Manca una verità giudiziaria sulla tragedia del Dc-9, ma sui cieli italiani quella sera era in corso una battaglia che vedeva protagonisti i caccia della Nato o francesi. Che avevano come obiettivo il leader libico Gheddafi

Il Dc-9 dell'Itavia ricostruito nel Museo per la Memoria di Ustica
Nel corso di quarant’anni i responsabili della strage di Ustica non sono stati ancora individuati sul piano giudiziario nonostante l’immane impegno del magistrato Rosario Priore, l’attività della commissione parlamentare stragi, decine di perizie e controperizie e oltre centotrenta rogatorie internazionali.

L’assenza di giustizia ha alimentato, un anniversario dopo l’altro, l’indignazione dell’opinione pubblica e in particolare quella dei famigliari delle vittime, al punto che uno di loro un giorno esclamò: «Nessuna ragione al mondo giustifica l’assenza di una verità. Potrebbe essere stato anche lo sputo di un airone. Ma lo dicano!».

Sul piano storico la strage di Ustica ha sollevato il tema della sovranità limitata dell’Italia nel contesto internazionale atlantico, a causa di un assai probabile coinvolgimento di forze militari della Nato e della Francia che avrebbero provocato la distruzione del DC-9 dell’Itavia per un tragico errore.

Secondo i periti dell’inchiesta guidata da Priore si sarebbe svolta nello spazio aereo nazionale una battaglia fra tre caccia italiani, uno americano, uno francese e due Mig libici. In base alle risultanze giudiziarie l’incidente sarebbe avvenuto mentre quei caccia cercavano di abbattere con un missile l’aereo del leader libico Mu’ammar Gheddafi in volo sulla stessa rotta verso la Polonia, oppure due Mig libici decollati dalla Jugoslavia per raggiungerlo e scortarlo indietro, i quali si sarebbero nascosti sotto la pancia del DC-9 all’altezza della Toscana.

Una pratica consueta che l’aviazione civile e militare libica utilizzava, grazie alla complicità di quella italiana, per potersi servire di quel corridoio aereo senza essere intercettata dai radar della Nato, e così trasportare verso il nord Europa alte personalità bisognose di viaggiare in incognito per motivi di sicurezza e per raggiungere Venezia o Banja Luka, in Jugoslavia, dove i velivoli del governo di Tripoli erano riparati o aggiornati con nuovi pezzi di ricambio.
Mu'ammar Gheddafi, leader libico

Ovviamente questi segreti spostamenti lungo i corridoi dei cieli italiani di Gheddafi, ma anche di altre personalità a rischio in quegli anni di essere abbattute con un missile come il leader dell’Olp Yasser Arafat, erano conosciuti dai nostri servizi che dovevano autorizzarli e garantirli affinché sfuggissero ai sistemi radar della Nato.

Secondo esplicite quanto tardive dichiarazioni dell’ex presidente del Consiglio di allora Francesco Cossiga, Gheddafi sarebbe stato avvisato dal capo del Sismi Giuseppe Santovito del pericolo che stava correndo, ma da quel momento il ras libico iniziò a sospettare, con fondate ragioni, che una fazione della nostra intelligence avesse fatto trapelare di nascosto i tracciati dei suoi spostamenti a quanti poi avrebbero utilizzate quelle informazioni riservate per provare a ucciderlo. Peraltro egli ben conosceva la costitutiva divisione nei servizi segreti italiani tra un campo fiduciario filo-israeliano e uno filo-arabo che Aldo Moro aveva saputo armonizzare e ricomporre per circa un quindicennio fino alla vigilia della sua morte, dalla cui rinnovata conflittualità sarebbe potuta trapelare la soffiata decisiva.

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Sempre Cossiga, nel 2008, quando era presidente emerito della Repubblica italiana, puntò il dito contro la Francia, aggiungendo il particolare, confermato anche dal magistrato Priore, che il missile sarebbe stato «a risonanza e non a impatto» e che il pilota transalpino responsabile della strage, una volta rientrato alla base, resosi conto del tragico errore commesso, si sarebbe suicidato per la disperazione. Per alcuni questa presa di posizione, confermata anche dall’allora ministro dei Trasporti Rino Formica, sarebbe in realtà una buona ragione per escludere i francesi dal novero delle nazioni responsabili, ritenendo che Cossiga possa averli coinvolti così frontalmente per coprire un più diretto coinvolgimento della Nato o degli Stati Uniti, dal momento che la Francia nel 1980 non era inquadrata nel comando militare dell’alleanza atlantica.

