Il proclamato “pragmatismo” con Al Sisi è stato un boomerang. Perché separare interessi commerciali dalla difesa dei diritti umani finisce per danneggiarci due volte

zak-jpg
Si avverte quasi sempre una traccia di dissimulazione nelle parole che le autorità pubbliche dedicano alla vicenda dell’assassinio di Giulio Regeni. La si percepisce quando - con voce che diventa più grave - si elogia «il coraggio e la determinazione dei genitori del ricercatore italiano ucciso al Cairo». Omaggio doveroso, che contiene, tuttavia, un elemento di ambiguità. Mi spiego. Il lutto chiede di essere vissuto nell’intimità della sfera privata, nel profondo della dimensione familiare, laddove più si patisce e più intenso è «il nostro bisogno di consolazione» (Stig Dagerman).

Quando si decide di rendere pubblica la sofferenza per una perdita, perché pubbliche si ritengono le responsabilità di essa, i familiari della vittima rinunciano a una parte del proprio lutto per condividerlo con estranei (fino a milioni di estranei) e renderlo così questione collettiva e materia civile. È un grande sacrificio, così come grande è la responsabilità di quanti (gli estranei, appunto) accolgono quel dolore e intendono farlo proprio. Molti, in Italia, hanno condiviso il lutto per Giulio Regeni e hanno chiesto verità e giustizia. Ma proprio per questa ragione, troppo spesso l’elogio di Paola Deffendi e Claudio Regeni, appare rituale e sembra corrispondere alla volontà, magari inconscia, di consegnare quella morte a una dimensione privata, dove le “persone offese” sono i consanguinei della vittima. Ma non è più così. Grazie alla scelta dei genitori di Giulio, la sua fine è diventata una questione pubblica e politica. E, accanto a Paola Deffendi e a Claudio Regeni, la parte lesa è rappresentata dall’intera collettività.

Questo è il punto essenziale. L’assassinio di un cittadino italiano, avvenuto fuori dai confini nazionali, in un paese considerato “amico”, a opera presumibilmente di uomini degli apparati statuali di quel paese, solleva un grande tema: in gioco è la nostra stessa sovranità nazionale. Il patto che lo Stato stringe con i cittadini, si fonda sulla promessa di tutelarne l’incolumità: se un connazionale viene ucciso in un paese straniero, lo Stato deve esigere l’accertamento della verità e la condanna dei responsabili. Se non lo fa abdica alla propria qualità di Stato sovrano e al proprio interesse nazionale. Dunque, la morte di Giulio Regeni è, certamente, una questione umanitaria, ma è allo stesso tempo un problema decisivo di politica internazionale. I governi italiani che si sono succeduti dal 2016 a oggi, sembrano non averlo capito.

È in questo scenario che va collocata la commessa di quasi dieci miliardi per la vendita di sistemi d’arma all’Egitto. La tesi di quanti condividono la scelta del governo italiano è sostanzialmente così motivata: l’incremento dei rapporti import-export tra l’Egitto e l’Italia renderà più efficace l’azione diplomatica presso il regime di al-Sisi per ottenerne la collaborazione sul piano giudiziario. Ma è esattamente questa la linea perseguita finora: i risultati sono sotto gli occhi di tutti e rappresentano né più né meno che un fallimento.

All’origine, c’è uno scarto politico e temporale tra il piano delle relazioni economico-commerciali e quello delle iniziative per la ricerca della verità su Regeni. È questo che indebolisce fino all’inettitudine l’Italia, che rivela una sorta di complesso di inferiorità nel rapporto con il regime egiziano. Si dimentica che uno Stato sovrano deve riconoscere alla tutela della vita di un connazionale almeno la medesima importanza che si attribuisce a un investimento economico. In genere, mentre si afferma retoricamente il contrario (“il valore di ogni persona è inestimabile”) nei fatti accade che i diritti umani scivolino sempre all’ultimo posto tra le Varie ed eventuali dell’agenda delle relazioni sovranazionali. Il fatto è che gli interessi del nostro export vengono considerati inesorabilmente quelli principali, ma questo affievolisce la forza negoziale e la capacità contrattuale del nostro paese. Se pure la vendita delle due navi militari fosse scelta opportuna e giusta (e ne dubito fortemente), la trattativa con l’Egitto avrebbe dovuto prevedere sia lo scambio commerciale sia una vera cooperazione giudiziaria sulle responsabilità della morte di Regeni.

