La nuova normalità domestica. Gli spazi flessibili e trasformabili come un'installazione. Colloquio con un maestro del design contemporaneo

«Alle persone le costrizioni non piacciono. Qualsiasi costrizione o limitazione della libertà. Al netto di tutti i condizionamenti e le manipolazioni cui possiamo essere sottoposti, caratteristica tra le migliori della nostra società capitalistica e industriale era ed è il poter dire “questo l'ho scelto io”. Non ci rinunceremo facilmente e non dovremo rinunciarci: il virus non cancellerà l'idea di vivere fuori casa, in uffici, scuole, musei, centri commerciali, aule dei congressi, luoghi di ritrovo e quant'altro. Ma cambierà, questo sì, il modo di vivere la casa».

Olivettiano per impronta da quando in Olivetti lavorava a fine anni Settanta, pupillo di Ettore Sottsass con Aldo Cibic e Matteo Thun nella colorata e spiazzante stagione Memphis anni Ottanta, agli allori con la sua lampada Tolomeo per Artemide nel 1987, radicale rifacitore dieci anni dopo di tutto il sistema degli uffici postali, Michele De Lucchi s'è ora gettato, non senza una buona dose di visionarietà, in un ardimentoso tentativo di reinvenzione dei fondamenti della progettazione di edifici multifunzionali e sostenibili, Earth Stations e Education Stations,  nella sua terminologia: in un gioco di corrispondenze fra le età dell'uomo e quelle dell'umanità, ontogenesi e filogenesi, e tra queste e le tipologie architettoniche e urbanistiche. Questo lavorìo va ormai avanti da un paio di anni, sta già producendo una scuola a Ho Chi Minh e un'università a Buenos Aires, procede anche concettualmente come un Lego in cui ogni mattoncino sta lì perché lì deve stare e l'insieme deve risultare di assoluto rigore: un po' come certi lavori montati con cubi in legno che espose anni fa in una mostra a Parigi, lui, Ceroli, Mendini e altri.

Lei è uso a parlare di “futuri”, al plurale, mirando a che ciascuno sia messo in grado di plasmare il suo domani a piacere. Non sarà sempre meno possibile, dopo (meglio: con) il coronavirus?
«Vorrei non dimenticassimo che il futuro deve essere improntato ai nostri desideri, ambizioni, volontà. Lavorare a distanza va bene se è una libertà in più, se risponde alle nostre attese di godimento e miglioramento, non se è una imposizione. La fase dell'emergenza va nettamente distinta dalla normalità».

Normalità che però non sarà più la stessa, dopo l'emergenza, la clausura, il distanziamento sociale.
«Sì, ma sono arrivato alla conclusione che, con il coronavirus, libertà e salute siano da considerare paradigmi indistinti e non più separabili».

Ragioniamo sulla casa. Come cambierà o dovrebbe cambiare, per conformazione, arredo, utilizzo?
«La casa è stata sempre il set che noi allestiamo intorno a noi, il palcoscenico ove organizziamo lo scenario nel quale recitiamo la nostra esistenza. In queste settimane abbiamo riscoperto l'abitazione come un ambiente da vivere con maggiore consapevolezza di quando passavamo fuori la maggior parte del nostro tempo. L'isolamento è una schifezza quando ci è imposto, un sogno quando lo possiamo scegliere».

Cosa può significare, in termini di disposizione degli spazi e degli oggetti?
«Usare più liberamente della nostra vita significa, per me, essere meno incatenati agli spazi, agli oggetti e alla loro disposizione. Dai cambiamenti tecnologici a quelli virali, la trasformabilità è il tratto più caratteristico della contemporaneità. Fatta salva una certa qualità compositiva dell'insieme, gli ambienti in cui viviamo tendono già ora a essere sempre più flessibili e trasformabili. Pensi al “coordinato” di quaranta o cinquant'anni fa, le tende come i copriletti, i tovaglioli come i bicchieri: finito, scomparso, siamo liberi dalle catene del “questo sta bene con quello”. Lo stesso nella moda, dove imperano gli accostamenti più stravaganti dagli effetti sbalorditivi».

Mica dovremmo accatastare a piacere, come peraltro già facciamo anche troppo?
«Al contrario: bisogna scrostarla, la casa! Da tutto ciò che la rende troppo stabile e inamovibile, da quanto ci impedisce di apportare all'occorrenza i necessari cambiamenti, sia quelli che scegliamo per il nostro piacere sia quelli che, come ora con la pandemia, ci vengono talora imposti dalle circostanze».

Se palcoscenico è, che si possano cambiare le scene a ogni atto. È questo che intende?
«C'è molto più agio per ciò che noi architetti chiamiamo installazioni: un concetto disinvolto di fare le cose, montare negozi, vetrine, show room, ambienti dove vivono sempre più persone. Anche in casa, organizziamo angoli il cui senso più seducente è che di lì a poco cambieranno, diverranno altro. Una installazione prevede che l'ambiente sia il più scenografabile possibile. La trasformabilità è il criterio che ti permette di controllare nel migliore dei modi i luoghi che costruisci: io come architetto e ciascuno di noi come abitante di una spazio domestico».

Chiusi in casa per la pandemia abbiamo ridisegnato anche il nostro rapporto con l'esterno dello spazio domestico, riscoprendo non solo, per chi ce l'ha, l'ampio terrazzo ma persino il balconcino dove leggere o chattare o lavorare, e quella banale finestra che però ci restituiva il senso del mondo di fuori, la luce, il taglio dei palazzi di fronte, l'albero sotto casa, l'occhio su ciò che è lontano. Tutto dimenticato alla prima libera uscita?
«Sarebbe un errore gravissimo! Le finestre sono un elemento chiave del vivere quotidiano, o meglio devono tornare a esserlo: ci lavoro da un paio d'anni almeno, e ho messo in piedi un piccolo gruppo di lavoro ad hoc tra la quarantina di persone del mio studio. Penso alla Biblioteca della Exeter Academy, Devon, Inghilterra, disegnata da Louis Kahn nel 1965 e inaugurata nel '72, con le sue postazioni di lavoro come antichi scranni dei monaci posizionati di fronte ad ampie finestre per sfruttuare fino all'ultimo raggio di sole, o al meraviglioso concetto di finestra abitabile che era già di Giò Ponti. Per parte mia, tra i dieci progetti di ricerca di Amdl Circle e Michele De Lucchi, Atelier Station  è pensato proprio come uno spazio mobile e multifunzionale per la creatività individuale nel quale la finestra, da elemento di separazione, diventa spazio di lavoro in dialogo con l'esterno».
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Affascinante. Ma a quanto vedo è una struttura isolata immersa nel verde.
«Vero. Infinitamente più complessi sono i problemi posti da edifici come i grattacieli Citylife, scatole sigillate ottime dal punto di vista del risparmio energetico ma dove non è certo possibile immaginare finestre apribili al 40° piano e nei quali l'aria condizionata mette in circolo virus e batteri d'ogni tipo. Ma sono fiducioso che la disponibilità di nuove tecnologie di cui già siamo parzialmente in possesso consentirà di sviluppare opportunità prima non concepibili: per rispondere, anche, alle richieste di sostenibilità climatica e ambientale ormai inderogabili. C'è molto da fare, studiare, inventare, ribaltando gli schemi culturali, le abitudini progettuali e i vincoli burocratici che oggi fanno sì che un edificio appena costruito nasce già vecchio, un'esperienza traumatizzante. In due parole: molto dobbiamo imparare e molto dobbiamo disimparare».