
È il Teatro Andromeda, il teatro più in alto al mondo. Lo ha pensato e realizzato Lorenzo Reina, oggi contadino-scultore e fino a pochi anni fa pastore, nato nel 1960 a Santo Stefano Quisquina (provincia di Agrigento), dove vive e lavora in una fattoria solitaria tra i parchi che circondano il paese, insieme alle cose che ama: Angela e i loro due figli, Libero e Christian, i boschi, l’orto, il frutteto, gli asini, la vigna, l’oliveto, e naturalmente le sue sculture, che convivono con il teatro en plain air e la stalla nella Fattoria dell’arte, un complesso architettonico rurale in cui creatività e natura si mescolano in armonia.
Il suo contatto con il resto del mondo è internet. Non ha un telefono in casa, né un cellulare, ma usa Facebook per dare informazioni ai visitatori che vogliono raggiungere la contrada Rocca, dove sorge la Fattoria dell’arte, annunciata da una stele con una scultura bronzea del padre.
Arrivare lassù, in quella terrazza sospesa tra nuvole e monti, è un po’ come entrare in un’altra dimensione, preannunciata dai volti di pietra e dalle maschere che conducono al teatro, con il suo spazio scenico circolare affacciato sull’orizzonte. Vi si accede da una “Porta della Rinascita” attraverso la quale si entra nel mondo visionario di Lorenzo Reina.
Un muro di massi squadrati circonda la cavea trapezoidale fino ad un’altra porta, proprio alle spalle del palcoscenico. Lì la vista si perde in mezzo alla bellezza del panorama, che cattura lo sguardo fino all’isola di Pantelleria. Al solstizio d’inverno il sole scende dietro lo scudo bronzeo sospeso sulla porta, è “L’occhio di Dio”. Di fronte sono disposte, apparentemente in maniera disordinata, 108 pietre non lavorate, sistemate seguendo la disposizione delle stelle nella Costellazione di Andromeda. Su quelle pietre - da qualche settimana di nuovo accessibili ai visitatori (60 al giorno, divisi in due gruppi) dopo l’emergenza Covid - siede il pubblico per assistere a concerti e spettacoli.
«Il teatro è un dono portato dalla giovinezza, intorno ai vent’anni. Quella è l’età dell’oro, si hanno visioni, la forza per creare mondi e inventare futuri», racconta Lorenzo Reina, che da una decina di anni ha aperto al pubblico il suo teatro, mentre continua a lavorare ad un’altra opera, uno spazio chiuso per le rappresentazioni invernali: il Teatro di Terra.
Unico figlio maschio nato da una famiglia di pastori, Reina ha iniziato ad occuparsi della “mannira” (l’ovile) già a sette anni «per necessità», dopo un infortunio del padre. A dodici anni sapeva già mungere le pecore e così gli furono affidate quelle gravide. «Erano la mia disperazione. Di quegli anni ho solo ricordi tristissimi, niente di bucolico», racconta: «Imparai a proteggermi dalla solitudine immergendomi nella lettura e cominciando ad impastare la prima creta raccolta sugli argini del fiume».
Poi arrivò il servizio di leva militare a Napoli e fu la svolta. «Conobbi il maestro Gabriele Zambardino, che affinò la mia arte. Ritornai a casa con la consapevolezza di essere cambiato». Fu il poeta Cesare Sermenghi a convincere il padre delle sue potenzialità e a curare la prima mostra di sculture nella biblioteca del paese. «Riuscii a vendere tutte le mie opere e ad affermare la mia indipendenza nei confronti di mio padre. Ma fu il giorno in cui lui morì che dovetti decidere cosa fare della mia vita. Quell’ultimo giorno del mese di maggio mio padre mi chiese di non abbandonare le sue pecore e le sue terre. Cercava in me una promessa di continuità. Io lo rassicurai e calcai nel gesso le sue grosse mani. Quel calco, oggi testimonianza di un patto fatto solo di rinunce, trasformò il mio dolore in resilienza e coraggio». Da allora le sue due anime convivono nutrendosi della natura. «Non ricordo niente di facile nella mia vita. Per ogni cosa ho dovuto lottare e sudare».
Dal 1979 in poi le sue opere – una quarantina delle quali oggi sono custodite nella Torre ottagonale all’interno della Fattoria dell’arte - sono state esposte in diverse città. Le fotografie del Teatro Andromeda, invece, sono arrivate fino a Venezia, nel Padiglione Italia della XVI Mostra internazionale di Architettura della Biennale (2018), all’interno della mostra in otto itinerari “Arcipelaghi Italia”, curata da Mario Cucinella (già qualche anno prima era stato invitato alla Biennale d’arte da Vittorio Sgarbi, ma dovette rinunciare perché le sue asine stavano per partorire e poi c’era il teatro da finire).
Da quando ha preso coscienza del suo talento, non ha più smesso di creare. Ma come è nata l’idea di costruire il Teatro Andromeda? «Lo Spirito, come il vento, soffia dove vuole, e ha soffiato qui, dove alla fine degli anni Settanta portavo a pascere le pecore, che stranamente, come prese da incantamento, restavano a ruminare ferme come sassi. Allora ho intuito che da questo luogo fluisce energia positiva, così nei primi anni Novanta alzai le prime pietre. In quel tempo ho saputo che la Galassia M31 della Costellazione di Andromeda entrerà in collisione con la nostra Galassia tra circa due miliardi e mezzo di anni, pensai allora di dare forma a una cavea con 108 pietre ricalcando la mappa delle 108 stelle della Costellazione di Andromeda». Intorno ci sono le sue sculture, tutte sue tranne una, L’Icaro morente di Giuseppe Agnello, scultore di Racalmuto. «Le sculture anticipano il teatro, segnano un percorso di trasmutazione che va dalla pietra alla luce e un viaggio verso se stessi. Io vedo nella pietra una condensazione della luce».
Al solstizio d’estate i raggi del sole penetrano la bocca de L’imago della parola, regalando suggestivi giochi luminosi. Sono in tanti a visitare ogni anno il Teatro Andromeda, che ha già ospitato molti artisti, dai fratelli Mancuso a Mario Incudine, da Richard Smith a Marco Mengoni. Nel frattempo i lavori per ultimare il Teatro di Terra proseguono. «Si tratta di un’architettura di riuso all’interno della Fattoria», spiega: «Stiamo lavorando al controsoffitto (che è di oltre 800 metri quadrati), modellando il cartongesso come branche di palma su tronchi di terracotta, un richiamo a un’oasi perduta o forse ritrovata. La scena è uno spazio senza soluzione di continuità fra attori e spettatori. Aprirà al pubblico entro il 2020». Ma cos’è l’arte per Lorenzo Reina? «Per me è un atto di libertà, un mezzo per decifrare il mio tempo, un gesto di tenerezza. Solo questo mi ha condotto fuori dalla mia clausura, oltre ogni limite». E il suo desiderio più grande è di poter leggere tutti i libri non ancora letti finora, «all’ombra dell’ultimo platano piantato».