestione del tempo: senza spazi rigorosamente separati, una vita non più scandita dall’alternanza casa-lavoro e interno-esterno scivola in un flusso continuo, uniforme, indifferenziato, appiattito, impoverito. Sicché è di nuovo con gli spazi e la loro distribuzione, il nuovo arredo della nostra esistenza post-coronavirus, che ci tocca fare i conti. Quando per gli ombrelloni sulle spiagge si è ipotizzata una distanza di 4 metri per 5, il presidente della Liguria Giovanni Toti ha sorriso che «nella mia regione 20 metri quadri sono un monolocale». Sbagliava di poco: il taglio minimo consentito per un alloggio a Genova, ma anche a Milano, è infatti di 28 metri quadri. Fatichi a mangiarci, in un antro del genere, ci vuoi fare anche lo smart-working? Dobbiamo poi ricordare che il grosso dei femminicidi avviene tra le mura domestiche? A Napoli, per la cronaca, il taglio minimo è 45 metri quadri, a Firenze è stato alzato qualche anno fa a 50, nel tentativo, neanche così riuscito, di frenare lo spopolamento della città per il dilagare dei b&b.
Solo con i divieti però non vai lontano. Bisogna strutturare diversamente gli spazi esistenti e recuperarne di nuovi: in vista della possibile recrudescenza di questa pandemia, o della prossima che è certo prima o poi arriverà, anche questa che ci ha colti impreparati era attesa da decenni. Come? Dice Casamonti che in 28 metri quadri no, ma già in 50 puoi agevolmente ripristinare un piccolo ingresso dove lasciare scarpe e indumenti e un bagnetto di servizio dove lavarti le mani, e proteggere così la persona che vive con te: il 6 settembre a Pitti Immagine, salvo catastrofiche recrudescenze del virus, Archea monterà a Firenze alla Fortezza da basso due prototipi campione di alloggi siffatti. Dotati di lampade di sanificazione a ultravioletti, regolate per funzionare solo in assenza di persone sennò sono dannose, e di strumentazioni mediche elementari per la telediagnosi, misuratore di pressione e temperatura e saturimetro per l’ossigeno: una cassetta di primo soccorso adeguata ai tempi, sufficiente per evitare di infettare o infettarsi nelle sale d’attesa del medico o del pronto soccorso alla prima linea di febbre.
Ormai smantellato il sistema di medicina di base, lo puoi reinventare solo così, utilizzando le tecnologie, già ora tutte disponibili a basso costo: magari, questo sì, con contributi statali, mica solo per biciclette e monopattini. E se tutto in casa non ci sta, si possono allestire aree adiacenti. Per legge. Vuoi costruire un nuovo palazzo? Sia previsto un piano o un ammezzato per il telelavoro in coworking e magari palestra e kindergarden, attrezzato con apparecchio di ventilazione, bombola d’ossigeno, defibrillatore, che in emergenza si trasformi in camera di terapia intensiva di condominio. Nell’edilizia esistente, gli spazi si possono recuperare chiudendo corti o utilizzando sottotetti.
Semplice, non fosse per il pauroso ritardo delle infrastrutture tecnologiche in cui versa il paese, reso stridente dalla forte accelerazione che la pandemia ha provocato nel loro utilizzo, tra firme elettroniche, prescrizioni mediche digitali e videoconferenze su Zoom già per i bambini dell’asilo. Con Stefano Boeri, uno che peraltro i sogni li realizza, vedi il Bosco verticale a Milano, puoi anche immaginare che, in fuga dal virus e usi ormai al distanziamento sociale, lasceremo le grandi città e lavoreremo beati nell’aria pura delle malghe alpine o nel verde di incantevoli borghi ora semiabbandonati dell’Appennino, a un clic dal mondo intero. Difficile Arcadia se però hai connessioni scadenti, fibra qua sì e là no, 5G chissà quando e come.
E poi: siamo sicuri che, sballottati fra le opposte pulsioni di cogliere l’occasione per cambiare tutto o tornare al più presto alle vecchie consuetudini, abbandoneremo le folle e le metropoli, cuore della modernità dai tempi di Baudelaire e poi di Benjamin, e quelle megalopoli diffuse senza soluzione di continuità che sono mezza Florida o l’intera pianura padana, un unico tappeto di luci come testimoniano le foto notturne dai satelliti? Non ci crede neanche un po’, Michele De Lucchi, l’avventura Memphis anni Ottanta con Sottsass, la lampada Tolomeo per Artemide, i nuovi rivoluzionari uffici postali fine anni Novanta. «Alle persone le costrizioni non piacciono: lavorare a distanza va bene se è una libertà in più, non se è un’imposizione. Il virus non cancellerà l’idea di vivere fuori casa. Cambierà, questo sì, il modo di vivere la casa. Scenario nel quale recitiamo l’esistenza, va resa quanto più trasformabile e flessibile: come installazioni, negozi e show room, luoghi il cui senso più seducente è che di lì a poco cambieranno, diverranno altro. Dobbiamo scrostarla da tutto ciò che la rende inamovibile, da quanto ci impedisce di apportare, all’occorrenza, i necessari cambiamenti: quelli che scegliamo per il nostro piacere non meno di quelli che ci vengono imposti da eventi come la pandemia».