Dicevano di voler cambiare, invece volevano sostituire e si sono fatti classe di potere, senza mai staccare la propria ombra da terra. Per questo quella che si vince o si perde il 20 settembre è una battaglia culturale, civile e politica

Luigi Di Maio
Staccando l’ombra da terra è il titolo del libro più bello di Daniele Del Giudice, uscito nel 1994. Romanzo, racconto e monologo di manovre di decollo e di atterraggio, di voglia di volare e di paura di fallire. L’errore e la caduta, «il sole a filo di pista, la pista che finisce nel mare, niente comunque ti farà presagire che è giunto il momento, per te, di trovarti su un aeroplano senza passeggeri, senza piloti, senz’altri che non sia tu stesso, come nel peggiore dei sogni... vuoi solo vedere come andrà a finire, vuoi andare fino in fondo, al fondo della pista, verso quell’attimo di disequilibrio con cui tutto si solleva, s’impenna, staccando la tua ombra da terra».

Pensavo a questa splendida pagina iniziale di Del Giudice, scrittore nel buio e vivo, da rileggere e da riamare, a proposito del dibattito pubblico italiano che non riesce a prendere quota, che resta bloccato al livello della terra, in questa estate 2020 che finisce un po’ in dramma un po’ in farsa.La notizia del Billionaire focolaio del covid e di Flavio Briatore positivo al virus, rivelata dall’Espresso, è per i ricchi negazionisti dell’epidemia un epilogo degno di un film di Dino Risi. Nell’estate di sessant’anni fa Risi stava girando “Una vita difficile”, con l’interpretazione capolavoro di Alberto Sordi e il liberatorio ceffone finale del suo personaggio. La troupe lavorava sul lungomare di Viareggio che era la Costa Smeralda dell’epoca, tra commendatori, grandi evasori, arrivisti, starlette, nel film di Risi spunta pure l’alto prelato. Un demi-monde che con qualche aggiornamento si mostra immutabile alla numerazione delle repubbliche, ai passaggi epocali come quello del coronavirus che doveva cambiare tutto e che per alcuni non ha cambiato nulla.

È esperienza di tanti in queste settimane il racconto di un’inedita battaglia culturale combattuta nelle spiagge o in altre località di vacanza tra chi cerca a fatica di rispettare e far rispettare le misure di prevenzione (l’obbligo della mascherina, il distanziamento fisico, il divieto delle aggregazioni), una maggioranza silenziosa, e chi ha unilateralmente dichiarato chiusa la guerra, spiegando che la pandemia non c’è più, forse non c’è mai stata. Forse non ci sono stati neppure i malati e i morti non sono mai esistiti.

I negazionisti del virus rappresentano il volto del Paese che è indifferente allo sforzo di un civile stare insieme, come lo chiamava Giorgio Gaber. Nel mondo di Donald Trump e nell’Italia della destra che non porta con sé nel dna la legge e l’ordine, il culto delle regole magari parruccoso però utile, ma al contrario l’individualismo alieno alla vita sociale, la pulsione a inseguire tutto ciò che disgrega rispetto a quello che unisce e che richiede disponibilità al compromesso, alla rinuncia di qualcosa di sé, perfino al sacrificio, se necessario, responsabilità e senso del limite.

Sono le le qualità collettive, stavo per scrivere le virtù, richieste a un paese che si appresta a vivere il mese decisivo per il suo futuro. Il piano per accedere al Recovery Fund va presentato il 15 ottobre, tra quarantacinque giorni. Da qui ad allora, ci saranno la ripresa delle attività produttive, il ritorno a scuola dopo sei mesi di chiusura, il doppio voto del 20-21 settembre per le elezioni regionali e per il referendum sul taglio dei parlamentari. In ognuno di questi passaggi si confrontano interessi particolari e visioni generali, chi disfa la tela e chi la ricuce. Il populismo è questo: l’esaltazione del particolare, il singolo cittadino che per definizione ha sempre ragione, e la distruzione di ciò che è generale, rappresentato dalle detestate élites. Le élites fanno di tutto per meritarsi la loro cattiva fama. Soprattutto quando si comportano come lobby affamate di privilegi e incuranti del bene comune.

