Il presidente non vuole lockdown, non invita a proteggersi, prende in giro chi si preoccupa del coronavirus. Così mentre generali e malavita acquistano sempre più potere, l'epidemia impazza. E a subirne gli effetti sono soprattutto i diseredati degli slum (Foto di André Liohn)

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Nei vicoli stretti del quartiere Paraisópolis, a San Paolo, l’organizzatrice di eventi culturali Renata Alves, 39 anni, è diventata la responsabile del coordinamento delle ambulanze che operano in prima linea contro il coronavirus in una delle più grandi favelas del Brasile. Renata fa parte del cosiddetto “quartier generale”, nato e coordinato dagli stessi abitanti della comunità per affrontare la pandemia come se fosse una missione di guerra. Abituata all’assenza del potere pubblico, la favela si è auto-organizzata per individuare e, in alcuni casi, curare i contagiati dal virus. Finanziata da un’iniziativa chiamata G10, che riunisce le dieci maggiori favelas del Brasile, l’operazione a Paraisópolis ha iniziato a funzionare il 19 marzo, una settimana dopo che l’Oms aveva dichiarato la pandemia globale.

In Brasile la curva dei contagi ha superato i 400 mila casi e le morti sono oltre mille al giorno, per un totale di decessi (provvisorio) che mentre questo giornale va in stampa viaggia spedito verso i 30 mila. Ma, soprattutto, la curva è ancora ascendente: gli statistici prevedono almeno 100 mila vittime entro la fine dell’estate. Il paese sta insomma diventando l’epicentro mondiale del coronavirus, gli Usa hanno già sospeso i voli dal Brasile.

La città con il maggior numero di morti è San Paolo, 12 milioni di abitanti, e le aree più colpite sono quelle periferiche, economicamente più svantaggiate. Il caos della pandemia ha evidenziato la spropositata forbice sociale del Brasile, settimo tra i Paesi più diseguali al mondo secondo l’Onu. Aspetto negato dal governo nonostante l’evidenza fornita dalle morti da Covid. La maggior parte dei contagiati è afrodiscendente, con un indice di letalità di cinque volte maggiore a quello della popolazione bianca.

Nata a Paraisópolis, Renata lavora insieme a un’équipe composta da tre persone che si occupano di primo soccorso, due medici e due infermiere, oltre ai volontari della favela. Solo una delle tre ambulanze pronte ad intervenire è attrezzata con un’unità di terapia intensiva mobile. Un’unità per i circa 100 mila abitanti di Paraisópolis, che compie un secolo nel 2021. Qui, la stragrande maggioranza della popolazione è nera, distribuita in circa 21mila baracche strette in un’area di un milione di metri quadrati. Zone in cui è normale che l’ambulanza non arrivi, anche a causa del difficile accesso dovuto alle intricate viuzze e alla paura della violenza criminale.
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«Il governo non farà niente per noi, abbiamo smesso di aspettare. Saremo noi il governo e agiremo come meglio crediamo. Ancora una volta non possiamo contare sullo Stato», afferma Gilson Rodrigues, 35 anni, leader dell’Associazione degli abitanti di Paraisópolis e attuale presidente del G10 Favelas. Il “quartier generale” può contare su 1.450 volontari, 200 dei quali portano nella favela i beni necessari. Parte di questi volontari riceve una piccola remunerazione in denaro. Finora l’area non ha ricevuto nessun tipo di aiuto dal potere pubblico, a parte l’autorizzazione a trasformare due scuole in case di accoglienza per malati Covid - con 510 letti disponibili - per poter isolare i contagiati o i casi sospetti (più di 1.400, tra cui 34 morti). L’isolamento sociale è, infatti, una missione impossibile nelle favelas, dunque si è optato per questo tipo di soluzione. Nelle due strutture, i degenti hanno a disposizione vestiti, internet e televisione. Vengono intrattenuti con attività ludiche e non possono ricevere visite.

