Oligarchi che pagano i migliori amici dello zar Vladimir. Manager del presidente americano che investono soldi rubati da un banchiere kazako. Imprenditori turchi di regime che ripuliscono miliardi per Teheran. L'inchiesta globale di 400 giornalisti svela i segreti del riciclaggio per i potenti  

illustrazione di Valentina Vinci
In Italia il suo caso, sette anni fa, scatenò un’ondata d’indignazione: la moglie di «un dissidente», Alma Shalabayeva, espulsa a forza dall’Italia, caricata in aereo con la sua bambina e consegnata al regime del Kazakhstan per colpire il marito, l’ex banchiere Mukhtar Ablyazov, «perseguitato politico» da una dittatura corrotta. Parlamentari, avvocati, giornalisti, opinionisti hanno attaccato per giorni la polizia italiana, l’allora ministro Angelino Alfano, l’Eni che fa affari in Kazakhstan, l’intero governo di Enrico Letta, riuscendo a far tornare la signora in Italia. Un clamore mai visto per le masse di immigrati poverissimi, in fuga da guerre, terrorismo, fame e carestie, che vengono espulsi a migliaia dall’Italia, dove i politici più scaltri vincono le elezioni promettendo espulsioni.

Venti giorni fa il signor Ablyazov e sua figlia Madina si sono visti recapitare una lista di domande dal consorzio internazionale Icij, a nome dell’Espresso e di oltre 400 giornalisti di 88 paesi, impegnati in questa inchiesta collettiva sulle centrali mondiali del riciclaggio di denaro sporco. Il testo si apre con queste parole: «La nostra indagine si basa sulle “segnalazioni di operazioni sospette” inviate dalle banche al Tesoro americano. Abbiamo scoperto che dal 2008 al 2016 centinaia di società offshore controllate da lei, Mukhtar Ablyazov, e da suoi familiari, hanno spostato più di 666 milioni di dollari. In passato lei ha respinto l’accusa di aver defraudato una delle maggiori banche del Kazakhstan, Bta, e di aver nascosto i soldi all’estero usando società di comodo. Come spiega il fatto che le banche americane riportano di aver movimentato milioni di dollari per queste offshore possedute da lei e da suoi familiari?». Dall’ex banchiere «perseguitato», per ora, nessuna risposta.
L'ex banchiere kazako Mukhtar Ablyazov

Il caso Ablyazov è uno dei tanti capitoli della nuova inchiesta del Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (Icij), famoso per i Panama Papers, che ha organizzato l’analisi informatica di una montagna di documenti riservati del Tesoro americano, ottenuti dai cronisti di BuzzFeed News. Nome in codice: Fincen files. Sono le denunce raccolte dalle autorità statunitensi chiamate a scoprire casi di riciclaggio, occultamento e reinvestimento di enormi masse di denaro sporco, accumulate in tutto il mondo con traffici di droga e armi, reati di mafia, corruzioni, evasioni fiscali, frodi finanziarie, saccheggio di fondi pubblici e altri crimini. Sono carte scottanti, perché a evidenziare i bonifici sospetti sono le stesse banche che muovono i soldi dei clienti. In sedici mesi di lavoro, i giornalisti di 110 testate di tutti i continenti, tra cui L’Espresso per l’Italia, hanno potuto analizzare trasferimenti sospetti per cifre colossali: oltre duemila miliardi di dollari. Fiumi di denaro riversati in società di comodo, senza uffici né dipendenti, con sede in una casella postale di un paradiso fiscale. Tesori di azionisti anonimi. Prestanome di paesi poveri che per pochi dollari firmano carte per centinaia di offshore, che coprono dittatori, politici, banchieri, evasori, mafiosi e delinquenti di ogni risma.

