Mentre il paese sudamericano è allo stremo, poche famiglie privilegiate hanno nascosto somme enormi nei paradisi fiscali: soldi usciti per il 70 per cento dalle casse statali. Ecco il nuovo capitolo dell'inchiesta internazionale dell'Espresso con il consorzio Icij

Li chiamano «boligarchi», gli oligarchi del Venezuela. Sono l'élite del Paese, poche famiglie titolari di aziende private che da anni ottengono ricchissimi contratti pubblici dal governo di Caracas, prima con Hugo Chavez, poi con l'attuale presidente Nicolas Maduro.

Sono definiti così, con questo soprannome, per ironizzare sui continui richiami dei due capi di Stato a Simon Bolivar, il «libertador», l'artefice dell’indipendenza del Venezuela e altre nazioni sudamericane. Oggi a Caracas la popolazione è allo stremo. In Venezuela scarseggiano cibo, medicine, elettricità, servizi essenziali: l'economia è al collasso, l'inflazione è fuori controllo, un terzo degli abitanti soffre la fame, cinque milioni di cittadini hanno già abbandonato il Paese. Ma chi sta in alto, come i boligarchi, mantiene i suoi privilegi e diventa sempre più ricco. Tanto da nascondere tesori colossali nei paradisi fiscali. Lo dimostrano i dati ora svelati dall'inchiesta Fincen Files: al 2009 al 2017, dal Venezuela sono usciti più di 4 miliardi e 800 milioni di dollari, portati all'estero con «operazioni bancarie sospette». Più di due terzi di questa fuga di capitali, per l'esattezza il 70 cento, riguarda fondi pubblici: soldi usciti da conti controllati dal ministero delle Finanze o dalla società petrolifera statale.

Queste cifre emergono dall’analisi dei documenti bancari ottenuti da BuzzFeed News e condivisi con l'International Consortium of Investigative Journalists (Icij) e, in esclusiva per l'Italia, con l’Espresso. Fincen è l'acronimo dell'agenzia anti-riciclaggio (Financial crimes enforcement network) del dipartimento del Tesoro statunitense. Le banche internazionali sono tenute va segnalare al Fincen tutte i bonifici che potrebbero nascondere casi di riciclaggio di denaro sporco. Per 16 mesi più di 400 giornalisti, appartenenti a 110 testate di 88 nazioni, hanno potuto esaminare «operazioni sospette» per più di duemila miliardi di dollari. E nelle carte delle banche sono comparsi anche i «boligarchi», gli imprenditori di regime, che continuano da anni a ottenere grossi appalti governativi, mentre il Venezuela sprofonda nel disastro economico e sociale.

L'inchiesta del consorzio Icij racconta, in particolare, la storia segreta di Alejandro Jimenez Ceballos, il più famoso dei «boligarchi». Un magnate dell’edilizia, leader di un gruppo, Inversiones Alfamaq, fondato nel 1978 da sua madre, Maura Betty Jimenez, che in Venezuela è diventato una specie di asso pigliatutto: costruzione di scuole, impianti di depurazione delle acque, maxi-progetti di case popolari e decine di altri appalti, compresa la discussa ristrutturazione del palazzo dello sport, il Poliedro de Caracas. Ceballos non nasconde gli agganci aziendali con il governo federale e con le regioni (equiparate a stati). Anzi, se ne vanta, come ha fatto in un'intervista nel 2016: «Non c'è uno stato del Venezuela dove Alfamaq non abbia lavorato».

Ora i Fincen Files mostrano che il gruppo di Ceballos ha trasferito centinaia di milioni di dollari all'estero, in gran segreto, attraverso società offshore intestate a fiduciari e prestanome. Tesori occultati nei paradisi fiscali, che vengono utilizzati anche per finanziare spese personali del boligarca e di suoi familiari.

Già anni fa l'opposizione, che controllava il parlamento venezuelano poi esautorato, aveva accusato il gruppo privato di corruzione, denunciando contratti privilegiati per mezzo miliardo di dollari con un'industria statale di alluminio e oro, oltre a vendite sospette di terreni pubblici in una zona turistica definita «Acapulco Venezuela». Ceballos ha replicato parlando di «accuse senza fondamento», mosse da «sordidi interessi». E le denunce dell'opposizione non hanno avuto seguito.

Ora i Fincen Files riaprono il caso Ceballos. Anche un'impresa italiana si è trovata invischiata, suo malgrado, nelle segnalazioni anti-riciclaggio che riguardano la famiglia venezuelana. Si tratta della Energy Coal di Genova, che si occupa di trading di carbone e petcoke, un sottoprodotto della lavorazione del petrolio. La vicenda si apre nel apre 2011, quando l'allora presidente Chavez annuncia un sogno, un piano per la costruzione di ben 2 milioni di case per i lavoratori e per le famiglie povere, chiamato “Gran mision vivienda”, lanciando uno slogan: «Il problema edilizio non può essere risolto dall’interno del sistema capitalistico. Stiamo per risolverlo con il socialismo. E con più socialismo». È proprio l'italiana Energy Coal ad aggiudicarsi il primo contratto da 126 milioni di dollari per la realizzazione di un lotto di 1.540 appartamenti a basso costo nella zona di San Francisco de Yare, una città cara a Chavez, conosciuta per il festival religioso dei “Diablos danzantes”: fedeli travestiti da demoni che ballano per le strade.

