
Negli ultimi giorni è esploso il nuovo caso in Germania, che ha coinvolto il macello più grande di Europa nel Nord Reno-Vestfalia dove sono lavorati ogni anno 16 milioni di suini e impiegati quasi 7 mila dipendenti. Il 17 giugno le autorità hanno confermato l’esistenza di un focolaio di Covid19, con oltre 1.300 casi di contagio già accertati. Non un caso isolato: secondo un dossier del Food and Environment Reporting Network (Fern) già prima del caso tedesco si contavano 2.670 casi di contagio negli impianti di lavorazione carne. Negli Stati Uniti il legame tra macelli e diffusione del Covid è di gran lunga più marcato che in Europa. Secondo lo stesso dossier Fern, a inizio giugno il conteggio era arrivato a 20 mila casi e 92 vittime tra i lavoratori. Alcuni focolai americani hanno persino superato il caso tedesco, come nel macello di suini Smithfield di Sioux Falls, in South Dakota. Si tratta di uno dei principali impianti del Paese, con 3.700 dipendenti e una capacità di macellare 19.500 capi ogni giorno. Qui già a inizio maggio si contavano oltre 1.000 casi di Covid tra dipendenti e contatti diretti. Il ruolo dei macelli nella diffusione del Covid negli Stati Uniti è diventato così evidente che un’inchiesta di Usa Today ha provato a incrociare i dati di contagio della popolazione con le aree dove si trovano i macelli. I risultati hanno mostrato un aumento dell’incidenza dell’epidemia del 75 per cento nelle contee dove si trovano le strutture.
Il moltiplicarsi di casi ha spinto le autorità e le aziende in Europa a fare tamponi a tappeto nei macelli dove si rilevavano anche piccoli focolai. In questo modo sono emersi focolai in 19 strutture in Irlanda (956 casi in tutto), una avicola in Galles (158 casi), tre in Francia (115, 54 e 9 casi), tre in Olanda (147, 21 e 28 casi), una in Belgio (70 casi) e sei in Spagna. In tutti questi casi la quasi totalità dei lavoratori era asintomatica. Alla fine di maggio anche il principale macello della Danimarca, di proprietà della Danish Crown, è stato chiuso per alcuni giorni mentre il 2 giugno l’associazione dei produttori del Regno Unito ha chiesto aiuto al governo per la mancanza di forza lavoro.
In Italia del rapporto tra Covid e macelli si è discusso in riferimento a un impianto in Puglia, il macello dell’azienda Siciliani di Palo del Colle. Qui a fine aprile le autorità hanno contato complessivamente 71 casi positivi su 500 dipendenti, innescando la chiusura dello stabilimento per due settimane. «La società ha avuto notizia dall’autorità sanitaria che quattro lavoratori in servizio presso il reparto di macellazione erano risultati positivi al Coronavirus», ricostruisce l’azienda. La Siciliani racconta quindi di aver «programmato, di concerto con le autorità sanitarie, l’esecuzione di un’importante campagna di circa cento tamponi, che ha prevalentemente interessato i lavoratori del reparto in questione. Quello che non è noto è che tutti i soggetti risultati positivi ai test condotti in azienda sono del tutto asintomatici e che l’approccio innovativo adottato ha condotto, mediante uno screening a tappeto di natura esclusivamente cautelativa, all’identificazione di positività che altrimenti non sarebbero emerse». In altre parole, secondo l’azienda, questo focolaio sarebbe rimasto occulto se di fronte a casi isolati di positività non fossero stati disposti tamponi a tappeto su tutti i dipendenti.
Nel resto del Paese, fino al mese di giugno, non sono emersi altri focolai, ma non sono stati effettuati tamponi a tappeto neanche di fronte ad alcuni casi di positività nelle strutture. «Dobbiamo ricordarci che fino a poco tempo fa non c’era disponibilità di fare tamponi», sostiene François Tomei, presidente di Assocarni, sigla a cui sono associati 120 macelli (ma non quello di Palo del Colle) che rappresentano circa il 70 per cento della produzione in Italia. Solo qualche giorno fa con il nostro partner Unisalute abbiamo lavorato sul tema dei test e dei tamponi. Un mese e mezzo fa la stessa Unisalute ci ha detto che non potevamo farne, neanche privatamente. L’unico mezzo che avevamo era quello di essere molto prudenti». Secondo Assocarni, nei macelli associati i casi di lavoratori positivi al Covid sono stati poche unità.
Uno dei macelli più colpiti dal lockdown è stato probabilmente l’impianto Inalca di Ospedaletto Lodigiano. Lo stabilimento, circa 750 dipendenti (di cui 650 circa in appalto), ha dimezzato la sua attività all’inizio dell’epidemia trovandosi ai margini della prima zona rossa di Codogno. «I primi Comuni che hanno dichiarato zona rossa erano vicini al macello, Casalpusterlengo, Codogno, per cui siamo stati messi tutti in quarantena, più della metà siamo rimasti a casa, chiusi nel Comune, e l’azienda è andata avanti con pochissima gente», racconta un dipendente. Quando è passata la quarantena, hanno lasciato a casa più della metà di noi con la cassa integrazione, così hanno creato le condizioni per il distanziamento».