Così l’Italia avrebbe avuto più, e non meno, capacità di pressione sulla politica di al-Sisi. Insomma, solo se la questione dei diritti umani diventa priorità tra le priorità si possono avere chance di successo. Al contrario, separando la trattativa commerciale dalla questione Regeni e dei diritti umani in Egitto, si è consentito che la prima diventasse il solo oggetto del negoziato; e, rinviando ad altra fase il tema della cooperazione giudiziaria, si è ulteriormente sminuito il ruolo dell’Italia e si è relegato in una posizione gregaria il dossier sull’omicidio del ricercatore.

Questo è il risultato della realpolitik che oggi si invoca per motivare la scelta della compravendita dei mezzi militari. Ma è quella stessa realpolitik che ha segnato, giorno dopo giorno, l’atteggiamento dell’Italia nei confronti del regime egiziano. Una strategia che vorrebbe rifarsi alla grande lezione dei Bismarck e dei Kissinger, ma che rivela solo una pensosa partecipazione a lunghe serate di Risiko tra amici.

Una politica evocata con riferimenti geo-strategici tanto sussiegosi quanto sgangherati. Si tratta, in realtà, di un realismo straccione che non ha sortito finora alcun risultato e sembra destinato a ulteriori e fragorosi insuccessi. Un esempio solo. Quando, il 14 agosto del 2017, il Governo decise di far rientrare al Cairo l’ambasciatore italiano (richiamato a Roma sedici mesi prima), lo fece in base a un “realistico” proposito: rendere più efficace l’azione diplomatica per la ricerca della verità su Regeni. A distanza di quasi tre anni, non se n’è fatto nulla, proprio nulla.

E c’è qualcosa di indecente nella reiterata contrapposizione tra interessi economici e valori umanitari. Quasi che questi ultimi non fossero altro che velleitarie fantasie adolescenziali. Ma è l’esatto contrario: la tutela dei diritti umani è materiale pesante, sostanza concreta, realtà tangibile e ruvida. Riguarda direttamente l’esistenza delle persone in carne e ossa, l’integrità dei loro corpi, la misura e lo spessore delle relazioni sociali e della vita delle comunità.

È proprio questo che attribuisce al destino singolo di Giulio Regeni un significato universale e fa di questa vicenda familiare, come si è detto, una questione di sovranità nazionale. Non a caso, è l’intelligente sensibilità di Paola Deffendi e Claudio Regeni a farci intendere il senso complessivo di questa storia, quando spiegano come il destino del loro figlio sia simile a quello di tanti egiziani che ne condividono la sorte: rapiti, seviziati, uccisi.

La signora Regeni, a proposito di Giulio e dei suoi coetanei, ha parlato di “giovani contemporanei” che attraversano le frontiere, stupiti che queste ancora sopravvivano, e che parlano le lingue degli altri, imparano le culture e le mentalità, tra l’Europa, il Medio Oriente e gli Stati Uniti, si muovono rapidi (“per non uscire in fotografia”, come si diceva una volta), affamati e curiosi del mondo e dei suoi abitanti. Tra essi Patrick Zaky, iscritto al Master in Studi di genere presso l’Università di Bologna, arrestato mentre rientrava nel suo paese e ora in carcere con l’accusa di “istigazione al rovesciamento del governo e della Costituzione” per i post pubblicati nella propria pagina Facebook. E, sempre a quella generazione cosmopolita e veloce, apparteneva Sara Hijazi, attivista omosessuale, detenuta e torturata per un anno nel carcere di Tora, a sud del Cairo. Rifugiata in Canada, si è tolta la vita appena qualche giorno fa, lasciando queste ultime parole: «Ai miei amici: l’esperienza è stata dura e io ero troppo debole per lottare. Perdonatemi. Al mondo: sei stato davvero crudele, ma io ti perdono».

È una assoluzione forse immeritata: non potrà esserci perdono se consentiremo che la morte giovane di Giulio e la morte giovane di Sara siano consegnate all’oblio.