Sebbene gli studiosi affermino che il virus già circolava nel Paese da gennaio, il primo caso di Covid-19 è stato ufficialmente individuato nel Paese a fine febbraio, un brasiliano di ritorno dalla Lombardia. Tre mesi dopo il Brasile è immerso in un inferno difficile da misurare. Il sistema sanitario di città come Manaus (nel nord, regione amazzonica) è al collasso. Ci si aspetta che presto accada lo stesso a San Paolo, la città più grande dell’America del Sud e anche la più industrializzata.

La difficoltà riguarda sia il sistema sanitario pubblico sia quello privato, anche se chi è in grado di pagare ha maggiori probabilità di salvarsi. I cimiteri sono stati ampliati con fosse comuni e le sepolture avvengono anche di notte, vista la crescita esponenziale del numero di morti. Il caos sanitario e sociale è aggravato dalla figura del presidente Jair Bolsonaro, in guerra permanente con i suoi avversari e nemici immaginari da quando ha assunto l’incarico, un anno e mezzo fa. Il suo negazionismo della scienza e l’ostentato disprezzo per i morti hanno evidenziato ciò che il governo non fa neanche lo sforzo di nascondere: un progetto di distruzione e disfacimento istituzionale per rafforzare il suo potere autoritario.

Molti iniziano a chiamarlo “assassino” e “genocida”, ma Bolsonaro ha l’appoggio delle Forze Armate - tornate ad avere un ruolo decisivo nella politica come non lo avevano dalla fine della dittatura, nel 1985 - della maggior parte della polizia militare (una sorta di corpo di carabinieri controllati dai governatori), del mercato finanziario e di molti brasiliani sia ricchi sia poveri, come quelli che di recente hanno beneficiato del bonus di 600 reais (100 euro) per contrastare gli effetti della pandemia. La sua popolarità sta diminuendo significativamente ma il presidente gode ancora dei favori di quasi un terzo dell’elettorato.

Uno dei principali interpreti della cultura brasiliana, il compositore Gilberto Gil, ritiene che il Paese stia pagando per i suoi “peccati storici” con «un conservatorismo arretrato nella mentalità politica, economica e nei costumi». Come ogni grande nazione il Brasile è molto complesso, aggiunge Gil, che si trova in quarantena con la famiglia nel suo appartamento di Copacabana, a Rio de Janeiro: «Nel corso della sua storia ci sono stati momenti luminosi, altri oscuri, in una perenne oscillazione che deriva dal nostro processo di formazione come patria. Ora viviamo in un periodo oscuro».

In meno di un mese, mentre il Paese assisteva all’esplosione del contagio, nel governo Bolsonaro si sono succeduti due ministri della sanità, entrambi medici, che non erano d’accordo con la sua decisione sulla riapertura anticipata del commercio e la ripresa dell’economia, oltre alla sua raccomandazione per l’uso indiscriminato della clorochina, senza poter contare su dati scientifici che ne comprovassero l’efficacia. Adesso la sanità è sotto la guida di un generale senza formazione medica, specializzato in logistica, che aumenta la già nutrita schiera di ufficiali dell’esercito nella gestione di aree sensibili dello Stato.

Considerato dal Washington Post «il peggior leader mondiale per la gestione del coronavirus», Bolsonaro mostra indifferenza e mancanza di preparazione per affrontare l’attuale crisi. Non molto tempo fa parlava del Covid come di una «piccola influenza» e di un «virus sopravvalutato», ammonendo che «tutti moriremo un giorno» e, quando è stato intervistato sulla curva ascendente dei morti, ha risposto di non essere «un becchino».

In aperto contrasto con le misure di isolamento adottate e difese da alcuni governatori e sindaci, Bolsonaro si riunisce e si abbraccia con i suoi sostenitori durante manifestazioni pubbliche, dove si inneggia ad una sorta di autogolpe militare, con la chiusura del Parlamento e della Corte Suprema. Il Brasile vive un crescente isolamento internazionale mai visto nella sua storia, con un presidente considerato un reietto mondiale. Il primo politico straniero ad appoggiare Bolsonaro, ancora durante la sua campagna del 2018, è stato Matteo Salvini ma persino il leader leghista sembra essersi distanziato dall’amico brasiliano.