Inchiesta
Fincen Files, ecco i boss mondiali del riciclaggio: denaro sporco per duemila miliardi
20/9/2020
I Fincen Files non sono documenti rubati o sottratti da pirati informatici: BuzzFeed News li ha avuti da diverse fonti istituzionali (mai nominate), impressionate dalla gravità dei casi di riciclaggio e indignate per la scarsità di indagini, l’impunità di tanti ricchi malfattori e i profitti delle banche che li aiutano. Le tesorerie offshore avvantaggiano i potenti, ma a pagare il conto dei reati economici sono i comuni cittadini. L’inchiesta del consorzio riguarda centinaia di casi drammatici. Società minerarie ucraine depredate da cricche di politici, mentre i minatori morivano a decine, sepolti da crolli causati da attrezzature fatiscenti. Nazioni africane, asiatiche e sudamericane saccheggiate da governanti che da anni accumulano miliardi all’estero. Droghe chimiche come il Fentanyl, più potenti dell’eroina, che fanno strage di giovani negli Usa e in altri Paesi, mentre narcotrafficanti e spacciatori spostano soldi nei paradisi fiscali con un clic sul telefonino.

Una parte delle segnalazioni anti-riciclaggio (in gergo Sar, Suspicious activity report) sono state trasmesse dall’agenzia statale Fincen alla commissione parlamentare che ha indagato sul Russiagate, lo scandalo delle interferenze russe nelle elezioni americane vinte da Donald Trump. Questo spiega la presenza di tutto il cerchio magico di Vladimir Putin: i miliardari che dominano Mosca. Ma altri documenti arrivano da indagini giudiziarie o fascicoli amministrativi. Il sistema offshore è globale: coinvolge tutti i paesi del mondo. E così, passando da un affare scottante all’altro, dai Sar alle carte di Panama, emergono i segreti di centinaia di potenti: dal Venezuela ai Caraibi, dalla Turchia alla Siria, dalla Gran Bretagna a Israele, dall’Africa ai Paesi Arabi. E si arriva anche ai fedelissimi di Trump. C’è l’immancabile imprenditore repubblicano Paul Manafort, stratega della trionfale campagna elettorale del 2016, già condannato per frode fiscale (soldi in nero dall’ex presidente filo-russo dell’Ucraina) e ora al centro di nuovi accrediti milionari, mai emersi prima, incassati quando era già indagato. Il generale Michael Flynn, ex Consigliere per la sicurezza nazionale, spinto alle dimissioni dal Russiagate. E altri uomini del presidente. Che usano le stesse tecniche e in qualche caso le stesse centrali di riciclaggio dei miliardari dell’ex Urss.

Anche nel caso Ablyazov, una cospicua parte dei fondi neri attribuiti all’ex banchiere kazako risulta gestita da un uomo d’affari legato da decenni al presidente americano. Un manager sconosciuto ai più, che ha amministrato grandissimi affari immobiliari per l’imprenditore poi asceso alla Casa Bianca. Un fiduciario che ha trattato anche il famoso progetto della Trump Tower di Mosca, durante la campagna del 2016, poi saltato tra mille polemiche: la storia completa, con tutti i particolari, verrà raccontata nelle prossime ore dai cronisti di Buzzfeed News che hanno trovato i documenti.

Oggi, in Kazakhstan, Ablyazov rischia vent’anni di galera, ma risulta condannato anche a Londra, nel 2012, proprio per aver nascosto le sue proprietà milionarie: alla vigilia del verdetto inglese, è fuggito in Francia, dove nel 2016, dopo tre anni di cella, ha ottenuto lo status di rifugiato. In Italia non risulta che siano mai state aperte indagini sulle sue tesorerie offshore, anche se almeno 100 mila dollari sono approdati all’Unicredit di Milano. In compenso un magistrato di Perugia, su denuncia della signora Shalabayeva, ha incriminato tutti i funzionari che hanno gestito la sua espulsione, giudicata illegale. Sotto processo penale, con l’accusa di «sequestro di persona», c’è pure il dirigente della polizia Renato Cortese, passato alla storia dell’antimafia per l’arresto di Bernardo Provenzano, il «reggente» di Cosa Nostra, dopo 40 anni di latitanza.

Al centro dell’inchiesta Fincen Files c’è il ruolo delle grandi banche internazionali. Alle domande del consorzio, tutte rispondono di aver sempre rispettato la legge: anzi, sono proprio i loro organi di controllo a far emergere i casi di riciclaggio. Le segnalazioni, inoltre, non sono sentenze o avvisi di reato: evidenziano affari da chiarire, che molte società regolari possono comprovare con fatture e contratti. I documenti del Tesoro però illuminano anche il lato oscuro del sistema finanziario. Il problema riguarda soprattutto le offshore: società esotiche che non pagano le tasse e permettono agli azionisti di restare anonimi.