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Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. E una successiva indagine dello stesso governo contesta i lavori, accusando l'azienda italiana di «non avere la capacità tecnica né l'esperienza» per realizzare un progetto del genere. L'Espresso ha contattato Energy Coal, per conto di tutto il consorzio Icij, per avere un chiarimento. Ricorda Paolo Ascheri, amministratore delegato della società genovese: «In quel periodo l’ente petrolifero statale venezuelano, Pdsva, si era trovato ad avere in eccesso gigantesche quantità di petcoke, che si stavano accumulando nei piazzali della raffineria senza essere smaltiti per tempo, a causa dei ritardi nelle operazioni di carico di quel materiale sulle navi. Con proteste dei clienti internazionali. Abbiamo allora proposto di venire incontro alle esigenze di Pdvsa, da una parte intervenendo per sistemare le sue esigenze di carico di coke, dall'altra chiedendo noi di incamerare quelle montagne di materiale ed essere pagati praticamente con una forma di baratto, senza che l'ente petrolifero statale sborsasse un dollaro, in un momento di scarsissima liquidità per Caracas. Un'intesa vantaggiosa per tutti. Poi, il 28 maggio 2014, quell’accordo, che prevedeva anche il completamento della “Mision vivienda”, è stato cancellato, senza alcuna spiegazione. La Pdsva ha girato il contratto a un'altra società, la Sarleaf, e noi siamo usciti di scena».

In quei mesi esce di scena anche il presidente del Venezuela: Chavez muore nel marzo 2013, gli succede Nicolas Maduro. Ma negli affari pubblici cambia poco e niente. Come dimostra proprio il caso della Sarleaf Limited. I giornalisti sudamericani e i reporter di Icij hanno individuato alcuni professionisti svizzeri che hanno agito come fiduciari-prestanome, per occultare i veri titolari di quella società: la famiglia Ceballos. A documentarlo è una segnalazione anti-riciclaggio trasmessa al Fincen dal Banco Espirito Santo: l'istituto portoghese spiega chiaramente che quella offshore è stata creata «per ragioni di sicurezza», per «proteggere la famiglia Ceballos». Solo la banca di Lisbona, tra aprile 2013 e gennaio 2014, ha accreditato alla Sarleaf 146 milioni di dollari per conto della compagnia petrolifera statale. Fondi pubblici inseriti in un programma di lotta alla povertà denominato «Missione Che Guevara».

Come scrive sempre la banca Espirito Santo, la Sarleaf Limited ha poi distribuito decine di milioni di dollari a società personali e conti bancari appartenenti ai Ceballos. Come maggiore beneficiario viene indicato Alejandro Andres Ceballos, figlio di Alejandro senior: 22 milioni finiti in un conto costituito per gestire «risparmi, investimenti e spese personali», più altri 22 girati a una società di Panama, che dichiara di fornire «servizi di import-export di prodotti per l’industria delle costruzioni». Il consorzio Icij ha offerto anche a Ceballos junior di replicare e commentare queste notizie, ma non ha ricevuto alcuna risposta. Il Banco Espirito Santo ha invece spiegato che alcuni di questi bonifici apparivano «in linea con gli obiettivi aziendali» (ad esempio, 24 milioni di dollari versati a Inversiones Alfamaq), mentre ha riconfermato i dubbi su almeno 6 milioni inviati dallo stesso istituto sui conti personali di membri della famiglia.

Per i Ceballos, in totale, la banca intitolata allo Spirito Santo ha trasferito all'estero almeno 100 milioni di dollari. Mentre «la filiale di Miami, già sanzionata dal governo americano per aver aperto conti segreti per il dittatore cileno Augusto Pinochet», come sottolinea il consorzio, «ha trattato transazioni legate alla Sarleaf per oltre 262 milioni di dollari». Non a caso proprio quella banca, una delle maggiori del Portogallo, nel 2014 è stata salvata dallo Stato, costretto a intervenire per evitarne il fallimento, dopo un’indagine per riciclaggio.

Alejandro Ceballos ha espresso al consorzio la sua «considerazione per i giornalisti, il loro coraggio, valore e senso dell’etica, purché il loro lavoro abbia rispetto per la verità». Ma per ora non ha risposto a nessuna domanda. Per lui la vita continua alla grande, tra la villa di Caracas e un appartamento con otto camere da letto a Miami, come hanno scoperto i giornalisti del consorzio: una casa di lusso in Florida, vicino a un ippodromo dove i suoi cavalli da corsa gareggiano ogni settimana con premi da decine di migliaia di dollari.

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