Secondo una fonte sindacale interna all’azienda, in quelle prime settimane di epidemia «parecchie produzioni sono state spostate all’impianto Inalca di Castelvetro (di Modena, ndr), dove sono stati assunti altri 50 interinali». In questo impianto, riferisce la fonte, l’azienda e il sindacato hanno verificato quattro casi positivi al Covid, più una dipendente dell’amministrazione. Dopo i casi confermati, aggiunge la fonte, non sono stati fatti tamponi a tappeto agli altri dipendenti. «Sul piano della sicurezza, l’azienda è partita in ritardo. All’inizio abbiamo lavorato a ritmi straordinari, non avevamo protezioni, la gente era pigiata, lavoravamo anche il sabato e la domenica. Poi quando c’è stata la chiusura del governo ci si è messi pian piano in sicurezza». In questi giorni il comitato per la sicurezza dei lavoratori dell’impianto Inalca di Castelvetro ha chiesto di effettuare test sierologici a tutti, ma - secondo fonti sindacali - l’azienda non avrebbe risposto. L’Inalca non è stata disponibile per un’intervista sul tema contagi nelle proprie strutture, né a permetterci di visitare l’impianto.
Fonti sindacali denunciano opacità anche in altri macelli in Italia, in particolare proprio per quanto riguarda il mondo dei lavoratori in appalto, che spesso rappresentano la maggior parte della forza lavoro. «Dal nostro osservatorio, possiamo dire che in provincia di Modena c’è stata qualche decina di contagi nei macelli», afferma Marco Bottura, sindacalista Flai Cgil, basandosi su dati statistici Inail e segnalazioni degli stessi lavoratori positivi, «possiamo sospettare che ci siano stati focolai che non conosciamo in tutto il sistema appalti, dove ci sono molti lavoratori stranieri membri di comunità che vivono a stretto contatto e vanno a lavoro con mezzi in comune. Ma ad oggi abbiamo solo notizie per vie traverse o di qualcuno che è venuto a farsi patrocinare».
Dello stesso avviso Roberto Montanari, Unione sindacale di base di Piacenza, che rappresenta anche operai della logistica che lavorano nei macelli attraverso gli appalti: «Noi non abbiamo un numero preciso di contagiati. Sappiamo che ci sono stati contagi perché sappiamo quali nostri iscritti hanno usufruito della quarantena».
Uno stato di agitazione e uno sciopero sono stati proclamati a inizio marzo dai lavoratori dell’impianto Aia di San Martino Buon Albergo (Verona), uno dei macelli avicoli più grandi d’Italia con oltre 2.200 dipendenti e 160 mila polli macellati ogni giorno. «Nel settore della macellazione e della lavorazione delle carni avicole è quasi impossibile trovare il distanziamento perché i lavoratori sono gomito a gomito», afferma Paolo Vaghini, sindacalista Fai Cisl di Verona. « A parere nostro bisognava ridurre un po’ le linee. L’azienda per far fronte all’aumento della richiesta di mercato invece ha attivato unilateralmente lo straordinario obbligatorio», rimasto fino ai primi di giugno. Secondo Vaghini lo stato di agitazione è stato ritirato dopo che l’azienda ha assicurato ai lavoratori dispositivi di protezione individuale e una migliore gestione dei turni. Il sindacalista non possiede dati esatti dei numeri di contagio nell’impianto, ma parla di alcune unità, e conferma che a oggi nello stabilimento non sono stati fatti tamponi o test a tappeto.
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Anche nell’area di Forlì e Cesena, distretto di produzione avicolo, fonti diverse riferiscono di casi di Covid negli impianti di macellazione avicoli: «Ci sono stati casi nei macelli», afferma un dipendente di un’associazione di lavoratori. «In Romagna abbiamo molti macelli avicoli e ci sono stati casi anche qui, ma sono riusciti a individuarli: in genere hanno creato un sistema a squadre, in modo che quando si rilevava un’infezione in un turno si fermava tutto il turno, che non aveva mai commistione con altri turni, con altri settori». Alessandro Scarponi di Uila Uil riferisce che nel periodo dell’epidemia anche il principale macello di Amadori, a San Vittore, ha assunto 100 nuovi dipendenti per far fronte alla produzione.
Negli ultimi giorni di giugno fonti di stampa riferiscono di due nuovi focolai scoperti in un macello e in un impianto di lavorazione carni nel Mantovano, ciascuno con 12 casi accertati di lavoratori positivi al Covid19. Nel macello, situato a Viadana e di proprietà del gruppo Pini, l’azienda ha chiesto di fare i tamponi a tutti i 400 dipendenti per conoscere la reale dimensione del focolaio. Alla luce dei focolai nati nel mondo intorno a questo tipo di impianti, la scelta di fare tamponi a tappeto in caso di alcuni lavoratori positivi al virus sembra quanto mai necessaria.
Resta poi inesplorato un altro aspetto, quello della logistica che ruota intorno a questa industria. «Nella città dove abito ci sono all’incirca 10 mila persone che lavorano nella logistica, tra questi ci sono quelli dei macelli», continua Roberto Montanari. «Hanno continuato a girare per tutto questo periodo. Piacenza è una delle città che ha avuto il massimo numero di contagiati e morti. È difficile pensare che così tante persone che giravano non abbiano contribuito alla diffusione del virus».