Opinione
Il Movimento 5 Stelle è passato dal populismo all'occupazione del potere
26/8/2020
Ma il populismo viaggia sullo stesso binario, nonostante il suo proporsi sul proscenio come dirompente, anticonformista, rivoluzionario. È invece qualcosa di profondamente italico, quasi una maschera nazionale, per questo ha attecchito senza incontrare resistenze non solo nelle fasce popolari che nel decennio 2008-2018 erano state colpite dalla recessione, ma anche tra le classi dirigenti, politiche e economiche, confindustriali e sindacali, tra gli intellettuali e gli opinionisti. E soprattutto nel corpaccione centrale del Paese, il ceto medio che un tempo era il luogo della moderazione, in cui le spinte estremiste trovavano equilibrio e si ricomponevano, e che invece è diventato l’epicentro del terremoto, il cratere dell’instabilità sociale e politica.

È lì, dunque, che si vince o si perde nelle prossime settimane una battaglia culturale, civile, politica che va oltre la lettera del quesito referendario, come in altre fasi della storia. Non era destinato a entusiasmare le folle il referendum abrogativo del 9 giugno 1991 sulla abolizione delle preferenze multiple dalla scheda per l’elezione dei deputati alla Camera. In quel voto c’era il quorum del 50 per cento dei votanti (a differenza del referendum del 20 settembre in cui il quorum non ci sarà), eppure grazie alla tenacia di Mario Segni e dei promotori quella questione secondaria assunse il carattere della chiusura di una fase storica, come racconta bene il documentario di Antonio Plescia e di Giacomo Visco Comandini “Andate al mare. La disfatta della Prima Repubblica”. In quel voto in apparenza insignificante si concentrarono la fine di una classe dirigente politica che pure aveva avuto grandi meriti e la nuova fase storica aperta dalla caduta del muro di Berlino e dall’Europa di Maastricht. Una fase storica che nel quarto di secolo successivo ha avuto in realtà ben pochi interpreti all’altezza: Carlo Azeglio Ciampi e i suoi successori al Quirinale, Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella. Beniamino Andreatta, Romano Prodi, Mario Draghi. Il giovane Enrico Letta. E oggi l’asse italiano che occupa posizioni chiave nell’Unione, da David Sassoli a Paolo Gentiloni.

Anche il referendum del 20-21 settembre può essere preso alla lettera, tagliare qualche centinaio di deputati e senatori per riformare il sistema. Con l’esito più prevedibile, la vittoria dei Sì. Chi infatti potrebbe dire di no a una banalità del genere (i parlamentari sono troppi e neppure bravi, come i calciatori di Makkox). Su questo finale di partita scommette il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che si è autoproclamato timoniere del fronte del Sì. Il vero capo politico del Movimento 5 Stelle percorrerà l’Italia nelle prossime settimane predicando la necessità della riforma costituzionale contro l’establishment che non vuole cambiare nulla, la classe politica che difende se stessa. Ricorda qualcosa o qualcuno? Sì, anche Matteo Renzi fece così nel 2016 e la personalizzazione del voto referendario andò malissimo. Ma almeno la riforma costituzionale del 2016 era - come si dice - una riforma organica. Mentre questa è un brandello di riforma, è un contributo allo smantellamento di un altro pezzo di istituzione.