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I files mostrano che in moltissimi casi le grandi banche indicano i versamenti più anomali, ma non li fermano. O si svegliano con anni di ritardo, quando scoppia uno scandalo e i tesori sono ormai spariti. Alcuni istituti aiutano clienti già inquisiti nonostante avvisi e diffide delle autorità. La scoperta più grave è che le grandi banche internazionali continuano a maneggiare denaro a rischio perfino dopo aver subito multe per centinaia di milioni, o per miliardi. Il gigante Hsbc, nel 2012, ha ammesso di aver riciclato «almeno 881 milioni di dollari» per i cartelli della droga sudamericani. E ha patteggiato una maxi-multa da 1,9 miliardi, impegnandosi a cambiare vita, con cinque anni di vigilanza del ministero della giustizia americano. Che nel 2017 ha riabilitato l’istituto. L’inchiesta del consorzio mostra però che Hsbc ha continuato anche in quel quinquennio a smistare fondi per anonime società offshore, riconducibili a riciclatori russi, truffatori americani ed evasori europei. Interpellato dal consorzio, il gruppo bancario ha parlato di accuse «datate e superate», rivendicando le contromisure anti-riciclaggio approvate dall’amministrazione Trump.

Le cifre complessive dei Fincen Files sono impressionanti: solo Deutsche Bank ha gestito operazioni sospette per circa 1.300 miliardi di dollari. La banca tedesca è al primo posto per numero di segnalazioni, che riguardano soprattutto il passato: il decennio d’oro della finanza offshore, quando il colosso era guidato dallo svizzero Josef Ackermann, licenziato nel 2012 dopo svariati scandali. A seguire, nella classifica dei Fincen files, compaiono Jp Morgan Chase (514 miliardi), Standard Chartered (166 miliardi), Bank of New York Mellon (64 miliardi) e decine di altri istituti con cifre minori. Anche queste quattro super-banche hanno subito, in passato, pesanti sanzioni per gravi e ripetuti casi di riciclaggio. Nei Sar spuntano anche conti bancari italiani, ma per singole operazioni inferiori a centomila euro, che riguardano soprattutto orafi di Arezzo, imprese petrolifere liguri e aziende lombarde di materiali ferrosi.

Tra i casi più colossali spicca lo scandalo di Danske Bank, la prima banca danese, sotto accusa per un maxi-riciclaggio da oltre 200 miliardi di euro: un fiume di denaro incanalato dalle filiali in Estonia e Lituania, che avevano soprattutto clienti russi. L’Espresso ha fornito al consorzio una serie di documenti che spiegano gli addebiti di corruzione ora rivolti ai banchieri, dopo che uno di loro si è ucciso in circostanze misteriose. Negli interrogatori, i magistrati estoni chiedono agli altri funzionari di giustificare acquisti di gioielli costosi, auto di lusso, versamenti in contanti da mezzo milione di euro al colpo. Da dove arrivano i soldi? Riposta: «Non ricordo».

Gli estratti conto, per giunta, mostrano che l’affaire di Danske Bank è intrecciato con altri disastri finanziari. Come i fallimenti delle banche moldave, che i giornalisti di Occrp (il network di cui faceva parte il giornalista Jan Kuciak, ucciso con la fidanzata nel 2018 in Slovacchia) hanno per primi connesso alle offshore create da banchieri, politici e affaristi russi.
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Le sedi baltiche del colosso danese, negli anni delle tangenti e commissioni d’oro, funzionavano anche come motore della cosiddetta «lavatrice azera» (Azerbaijani Laundromat): cinque società offshore che hanno smistato 3,5 miliardi di euro in tre anni. Metà del tesoro, distribuito a una costellazione di anonimi beneficiari, è uscito dalle casse di una banca statale dell’Azerbaijan, Iba, che nel maggio 2017 ha dovuto dichiarare fallimento. Mentre milioni di dollari, euro e rubli arricchivano ministri azeri, loro familiari e dirigenti della Socar, l’azienda statale del petrolio e del gas, destinato anche all’Italia con il nuovo super-gasdotto Tanap-Tap.

