Il 27 giugno del 1980 la tragedia del DC-9 in cui morirono 81 persone. Una storia di depistaggi per coprire le responsabilità dei colpevoli, tra servizi segreti e neofascisti

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«Allora sentite questa... Guarda! Cos’è?». Secondo il registratore di bordo, il copilota del DC-9 pronunciò quest’ultima frase, recuperata grazie a un'inchiesta di RaiNews24, prima che una brusca e definitiva interruzione dell’alimentazione elettrica desse inizio alla cosiddetta strage di Ustica.

Quell’aereo, infatti, si inabissò a 3500 metri di profondità con il suo carico di 81 vite innocenti, storie e desideri bruciati in un istante, all’apparenza senza un perché. Fino a pochi mesi fa la tecnologia era riuscita a recuperare di quel nastro soltanto un più enigmatico «Gua…» ma una nuova perizia fonetica ha permesso di completare la frase. La speranza è che il restauro di questo dettaglio possa contribuire a restituire la tragedia di Ustica alla sua dimensione storica, ponendo fine a decenni di depistaggi e conseguenti dietrologie.

Per provarci conviene, come sempre, partire dalle ore immediatamente successive all’accaduto perché le impronte genetiche di un fatto consentono, solitamente, di ricostruire l’identità e la storia del funzionamento di un corpo. Un dato è assodato: la verità su Ustica ha cominciato a inabissarsi la sera stessa dell’incidente, forse quando ancora l’aereo non aveva fatto in tempo a spiaggiarsi nel fondo del Mediterraneo con il suo carico di morte.

La prima impronta genetica concerne le modalità con cui si iniziò da subito ad accreditare l’ipotesi di una bomba accanto alle teorie di un cedimento strutturale dell’aereo o di una collisione in volo, persino - si scrisse nell’immediatezza - con una meteorite. Infatti, nel primo pomeriggio del 28 giugno arrivò alla redazione romana del Corriere della sera una telefonata dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar), l’organizzazione neofascista guidata da Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, in cui si comunicava che a Ustica era morto anche il camerata Marco Affatigato, imbarcato «sotto falso nome e [che] doveva compiere un’azione a Palermo». Per identificarlo l’anonimo che chiamava aggiunse un particolare: portava al polso un orologio di marca Baume & Mercier.
Il relitto del DC-9 Itavia all'aeroporto di Pratica di Mare

A onore del vero la telefonata si limitava a fornire un’informazione, ma non parlava affatto di una bomba. Tuttavia, l’indomani, il Corriere della sera, allora pesantemente infiltrato dalla P2, titolava a tutta pagina «l’unica ipotesi per ora è l’esplosione», evidenziando insinuante nell’occhiello «I Nar annunciano che a bordo c’era uno di loro (aveva una bomba?)» e prospettando nell’articolo l’idea che l’ordigno, portato con sé dal giovane neofascista o collocato in un suo bagaglio, fosse scoppiato per errore. In realtà, Affatigato era vivo e vegeto e, diversamente dal «Fu Mattia Pascal» di pirandelliana memoria, si affrettò - come era prevedibile - a smentire la notizia della sua morte. Lo fece per tranquillizzare la madre, ma intanto il meccanismo di disinformazione, funzionale a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica sui vertici militari italiani e su eventuali scenari alternativi, era partito e non si sarebbe più fermato.

Nel corso degli anni Affatigato ha chiamato in causa più volte il colonnello Federico Mannucci Benincasa come autore di quella telefonata depistante, che avrebbe fatto su ordine del capo del Sismi Giuseppe Santovito, il quale nel 1981 sarebbe risultato iscritto alla P2. Mannucci Benincasa era giunto a Firenze come capo centro dei servizi militari nel 1971, su impulso del generale piduista Gianadelio Maletti, cui era molto legato, e vi sarebbe rimasto fino al 1991, a riprova di quanto la lunga stabilità del potere italiano non sia stata una prerogativa esclusiva della politica.

Non sappiamo se Affatigato abbia colto nel segno, ma di certo il diretto superiore di Mannucci Benincasa ha testimoniato nel 1991 di essere rimasto sorpreso dall’insistenza con cui il capo centro di Firenze, nei giorni successivi alla strage di Ustica, cercasse di accreditare con lui la tesi della bomba che il Corriere della sera aveva collegato proprio a quella telefonata.

In ogni caso, e a prescindere dalle responsabilità giudiziarie individuali, queste circostanze sono comunque assai importanti sul piano storico per due ragioni. Anzitutto perché i medesimi ambienti del Sismi si rimisero in azione soltanto trentacinque giorni dopo, in occasione dello scoppio della bomba di Bologna. Infatti, lo stesso Affatigato, all’indomani della strage del 2 agosto 1980, fu nuovamente tirato in ballo, questa volta con l’accusa di essere fra gli autori della strage e il suo identikit comparve insieme con quelli di Mambro e Fioravanti. Per sua fortuna riuscì a dimostrare che quel giorno si trovava a Nizza. Inoltre il piduista Licio Gelli, il vice capo del Sismi Pietro Musumeci e Francesco Pazienza (entrambi affiliati alla loggia segreta) e un altro alto ufficiale dei servizi militari Giuseppe Belmonte vennero condannati con sentenza definitiva per i depistaggi di copertura operati a Bologna, mentre il colonnello Mannucci Benincasa, giudicato colpevole in primo grado, sarà assolto nei due successivi livelli di giudizio.
Il trasbordo delle salme delle vittime