Quello che resta dell’antica carica grillina al Movimento 5 Stelle, ormai partito architrave del sistema. Anzi, il 97 per cento dei parlamentari che hanno votato per il taglio alla Camera sono il Sistema che si piega a farsi guidare dall’ex partito Antisistema che ora non vuole più cambiare nulla ma soltanto sostituire. Di questo referendum Di Maio è l’immagine. Un politico che è stato vice-presidente della Camera a 26 anni, ministro dello Sviluppo economico, del Lavoro, vice-presidente del Consiglio e capo del suo partito (altro che doppio e triplo incarico, un poker di poltrone) e poi ministro degli Esteri con un governo di diverso colore è uno che si candida al restare al potere per decenni. Vuole tagliare l’establishment, ma è lui il campione dell’establishment di ultima generazione cresciuto nel vuoto, il giovin signore del nuovo vecchio ancien régime incapace di staccare l’ombra da terra. Di Maio vota sì, e con lui anche, per dire, il deputato Marco Rizzone, uno dei furbetti del bonus su cui si è mossa la caccia alla casta agostana, il volto di questa nuova classe politica, inconsistente, felice di esserci, di essere invitata al banchetto, inutile.

Anche nel caso del referendum del 20-21 settembre si può restare inchiodati alla pista. O alzare lo sguardo più in là. Su quanto sta avvenendo in Europa e nel Mediterraneo, ad esempio. Il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, uno dei politici più longevi ma anche più visionari, ha provato a farlo in una lettera ai rappresentanti delle istituzioni europee, il presidente del Parlamento David Sassoli, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Sugli sbarchi dei migranti il presidente della regione Sicilia Nello Musumeci ha dato una risposta di chiusura e di cortissimo respiro, Orlando prova invece a collocare la questione come un tassello nel mosaico da costruire: la nuova Europa, il nuovo Mediterraneo sconvolto dai venti di guerra tra Turchia e Grecia e gli Stati che non ci sono più come Libia e Libano. Il tassello e il mosaico sono le immagini di quello che è una costruzione politica in democrazia: un lavoro paziente di incastro di frammenti, di forze a volte contrapposte che miracolosamente compongono l’unità.
DAMILANO_WEB

Lo stesso vale per le istituzioni repubblicane. Democrazia, popolo, sovranità, territorio, rappresentanza, ovvero i pilastri della nostra Costituzione, sono categorie in disarmo se non ci si alza da terra, se non sono declinate in una chiave europea. Oggi serve una democrazia europea, e quindi un popolo europeo, una sovranità europea. È il nostro orizzonte e il nostro destino. Oggi non si tratta di ridurre i parlamentari per far contenta la nuova nomenclatura, ma far rivivere il Parlamento che è stato ucciso. Serve una doppia Costituente, cito ancora una volta Umberto Gentiloni e la sua “Storia dell’Italia contemporanea 1943-2019” (Il Mulino), nazionale e europea, su modello di quanto avvenne nel periodo 1945-1950, quando i due piani si incrociarono in modo irreversibile. Il piano Recovery Fund-Next Generation apre una storica opportunità per trasformare l’Unione da economica in politica, spazio di libertà e di democrazia.

Per presentarsi all’appuntamento l’Italia dovrebbe avere un sistema istituzionale più forte e più autorevole e una società messa nelle condizioni di partecipare e di contare nelle decisioni. Invece, siamo alla vigilia di un voto referendario in cui i giovin signori del nuovo ancien regime, i Di Maio, i Buffagni, i Rizzoni vogliono portare a termine il loro progetto di svuotamento, di demolizione di ciò che esiste, per mantenere il potere appena felicemente raggiunto. E la società non è un mosaico, ma un groviglio di tessere impazzite, ciascuna con il suo interesse da far prevalere sull’altro. La battaglia, però, è ancora aperta, passa anche per il No del 20-21 settembre, che va impugnato da una nuova generazione per il progetto di un’altra Italia nel contesto internazionale imprevisto e decisivo, come si legge nelle pagine che seguono, con il manifesto per il No che le Sardine affidano all’Espresso. È questo l’attimo di disequilibrio con cui tutto si solleva, s’impenna. In cui è necessario staccare la tua ombra da terra.