Destinazione mitica di scrittori e intellettuali. Finestra sull’Europa per la Russia degli zar. Polo d’attrazione per le avanguardie artistiche ma anche luogo di censura feroce. Viaggio d'autore nella capitale delle "notti bianche"

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Poche città del nostro continente hanno dato vita a tanti romanzi, poesie, sogni di rivoluzione e apocalisse, quanto San Pietroburgo. E, forse, quel luogo sull’imbocco del fiume Neva nel Golfo di Finlandia e quindi nel Mar Baltico è prima di tutto un mito, fondamentale sia per l’immaginario dell’Occidente sia della Russia, una leggenda che vince sui fatti, come se l’esistenza terrena di quell’agglomerato urbano venisse percepita come qualcosa di miracoloso: con una forte dose di malinconia. Basti pensare a “Notti bianche”, il capolavoro in cui Luchino Visconti (con l’ausilio di Suso Cecchi d’Amico) mette in scena fra le nebbie del quartiere Venezia di Livorno, ricostruito a Cinecittà di Roma, una struggente vicenda raccontata da Fëdor Dostoevskij e che qui viene reinterpretata da un grande Marcello Mastroianni e da una stupenda e inquietante Maria Schell.

San Pietroburgo è mito non solo perché è un pezzo di quella parte del mondo che ci ostiniamo a definire Occidente, costruito per essere invece la capitale di un paese che consideriamo Oriente. La città è un mito perché nella sua manifesta schizofrenia nessun desiderio e nessun racconto sono mai stati troppo audaci. Molti, in quel luogo hanno cercato le tracce del Demonio, le orme di Anticristo. I bolscevichi poi non l’hanno mai amata. Poche settimane dopo la Rivoluzione d’Ottobre la capitale venne spostata a Mosca, una città dove la sede e il simbolo di potere è il Cremlino, una fortezza cinta dalle invalicabili alte mura rosse, mentre a San Pietroburgo i potenti dimoravano nei palazzi settecenteschi, aperti alle piazze e costruiti da architetti italiani. Del resto, per sessantasette anni, dal 1924 e fino al 1991, San Pietroburgo non è esistita, sostituita da Leningrado. Il nuovo nome non era solo un omaggio a un leader, ma prima di tutto un tentativo di oscurare la finestra sull’Europa, come la città veniva spesso definita.

Abbiamo detto mito e finestra sull’Europa. C’è un poema di Aleksandr Pushkin, che mette insieme ambedue le nozioni e ne fa, in pratica, il principio fondativo della moderna letteratura russa. Si intitola “Il cavaliere di bronzo” (si raccomanda la versione italiana di Ettore Lo Gatto, il pioniere degli studi russi nel nostro paese). La storia è questa. Un giovane piuttosto insignificante, un impiegato di Stato come ce n’erano a migliaia nella capitale, una notte si rivolge alla statua equestre di Pietro il Grande. Fu lui a strappare il luogo agli svedesi, all’epoca dominatori del Baltico e a fondare nel 1703 la nuova città.

Pietro, fin da giovane (ereditò il trono a Mosca all’età di dieci anni) mescolava una straordinaria crudeltà - assisteva di persona alle torture inflitte ai veri e presunti cospiratori, e i modi in cui venivano messi a morte i nemici erano raccapriccianti - alla curiosità per tutto quello che veniva dall’Europa. A Mosca frequentava il quartiere degli artigiani e commercianti tedeschi e si prese una ragazza tedesca per concubina. Impose ai boiardi il taglio delle barbe e l’abbandono dei vestiti tradizionali. Disprezzava i preti. Presto si sparse la voce che l’Imperatore fosse l’Anticristo appunto e, in aggiunta, figlio di una coppia di borghesi tedeschi: un falso zar, insomma. Poi, se ne era andato in Occidente. Visitò la Germania, l’Olanda, l’Inghilterra, lavorò come operaio in incognito in un cantiere navale. Finalmente tornò a casa, conquistò come si diceva lo sbocco sul Mar Baltico, e fece costruire su un terreno paludoso la nuova capitale, da cui volgere lo sguardo verso l’Ovest.