In mezzo alla rapida disgregazione politica e istituzionale, si aggrava la crisi sanitaria, economica e sociale. E i segnali di una possibile caduta del governo non tardano a manifestarsi. Come la divulgazione, di recente, del video integrale di una riunione del consiglio dei ministri, a fine aprile, che ha rivelato lo spirito del presidente e del suo governo, quello che molti insistono nel non voler vedere. I membri dell’esecutivo incentivavano l’adozione di misure a favore della deforestazione dell’Amazzonia durante la pandemia, approfittando del fatto che tutte le attenzioni fossero rivolte al Covid e parlavano di mettere arbitrariamente in prigione sindaci, governatori, ministri della Corte Suprema.

Bolsonaro dichiarava il suo desiderio di vedere tutta la popolazione armata - e sui social media brasiliani in molti hanno notato il riferimento a Mussolini. Durante quasi due ore di riunione, il governo ha discusso del Coronavirus solo per 19 minuti mentre per la maggior parte del tempo ha attaccato i difensori della quarantena. Bolsonaro pretendeva cambiamenti ai vertici della polizia federale - che sta investigando la sua cerchia di familiari e amici per crimini legati alla corruzione - dichiarando che non avrebbe permesso a nessuno di «fottere la sua famiglia e i suoi amici».

Il video fa parte delle prove dell’indagine in corso alla Corte Suprema che ha il potenziale di far esplodere il governo. «La situazione economica del paese era già critica, il coronavirus ha peggiorato tutto. Ora c’è la crisi della sanità, dell’occupazione ed il reddito pro capite è sceso e scenderà ancora», afferma l’ex presidente Fernando Henrique Cardoso dal suo appartamento di San Paolo, dove trascorre la quarantena. «Il problema è che il governo è stato eletto ed è legittimo», aggiunge.

Sociologo perseguitato dalla dittatura, Cardoso governò il paese tra il 1995 e il 2002, dopo l’avvicinarsi del centrodestra. A lui è succeduto Inácio Lula da Silva, di sinistra, con il quale oggi Cardoso tenta di arrivare a un accordo che riunisca le opposizioni contro il delirio bolsonarista. Quando era ancora semplice deputato, una volta, Bolsonaro disse in tv che il Brasile si sarebbe «risollevato solo dopo una guerra civile», arrivando a suggerire la fucilazione di 30 mila persone a cominciare dal presidente dell’epoca, Cardoso appunto. «Se il cammino verso l’insensatezza continua, dovremo darci una mano noi democratici, andando al di là delle nostre profonde divergenze», dice oggi Cardoso.

Al contrario di altri Paesi che hanno decretato il lockdown per frenare la diffusione del virus, in Brasile la quarantena non gode ancora del consenso nazionale. Misure restrittive sono state adottate in decine di città, in 11 dei 27 Stati del Paese. Alcune hanno alleggerito l’isolamento prima del tempo, altre hanno tentato di essere più rigorose ma i tentativi restrittivi cadono di fronte alle immagini del governo centrale che vanno in direzione opposta.

Mentre nelle favelas e nelle aree più povere il distanziamento sociale è impossibile da realizzare, una situazione ben diversa si osserva nelle zone più ricche. Nei quartieri nobili di San Paolo si entra in ascensore solo con la mascherina e si vede un intenso via vai di moto per la consegna del cibo all’ora di pranzo e cena. Il traffico caotico di San Paolo non si è interrotto ma è diminuito considerevolmente. Nonostante la situazione nel resto del Paese, le persone non solo circolano ma generano anche assembramenti. «Uno dei problemi è relativo alla comunicazione. Qui le persone non capiscono cosa siano la quarantena, il lockdown, il respiratore e nemmeno il coronavirus.

Finiscono per dare poco credito a tutto ciò, ancor di più con un presidente che le stimola affinché la vita continui normalmente», commenta Rodrigues, leader dell’Associazione degli abitanti di Paraisópolis, che sottolinea in particolare le difficoltà dei lavoratori informali: 38,4 milioni di persone su una popolazione di 210 milioni, il 40 per cento degli occupati.