A questo proposito è utile notare che il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, con una lettera inviata al presidente del Consiglio Giuliano Amato il 24 ottobre 2000, ha solennemente affermato di essere «fermo nella convinzione che non vi sia stato alcun coinvolgimento americano di qualsiasi sorta nell’incidente del DC9 Itavia».

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Diversamente, il 27 settembre 2000, il presidente della Repubblica francese Jacques Chirac, in un’analoga missiva, ha ribadito il pieno sostegno della Francia «per aiutare la giustizia italiana a fare piena luce» sul tragico evento, ma non si è spinto, come il suo pari grado statunitense, a negare per iscritto qualsiasi responsabilità francese. A indiretta ma circostanziata conferma che la sera del 27 giugno 1980 si svolse nei cieli italiani una battaglia aerea intorno al DC-9 dell’Itavia poi precipitato, che coinvolse certamente anche l’aviazione libica, è il fatto che, il 18 luglio successivo, sui monti della Sila, fu ritrovato il cadavere di un pilota in «avanzatissimo stato di decomposizione (secondo la perizia medica addirittura di colliquazione) con accanto i rottami di un Mig libico con la fusoliera attinta da diversi colpi di cannoncino (in base alla testimonianza oculare di un soldato di leva, in seguito confermata da altri suoi commilitoni, il quale, nel 1990, dichiarò in un’intervista a questo settimanale di essere stato inviato, già il 28 giugno 1980, a piantonare i resti dell’aereo, ufficialmente ritrovati soltanto il 18 luglio successivo).

Inoltre, nel 1987/88 e nel 1991/92, le due complesse campagne di recupero del relitto dell’aereo in fondo al mare, esclusero la possibilità che a bordo del Dc 9 fosse scoppiata una bomba a tempo, ad esempio lasciata nella toilette dell’aereo, come alcuni hanno continuato a sostenere fino a oggi: un’eventualità già peregrina in sé sul piano logico giacché il volo era partito da Bologna con quasi due ore di ritardo, ma che venne abbandonata dopo il ritrovamento della seggetta del water perfettamente integra e di gran parte degli oblò del DC-9 ancora intatti, senza alcuna traccia di esplosivo a bordo. I resti dell’aereo, però, furono recuperati in un raggio di sette chilometri e quindi un’esplosione doveva pur esserci stata.
Aldo Moro

È opportuno sottolineare che il governo italiano si premurò di affidare le operazioni di recupero del relitto proprio a una ditta francese, legata al grande subacqueo Jacques-Yves Cousteau (collaboratore, sin dai tempi della Seconda guerra mondiale, dei servizi segreti transalpini) con il quale, negli anni Settanta, aveva lavorato anche l’agente del Sismi Francesco Pazienza, esperto sommozzatore.

Dal fondo del mare, nei pressi del relitto, emerse anche un serbatoio di fabbricazione statunitense di un aereo militare, ma esso teoricamente sarebbe potuto appartenere a ben quattro modelli di velivolo diversi in servizio in quegli anni presso l’aviazione di una quarantina di Paesi al mondo, tra cui certamente gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania e la Libia, ma anche, per dire, il Botswana e l’Honduras; sicuramente, non alla Francia che però utilizzava un modello di aereo assai simile. Com’è noto, le tracce dei radar delle portaerei e delle basi a terra statunitensi e francesi, opportunamente sforbiciate nel corso degli anni, non hanno fornito risultati conclusivi a capire cosa accadde quella sera. Per parte sua il governo transalpino ha sempre negato movimenti aerei della propria aviazione militare sul mare Tirreno, ma è stato smentito dal generale dei carabinieri Nicolò Bozzo, braccio destro di Carlo Alberto Dalla Chiesa, grazie a una fortunata coincidenza. L’alto ufficiale dell’antiterrorismo italiano, infatti, proprio il 27 giugno 1980, si trovava in vacanza in Corsica, in prossimità della base aerea di Solenzara, e ha dichiarato, nel corso di un’audizione parlamentare, di avere visto: «un viavai incredibile di aerei. Erano aerei “Phantom” e “Mirage”. I “Phantom” erano tedeschi e belgi e i “Mirage” francesi» che durò dalle quattro del pomeriggio fino a notte fonda con atterraggi e decolli continui alla volta delle coste tirreniche. Il generale Bozzo ha tenuto a precisare di averli persino fotografati, un particolare che consente di nutrire almeno un dubbio sulla effettiva natura delle sue improvvise vacanze in Corsica dal momento che egli scelse di mettersi a prendere il sole proprio accanto alla recinzione della base militare francese.