Ecco, abbiamo lasciato il protagonista di Pushkin, di notte davanti ai piedi della statua. Quel monumento lo volle erigere Caterina la Grande, nella seconda metà del Settecento con l’intento di stabilire una continuità con lo zar fondatore. Caterina era amica di illuministi. Intratteneva una ricca corrispondenza con Voltaire, tanto che gli chiese aiuto per costruire a San Pietroburgo un palazzo per se stessa, che fosse copia esatta del castello di Ferney da lui abitato (come se la Ragione dimorasse in uno spazio architettonico). L’intento non fu realizzato, in compenso la zarina riuscì ad acquisire la biblioteca del filosofo dopo la sua scomparsa, e così i suoi oltre seimila libri vennero trasferiti nella capitale russa. A Diderot invece chiese consiglio a chi far costruire il monumento a Pietro. Il direttore dell’Encyclopédie le raccomandò Etienne Falconet, scultore, traduttore in francese delle opere di Plinio, e uomo molto amato da Madame Pompadour.

Falconet realizzò una statua alta sei metri, la figura di Pietro posata su un cavallo in atto di impennarsi, la mano destra dello zar tesa verso le Terre del Tramonto. La gigantesca opera venne issata su una pietra trovata su un’isola finlandese, pesante 1.500 tonnellate, la più grande mai usata per scopi edilizi. Il trasporto via terra e mare durò tre mesi. Sul piedistallo del monumento la zarina volle l’iscrizione in latino e in russo: a Pietro primo Caterina seconda. Lumi e schiavitù: in fondo, la Modernità è questo. Il piccolo impiegato, dunque, davanti a tanta magnificenza canta il suo amore per la città, ma poi rimprovera l’Imperatore. A San Pietroburgo, costruita sull’acqua e sulle ossa degli operai schiavi morti lavorando per assecondare il desiderio dell’Imperatore, ci fu un’inondazione.

Gli abitanti dei quartieri bassi morirono in massa.E fra i morti c’era la ragazza amata dal protagonista del poema: la sorte degli uomini e donne comuni non interessava lo zar. Così ora, lui il piccolo impiegato maledice il crudele autocrate. Non finisce bene. Ma il punto è che Pushkin stabilisce per sempre il nesso fra Bellezza e Maledizione e parla della Ragione come esercizio pratico del cinismo. I versi di Pushkin venivano sottoposti alla censura dello stesso zar, Alessandro I in persona, in un rapporto che dire ambiguo è un eufemismo. Lo spirito di San Pietroburgo è anche questo: ammirazione per l’arte e censura feroce. Del resto, la Modernità da quando esiste ha messo insieme Lumi e schiavitù.

Nel 1831, Nikolaj Gogol, giovane scrittore venuto a San Pietroburgo dall’Ucraina, incontrò Pushkin. Ne nacque stima e amicizia. Il grande poeta influenzò lo sguardo del giovane romanziere sulla città? Se ne può discutere. Comunque gli eroi di Pushkin erano spesso uomini inadeguati, superflui (un tema che diventò il grande leitmotiv della letteratura russa dell’Ottocento) e anche agli occhi di Gogol, l’autore de “Il cappotto”, “Il naso”, “Le anime morte”, San Pietroburgo è luogo di passioni non appagate. In “Prospettiva Nevskij”, un racconto sulla strada principale della città, ci sono due protagonisti innamorati di due donne. Il primo finisce suicida quando scopre che l’oggetto del sogno era una prostituta. Il secondo viene bastonato dal marito di lei, e rassegnato, rimugina leggendo “Severnaya pchela” (L’ape del Nord), un foglio reazionario redatto da agenti della polizia segreta.

Però non c’è solo frustrazione. Ha scritto Andrej Sinjavskij, grande romanziere e per anni prigioniero del Gulag: «Al fondo di Gogol c’è la forza della parola magica, che prende la forma dell’esorcismo». Magia ed esorcismo. Gogol parlava del diavolo che in “Prospettiva Nevskij” mostra tutto in una falsa luce. Valeva anche per lo scrittore che nei libri usava il sarcasmo nei confronti dei possidenti delle terre mentre in privato difendeva l’istituto della servitù della gleba? Fu Dostoevskij ad affermare: «Tutti noi, veniamo dal cappotto di Gogol». Voleva dire: la prosa russa nasce dalla penna di quel signore che non amava nessuna, tranne Roma («patria dell’anima») fra le numerose città in cui soggiornò. In “Delitto e castigo” Dostoevskij narra una San Pietroburgo infernale: «triste, maleodorante, repellente».

