
Un carattere, centinaia di interpretazioni, oltre tremila significati. È il colorato mondo delle emoji, ideate dal giapponese Higetaka Kurita che nel 1999 disegnò il primo set contenente 176 simboli. Una volta, in una intervista alla Cnn Higetaka ha dichiarato di aver preso ispirazione da pittogrammi e manga, ma difficilmente avrebbe immaginato che la emoji di un pesce palla o di un pupazzo di neve sarebbe stata utilizzata dai pusher per vendere la cocaina online. Oppure, che l’icona di un camion sarebbe stata usata dai terroristi per identificare la loro metodologia d’attacco.
Sono solo alcuni degli esempi citati dal bollettino d’intelligence “Criminal and violent extremist use of emojis” firmato dalla Central Florida Intelligence Exchange, dal San Diego Law Enforcement Coordination Center e dallo Utah Statewide Information e Analysis Center. Il file è stato pubblicato online da Anonymous a fine giugno in un blocco di documenti dal nome BlueLeak: circa 259 giga di materiale su oltre 200 dipartimenti di polizia statunitensi. L’obiettivo del rapporto è fornire agli agenti federali alcune chiavi interpretative sull’uso violento e criminale delle emoji utili per le loro indagini.
Secondo il documento, le emoji sono diventate uno strumento diffuso nella comunicazione digitale tra membri di organizzazioni criminali e terroristiche. «I criminali adottano con entusiasmo tecnologie che agevolano i loro reati e rendono più difficile per le forze dell’ordine indagare sulle loro attività», afferma Marilyn McMahon, professoressa di Criminal Law alla Deakin University: «L’uso delle emoji in contesti delittuosi è infinitamente vario, ma c’è un filo conduttore: i segni funzionano come un codice che risulta comprensibile solo ai membri delle organizzazioni criminali», aggiunge l’esperta.
In fondo, era proprio questo il senso dei pizzini di Bernardo Provenzano: messaggi scritti con errori grammaticali, numeri e frasi in codice decifrabili soltanto da parte del mittente. Oggi, in Italia, quei pizzini lasciano spazio alla comunicazione criminale digitale tipica delle baby gang composta da messaggi e faccine sorridenti inviate su WhatsApp.
«Dai trafficanti che vendono droga sul dark web ai seguaci dell’Isis che minacciano di far saltare in aria gli edifici, tutti i gruppi criminali hanno usato le emoji come parte delle loro comunicazioni online», sottolinea la professoressa McMahon. Tuttavia, ogni organizzazione ha un proprio linguaggio, un proprio cifrario. Secondo l’Università di San Diego, in un contesto di traffico di esseri umani il simbolo della corona viene impiegato per affermare che la vittima in questione è sotto la custodia di una gang o dentro la casa di un trafficante; oppure che c’è una terza parte coinvolta nella transazione. Il numero di rose inviate in un messaggio sta a rappresentare invece il prezzo della vittima. L’emoji della ciliegia implica che la vittima è vergine o una teenager, mentre un cuore in crescendo sta a significare che è un bambino.
Le gang, secondo le carte dell’intelligence, fanno un utilizzo massiccio delle emoji soprattutto su social network come Facebook, Instagram, Twitter e Snapchat, dove postano con ostentazione e spavalderia intimidazioni e insulti rivolti ai membri di gruppi criminali avversari. Si identificano con l’icona della pompa di benzina, perché all’inizio era disegnata con una “G” (gas) scritta al centro dell’immagine, mentre il simbolo del cappello da mago indica qualcuno affiliato di sangue all’interno del gruppo. I membri delle gang, soprattutto i più giovani, sono inclini a comunicare con frasi costruite interamente da simboli e poche parole. Gli ordini viaggiano attraverso faccine e oggetti disegnati: l’emoji di un uomo che corre più quella di un coltello o di una forbice rappresentano un ordine di pugnalare qualcuno, mentre quella di un poliziotto accompagnata dalla pistola indica, molto banalmente, di sparare a un agente.
Tuttavia, il primato per l’uso più fantasioso delle icone spetta senza ombra di dubbio ai pusher. Quelle dei broccoli e degli alberi vengono utilizzate per ordinare la marijuana, quelle del pupazzo di neve, del cristallo di neve e del pesce palla, per la cocaina. Ci sono anche emoji come quella della pallina da biliardo nera con il numero otto oppure quella dello zaino, che vengono utilizzate per indicare il peso della droga che si vuole comprare, rispettivamente otto once e una libbra.
Nel documento esiste anche un paragrafo dedicato all’impiego delle emoji come minaccia. Ad esempio, il simbolo della doccia sta a significare una “pioggia di proiettili”, mentre quello di una persona accompagnata da una palla da bowling che colpisce birilli identifica una minaccia di voler picchiare qualcuno. Lo scorso anno, in California, una ragazza di quindici anni è stata arrestata e accusata di minacce dopo aver postato su Snapchat una foto che ritraeva una vetrina di fucili accompagnata dal testo «Don’t come to school tomorrow» e da emoji raffiguranti faccine arrabbiate e piangenti. La giovane accusata si è difesa dicendo che era tutto uno scherzo, e che lo aveva fatto per aumentare la popolarità su Snapchat, senza riuscire a convincere gli inquirenti.