Anche la strage di Ustica, quindi, potrebbe essere stata pesantemente condizionata da una dimensione internazionale, riguardante le relazioni dell’Italia con l’infuocato fronte mediorientale affacciato sul Mediterraneo. Un’area instabile, caratterizzata da una trama di rapporti politici, diplomatici ed economici, ma anche di traffici clandestini di armi, uomini e merci in cui si intrecciavano in quegli anni una serie di fili assai delicati: il «lodo d’intelligence», stipulato nel 1973 tra il governo italiano e l’autorità palestinese, l’annoso conflitto arabo-israeliano, le altalenanti relazioni tra Roma e la Libia, fondamentali per l’approvvigionamento energetico della penisola, e le crescenti tensioni della Francia e degli Stati Uniti contro il ras libico a causa della sue volontà di allargarsi sullo scacchiere mediterraneo. L’eliminazione di Moro nel 1978, che con la sua diplomazia formale e informale, era riuscito a tenere sotto controllo, per circa un decennio e oltre, prima come presidente del Consiglio e poi come ministro degli Esteri, quel campo minato a tutto vantaggio dell’Italia, provocò un’indubbia fibrillazione in quell’area già di per sé tanto instabile.
Francesco Cossiga

Bisogna anche tenere presente che, dal 1978 in poi, lungo il sabbioso confine tra la Libia e il Ciad, dove però nel sottosuolo riposavano imponenti giacimenti di uranio, era ripreso un conflitto armato che aveva visto la Francia inviare propri contingenti di soldati a difesa della sua ex colonia invasa dalle truppe di Gheddafi. Di conseguenza, tra il 1979 e il 1980, il governo di Parigi si trovava in una situazione di guerra non dichiarata ma effettivamente combattuta con la Libia e aveva buone ragioni per considerare la politica espansionistica di Gheddafi, in Nord Africa e nella fascia subsahariana, un fattore d’instabilità lesivo dei propri interessi nazionali.
Il generale Giuseppe Santovito, all'epoca direttore Sismi

In quella drammatica estate 1980, l’inquietudine continuò ad alimentare l’inquietudine e il tormento a crescere sul tormento in quanto l’attentato alla stazione di Bologna avvenne soltanto trentasei giorni dopo la strage di Ustica. Vi è un legame, al netto della loro prossimità cronologica e del filo dei depistaggi orditi dai nostri servizi infiltrati dalla P2, tra i due tragici avvenimenti che infuocarono in quell’estate il fronte mediorientale del Mediterraneo? A questa domanda bisognerebbe rispondere. Certo è che l’Italia, come tra il 1969 e il 1974 con le stragi di matrice neofascista, sembrava di nuovo presa nel vortice di una tempesta di sangue e di morte senza che si riuscisse a individuare l’origine dei colpi, il movente e soprattutto la via d’uscita.

Ma oggi lo sappiamo: «Guarda! Cos’è?» urlò il copilota del Dc 9: un missile o, assai più probabilmente, un caccia militare in posizione d’attacco. Di sicuro non era lo sputo di un airone, ma piuttosto un bagliore nel cielo in grado di rivelare il presente, il passato e il futuro della storia d’Italia, come sempre sospesa, con la sua difficile sovranità, tra la rigidità di un vincolo esterno e la fragilità di quello nazionale al tempo della Guerra fredda.

(2/Fine)