Tra i tanti problemi di Paraisópolis, uno è diventato ancora più grave durante la pandemia: la mancanza di acqua. Il servizio viene sospeso tra le otto di sera e le sei del mattino, ogni giorno, da almeno quattro anni.«Come si può mantenere l’igiene senza l’acqua? Se la raccogliamo, corriamo il rischio di far proliferare la dengue», racconta Renata Alves, riferendosi alla malattia dovuta a un virus che si trasmette attraverso la puntura di una zanzara, altra grande piaga da combattere.

Gli abitanti hanno organizzato una manifestazione a metà maggio con mascherine, guanti e rispettando il distanziamento sociale, ma la polizia ha impedito che si avvicinassero alla sede del governo di San Paolo, amministrata da João Doria, esponente principale del partito di Fernando Henrique Cardoso, imprenditore e politico di destra eletto sfruttando la popolarità e le cause di Bolsonaro. Attualmente i due sono in rotta. Favorevole alla quarantena, Doria si è trasformato in uno dei principali nemici del presidente. Nonostante la promessa di riunirsi con gli abitanti per parlare della questione dell’acqua, l’incontro con Doria non c’è mai stato.

La relazione con la polizia, una delle principali basi di appoggio di Bolsonaro, è un altro serio problema per la comunità di Paraisópolis. A dicembre, nove giovani sono morti dopo un’azione della polizia gestita male durante una festa nell’area. Paraisópolis è una delle favelas controllate dal Pcc (Primo comando della capitale), una delle maggiori organizzazioni criminali del Brasile e del Sudamerica, conosciuta per i suoi rapporti internazionali con la ‘ndrangheta nel traffico di cocaina.

Com’è accaduto in Italia con i pacchi solidali distribuiti dalla mafia, anche in Brasile i narcotrafficanti hanno dato il loro contributo ai servizi medici e all’alimentazione delle comunità, per fare proselitismo nella popolazione. Alla domanda sulla presenza di un “potere parallelo”, Gilson e Renata negano qualsiasi contributo da parte del Pcc alla struttura organizzata per far fronte al Covid. Dopo aver ricevuto donazioni dalle imprese e dagli stessi abitanti del quartiere per far fronte all’emergenza, il G10 Favelas ha promosso un’iniziativa di crowdfunding. I costi del quartier generale sono elevati per la realtà locale: l’organizzazione di ambulanze e personale costa all’incirca 845 euro al giorno.

Mentre agli abitanti è stato impedito di protestare contro la mancanza di acqua, sono ancora molti i brasiliani che si spostano nelle strade nel bel mezzo della pandemia, in alcuni casi anche senza mascherina, per protestare contro la decisione della maggior parte degli Stati di imporre il lockdown. In molti casi si tratta di imprenditori e sostenitori del partito di governo, che contano sull’appoggio esplicito della polizia. In diverse occasioni, i sostenitori di Bolsonaro hanno organizzato manifestazioni davanti agli ospedali, impedendo persino il passaggio delle ambulanze. La polizia non ha fatto niente per evitare i disordini, rafforzando il sospetto che il governo stia lavorando per creare una situazione di caos e anarchia.
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L’azione politica dei militari e della polizia risveglia i vecchi fantasmi dell’America Latina, riportando alla mente i tempi della violenza politica e - cosa che il Brasile non ha mai conosciuto - della guerra civile. In particolare, quest’ultima è stata citata dagli alleati del presidente brasiliano come una minacciosa possibilità. «Camminiamo su una lastra di ghiaccio. Anche se non ci fosse questo proposito esplicito, potremmo marciare in direzione della non democrazia», dice Cardoso. «Ci sono troppi militari in posizioni civili e questo è rischioso. Se la tensione politica continua, anche se non si vorrà saranno i militari che torneranno a tutelare il Paese. Spero che non si arrivi a tanto ma è necessario stare all’erta».

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