Oggi, la casa di Raskolnikov, lo studente permeato da idee socialiste, nichiliste, in rivolta contro il mondo e che uccide una vecchia usuraia, per poi trovare la redenzione in esilio, lontano dalla capitale, è identificata con un edificio in via Grazhdanskaya 19. Grazhdanskaya vuol dire, in russo, cittadina. Ironia della storia, visto che nel romanzo siamo in una San Pietroburgo dove gli ex contadini diventati proletari sono abitatori di bassifondi, umili e offesi, altro che cittadini. Raskolnikov poi cammina tantissimo (un illustre concittadino di Dostoevskij, Josif Brodskij, dirà negli anni Sessanta del secolo scorso che «i nati in questa città non fanno altro che camminare», annota la storica Ewa Berard) e vede strade piene di ubraichi e polvere ovunque. Ma è qui a San Pietroburgo che con le “Memorie del sottosuolo”, è ambientato, stando a molte interpretazioni, il libro decisivo per la nascita dell’esistenzialismo, a Parigi, molti decenni dopo.

Ecco, non è stata solo l’Europa a portare idee a San Pietroburgo ma è anche San Pietroburgo ad aver esportato idee in Europa. Pensiamo al periodo a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento. La città, per la ricchezza e l’audacia della vita culturale è seconda solo a Parigi, forse. Nei salotti, nei caffè, nei teatri cittadini recitano le loro poesie i futuristi, i simbolisti, gli acmeisti. I borghesi costruiscono palazzi che superano per sfarzo e bellezza quelli di Vienna. Nonostante l’antisemitismo ufficiale del potere nasce una sinagoga fra le più ampie del mondo.

Nel teatro Mariinskij, il regista Vsevolod Meyerhold rivoluziona le regole della recitazione. Sergey Diaghilev organizza mostre di pittori avanguardisti e spettacoli di danza che poco hanno a che fare con i canoni classici. Cominciano a brillare le stelle di poeti come Vladimir Majakovskij, Sergej Esenin, Aleksandr Blok, Anna Akhmatova. Dopo la rivoluzione d’Ottobre, Blok, forse il più grande della compagnia, scrive il poema “Dodici”, paragona i bolscevichi agli Apostoli destinatai a redimere il mondo. Poi muore di stenti. Esenin, figlio di contadini, sposa Isadora Duncan, sofisticatissima danzatrice americana. Finisce suicida, nel 1925, in una stanza dell’hotel Angleterre. Majakovskij si spara in testa cinque anni dopo. Meyerhold è fucilato per ordine di Stalin nel 1940. Diaghilev muore esule a Venezia.

Akhmatova sopravvive, isolata nella sua stanzetta, oggi un museo; nel 1945 Isaiah Berlin, filosofo, all’epoca diplomatico britannico, le fa visita, parlano una notte e un giorno. Lei dopo due decenni in cui non ha visto nessuno straniero gli racconta i novecento giorni dell’assedio della città da parte dei nazisti e tante altre cose (per la storia dell’assedio, obbligatoria la lettura di “Memorie dell’assedio di Leningrado” di Lidija Ginzburg, editi da Guerini e Associati). Lui la protegge (Stalin la definì «mezza suora mezza puttana»). Negli anni Sessanta, a sua volta Akhmatova cerca di proteggere un altro grande poeta, Brodskij. Invano. Il giovane finisce in prigione e poi in esilio. È sepolto a Venezia, la città che più assomiglia alla sua San Pietroburgo.

E tuttavia San Pietroburgo è rinata, del resto Vladimir Putin viene da Leningrado e non lesina gli aiuti alla città. Andare per vedere. E se non si può andare, causa Covid, è consigliata non solo la lettura dei romanzi ma anche la visione del meraviglioso film di Aleksandr Sokurov, “L’arca russa”. Sono oltre novanta minuti di viaggio, in un solo piano sequenza, dentro l’Ermitage, il palazzo voluto da Caterina la Grande, fra opere d’arte e fantasmi degli zar. Tra i quadri di quel museo stupendo c’è un dipinto di Rembrandt: “Il sacrificio di Isacco”. Nel gioco cromatico, Abramo è vestito di nero, Isacco ha la pelle chiarissima e luminosa. L’angelo fa volare il coltello dalla mano del padre che vuole uccidere il figlio. La luce vince sull’oscurità.