Un nemico invisibile, che si sparpaglia nell’aria sotto forma di goccioline falcidiando tutto quello che trova sul suo cammino. Una raffica di bugie, di verità nascoste, occultate sotto scuse malsane, uno scaricabarile continuo come disciplina internazionale, a ognuno la sua colpa basta che non torni in dietro a me. Paura, terrore, consapevolezza di entrare a piedi uniti in un’epoca dove l’infelicità diventa inarrestabile. Mancata prevenzione, cura, attenzione per l’altro. La morte in solitudine, il funerale proibito, il parente allontanato. E infine l’esaltazione dell’eroe usa getta, l’angelo chiamato in causa a immolarsi senza spade né elmi, e lasciato solo di fronte all’inimmaginabile.
Rivedere Chernobyl (ora su La 7 dopo il meritato trionfo del passaggio su Sky dello scorso anno), ha una nuova forza dopo la pandemia. E quelle immagini dal sapore ferroso, immerse in un liquido verde oliva, si trasfigurano come Alice nello specchio, catapultandoti dal 1986 a oggi, dal disastro nucleare al disastro del virus, dalla maschera antigas alla mascherina.
La spaventosa bellezza della serie ideata da Craig Mazin sta nella resa puntuale dell’orrore nel reale. Oltre le piaghe, i cadaveri, la pelle che cade, la grafite, le fiamme, oltre lo spettacolo insomma, quel che si mostra è la consapevolezza che la morte si annida dove sei tu, in quella strada dove tra i sandali dei bambini dal cielo cade un uccello senza vita, in quell’aria che respiri dove gli animali sono creduti portatori di contagio, in quel contatto umano, nella tua casa che ti viene chiesto di chiudere a doppia mandata.
E quella sensazione di vita in bilico, di essere sospesi sul cratere del non essere, legati all’oggi da un filo sottile pronto a spezzarsi per un niente, è esattamente quello che il mondo intero ha provato in questi ultimi devastanti mesi. Ma non solo. Nei cinque episodi, scanditi dal rumore che si fa colonna sonora, un intero sistema viene messo sotto accusa. Il potere che si beffa dell’onestà e della trasparenza e si prende gioco della salute pubblica, della sicurezza di tutti, del futuro delle nuove generazioni. E no, non suona così inedito. Quando la gestione della pandemia mostra falle e cecità diffusa, quando ancora oggi le minoranze sono emarginate, la polizia violenta e comandano approssimazione e narcisismo, quel che resta è quel macro senso di inadeguatezza di chi ha in mano le redini della crisi, oggi come ieri, in Ucraina come a New York, come in Cina, come in Lombardia. Ed è straniante e se non fosse tragico, persino buffo che il dito puntato contro l’incapacità delle leadership sia quello di un prodotto seriale. Anche per questo, da non perdere.