Per i terroristi dell’Isis, invece, le emoji sono il modo migliore per denominare i propri canali Telegram. Le agenzie di sicurezza hanno trovato un canale facente capo ai terroristi islamisti identificato soltanto da una emoji di un autoarticolato. Un canale volto a reclutare combattenti per attacchi da condurre con camion o altri mezzi di trasporto, come quelli messi a segno in Francia e Inghilterra. Un altro canale, nato con l’intento di sostenere l’Isis in Libia, è stato denominato da una semplice emoji di una forbice. L’immagine del lupo, invece, identifica le singole cellule terroristiche. Un coltello, un mezzo di trasporto o una bomba sono utilizzati per dare ordini sul tipo di attacco da condurre.
Una caratteristica comune dei terroristi è usare le emoji per promuovere idee e concetti che mirano a rafforzare la propria ideologia. L’immagine dell’indice rivolto verso l’alto rappresenta il Tawheed, che nella religione islamica identifica l’esistenza di un solo Dio. Immagine utilizzata spesso tra i profili pro Isis quando si scrivono post o messaggi propagandistici. Inoltre, gli agenti federali hanno verificato che in occasione di attacchi, alcuni account affiliati a profili di sostegno all’organizzazione terroristica tendono a postare un cuore verde accompagnato da una colomba. Entrambi simboleggiano il martirio.
I suprematisti bianchi, invece, utilizzano le emoji per camuffare alcuni riferimenti nazisti tra i loro messaggi. Il simbolo del cancelletto significa “Heil Hitler” perché interpretato come due “H”, invece due fulmini rappresentano le SS. La pompa di gasolio e il fuoco sono, invece, utilizzati per supportare la teoria dell’accelerazionismo.
Non tutte le icone, tuttavia, hanno un significato esplicito palese e l’interpretazione sul loro contenuto può variare a seconda della cultura di appartenenza. Ad esempio, l’emoji dell’angelo assume in Europa un significato di speranza, fede, innocenza, mentre in Cina viene vista come sinonimo di morte e in alcuni casi anche come una minaccia.
Esemplare anche l’immagine della pillola, che ha molteplici significati: i pusher la utilizzano per vendere la droga, i terroristi per discutere di avvelenamenti, i suprematisti bianchi si riferiscono alla “red-pill” o “black-pill” per identificare un nemico della loro ideologia o per reclutare altri soggetti affini all’interno del movimento.
La loro interpretazione, quindi, non è così scontata e pone nuove sfide in sede processuale nel decifrare i codici dei gruppi criminali. «In passato i tribunali hanno dovuto interpretare il linguaggio dei segni, i simboli, i tatuaggi e il significato dei pizzini», aggiunge la professoressa McMahon. Le emoji si presentano come nuova sfida interpretativa. «Non è una novità: i sistemi di giustizia penale hanno usato ex membri di bande criminali ed esperti per determinare il significato dei messaggi. Potrebbero usare le stesse strategie per decodificare il significato delle icone», spiega.
Per fare ciò, sostiene la professoressa, è importante che le emoji siano rappresentate accuratamente e che i tribunali le includano nei messaggi che fanno parte di qualsiasi prova presentata. Tuttavia non sempre c’è uniformità, soprattutto tra i giudici più anziani, che spesso decidono di non ammettere i simboli come indizi o prove giudiziali. Eric Goldman, professore di legge alla Santa Clara University, ha monitorato tutti i processi in cui sono apparse le emoji come prove e ha evidenziato un incremento esponenziale nella loro ammissibilità in sede processuale. Le emoji hanno fatto capolino in 33 processi negli Stati Uniti nel 2017, in 53 nel 2018 e in quasi il doppio lo scorso anno. La maggior parte delle udienze riguarda casi di abusi sessuali, stalking, furti e minacce.
Emblematico il caso di Idris Bilal Jamerson, accusato di traffico di prostituzione sulla base di un messaggio recante la scritta «Il lavoro di squadra consente di raggiungere ogni sogno» accompagnato dalle emoji di una scarpa col tacco a spillo, un sacchetto di denaro e una corona. Quando si è trovata a giudicare il caso, la Corte ha chiesto un parere a un esperto in traffico di prostitute, il quale ha spiegato ai giudici che i simboli utilizzati dall’imputato erano tipici codici usati da sfruttatori e prostitute, confermando l’impianto accusatorio.
Anche le Corti europee, infine, stanno iniziando a usare le emoji come elementi probatori nei processi. Di recente, in Francia un 22enne è stato condannato per aver inviato un’icona raffigurante una pistola alla sua compagna minorenne. Secondo i giudici l’immagine dell’arma costituiva la prova di una minaccia reale. Sintomo che il sistema penale si sta adattando alle nuove tecnologie e al lessico digitale, malgrado dubbi e criticità.