Le stesse offshore sono state utilizzate dal regime azero per versare più di 25 milioni di euro a lobbisti americani e politici europei, tra cui l’ex europarlamentare ciellino Luca Volontè, che ha intascato 2 milioni e 390 mila euro per consulenze a suo dire lecite: ora però è sotto processo a Milano per corruzione. Le nuove carte svelano molti altri giri di denaro, finora segreti, decisamente più pericolosi: le offshore della «lavatrice azera» hanno incassato oltre 150 milioni di dollari da produttori israeliani e fornitori russi di armi da guerra.
Reza Zarrab

Un altro intrigo di portata mondiale ha un nome in codice: gold for gas. Un miliardario turco-azero di origine iraniana, Reza Zarrab, ha aiutato per anni l’Iran ad aggirare le sanzioni internazionali decise per fermare le sue velleità atomiche. Un sistema fondato su un doppio contrabbando: l’Iran vende gas in cambio di oro e preziosi, con triangolazioni per miliardi manovrate da Zarrab. Prima dello scandalo, in Turchia lui era una celebrità, con fortissimi agganci nel governo e nella famiglia presidenziale. «Gold for gas» esplode a sorpresa nel dicembre 2013: il re Mida di Istanbul viene arrestato. E quattro ministri si dimettono. I giornali d’opposizione rivelano che la procura turca ha intercettato anche telefonate compromettenti di Erdogan in persona. Il presidente islamista grida al complotto, parla di «intercettazioni false», di «golpe giudiziario» ordito dal suo ex alleato Fetullah Gülen. A quel punto gli inquirenti diventano inquisiti: centinaia di procuratori, giudici e poliziotti finiscono in carcere. L’inchiesta si ferma. E Zarrab torna libero già nel febbraio 2014. Nel 2016, però, viene riarrestato negli Stati Uniti. Dove pochi mesi dopo confessa non solo di aver orchestrato davvero lo scandalo dell’oro all’Iran, ma anche corrotto diversi funzionari e quattro ministri turchi. E ammette di aver aiutato Teheran a incamerare, in totale, 13 miliardi di dollari.
Il presidente turco Tayyip Erdogan

Dopo l’elezione di Trump, il vento cambia anche negli Usa. Rudolph Giuliani, l’avvocato del presidente, difende anche Zarrab. E il Washington Post rivela che l’ex procuratore ha chiesto all’allora segretario di Stato, Rex Tillerson, di fare pressioni per chiudere l’istruttoria sul mega-riciclatore. Ma l’inchiesta continua. E nel 2019 coinvolge anche la banca turca Halkbank. Nel suo libro, l’ex ministro repubblicano John Bolton scrive che Erdogan sarebbe intervenuto personalmente su Trump, in difesa della banca. E il presidente americano gli avrebbe promesso di interessarsi, avvertendolo però che il caso, purtroppo, era seguito da procuratori legati a Obama.
Il generale Michael Flynn

Le carte di BuzzFeed News scoperchiano molti altri retroscena di questo intrigo. Come i soldi incassati da Flynn e dall’avvocato Michael Cohen, il legale di Trump che pagava le pornostar, ora in rotta col presidente: milioni di dollari per fare lobby a favore del governo turco. Ma è lo stesso Zarrab che sembra ancora custodire segreti inconfessabili. I giornalisti di Occrp hanno identificato una serie di offshore che hanno incassato centinaia di milioni mai dichiarati nei suoi interrogatori. E con la stessa rete di «gold for gas» avrebbero ripulito soldi anche società russe: un’accusa che Zarrab aveva smentito. E che potrebbe aprire un nuovo capitolo del Russiagate.
Michael Cohen, ex avvocato di Trump

I giornalisti del consorzio hanno contattato tutti gli interessati, dal governo turco alle banche, dalle società russe agli uomini di Trump, che negano qualsiasi ipotesi di reato. Secondo i Fincen Files, però, al caso Zarrab sarebbero legate altre operazioni finora sconosciute: tesori offshore ancora misteriosi. Americani che coprono scandali iraniani, russi che usano le stesse riciclerie dei turchi: benvenuti a Launderland, il magico mondo del riciclaggio, dove il denaro è la misura di tutte le cose.