Il secondo motivo di interesse risiede nel fatto che il neofascista di Ordine nuovo Affatigato ha continuato ad ammettere, davanti all’autorità giudiziaria (ad esempio il 5 dicembre 1984, il 23 aprile 1992, il 15 luglio 2003 e il 17 marzo 2009), di essere stato, dalla seconda metà degli anni Settanta in poi, un collaboratore retribuito sia dei servizi francesi, che lo avevano accolto e protetto oltralpe, sia di quelli statunitensi. Alla luce di queste ammissioni il primo depistaggio su Ustica, apparentemente illogico perché agevolmente smentibile dall’interessato (come di fatto era avvenuto), poté avere una ragione pratica assai più raffinata: ossia, avvisare l’intelligence francese e quella statunitense che i servizi italiani ben sapevano cosa era effettivamente avvenuto quella notte nel cielo di Ustica perché il nome di un loro uomo, dato per morto, ma in realtà vivo e vegeto e da essi protetto (in quel periodo Affatigato risiedeva in Francia), era lì a dimostrarlo.

Anche il particolare, a prima vista incomprensibile, dell’orologio di marca va nella stessa direzione, in quanto i servizi militari furono informati di questo dettaglio, che corrispondeva al vero (Affatigato lo aveva comprato nel 1977) dall’esponente di Ordine nuovo Marcello Soffiati. Costui, coinvolto nella strage di Brescia nel 1974 e morto nel 1988, si era recato a Nizza a visitare Affatigato più volte nel corso del primo semestre del 1980. Anche i rapporti di Soffiati con la Cia sono provati così come le sue relazioni con la massoneria, tanto che lo stesso Affatigato, il quale lo aveva conosciuto in carcere a Firenze nel 1976, dichiarò di essere stato messo in contatto con la Cia proprio da lui.

La seconda impronta genetica ci ricorda che ogni grande storia ha sempre il suo piccolo eroe solitario che combatte a mani nude contro i giganti cattivi. Come se fossimo in una favola di Esopo, costui risponde al nome di Rana (Saverio), un generale dell’aviazione, nel 1980 presidente del Registro aeronautico italiano. Il giorno dopo la strage egli si recò da Formica (Rino), socialista e suo diretto superiore in quanto ministro dei Trasporti, per trasmettergli la sua convinzione che a Ustica l’aereo fosse caduto a causa di un missile.

Questo e non altro dicevano le copie cartacee dei tracciati radar di Ciampino da lui custodite e la sua lunga esperienza. Formica, che aveva grande fiducia in Rana perché era stato il pilota personale del leader socialista Pietro Nenni, ai primi di luglio, nell’anticamera della Commissione del Senato, portò la notizia all’orecchio del ministro della Difesa Lelio Lagorio, suo compagno di partito, il quale però preferì far finta di non sentire. Il 6 luglio 1989, ascoltato dalla Commissione stragi, Lagorio avrebbe confermato l’episodio aggiungendo però che gli era parsa «una di quelle improvvise folgorazioni immaginifiche e fantastiche per cui il mio caro amico Formica è famoso». Sarà, ma in questa storia Formica e Rana hanno avuto l’indiscusso merito di tenere aperto uno spiraglio verso la verità, ossia la realtà del missile quando tutti i muri di gomma nazionali ed esteri invitavano l’Italia a ribadire la favoletta del cedimento strutturale o della bomba.
La copertina dell'Espresso del luglio 1980

Ma non è finita qui. Rana, che doveva essere un uomo di una qualche determinazione e con solidi rapporti di lealtà con gli Stati Uniti, come tanti alti ufficiali italiani al tempo della Guerra fredda, fece una mossa a sorpresa: non rassegnandosi di essere rimasto inascoltato (erano morti ben 81 suoi connazionali), si recò presso l’ambasciata italiana di Washington e chiese all’addetto militare di essere accompagnato alla Federal Aviation Administration che si occupava dei disastri aerei per consegnare una copia cartacea del nastro radar di Ciampino affinché fosse esaminato. La Faa affidò il compito al National Trasportation Safety Board che incaricò il migliore dei loro tecnici, il perito John Macidull (lo stesso che nel 1986 indagherà sul disastro dello Schuttle Challanger), il quale accertò che vicino al DC-9 civile risultava esserci stato un aereo militare in posizione di attacco.

Rana, che sarebbe morto di leucemia nel febbraio 1985, fu a lungo vessato e isolato dai suoi pari grado dell’aeronautica che lo accusavano di avere consegnato agli Stati Uniti i nastri di registrazione dei radar di Ciampino senza averne il diritto. Tuttavia, per una volta (e forse non solo quella), la “doppia lealtà” - italiana e atlantica - di un alto ufficiale giocò a favore degli interessi nazionali e dell’onore del Belpaese. Infatti, nello stesso periodo, quei generali dell’aviazione italiana ostili a Rana, nel frattempo finiti sotto inchiesta per la strage di Ustica con l’infamante accusa di alto tradimento, da cui saranno poi tutti assolti, giocavano a fare le tre scimmiette: «non vedo, non sento e non parlo».

Un’ultima impronta, lasciata nell’imminenza della tragedia, rivela che la mattina del 28 giugno 1980, il capo del Sismi Santovito, spedì un fonogramma, che classificò «urgente», al conte Alexandre de Marenches, capo dello Sdece, il controspionaggio francese, in cui chiedeva - proprio ai cugini transalpini - informazioni e spiegazioni su quanto poteva essere accaduto la sera prima nel cielo di Ustica. A quanto risulta, dalle autorità francesi non si ottenne lo straccio di una risposta scritta che, a distanza di quarant’anni, l’opinione pubblica italiana attende ancora.

( 1/ continua )