
«Lavorare in carcere è come iniziare una partita a Monopoli: ti siedi al tavolo conoscendo le regole (quelle scritte) e impari lentamente anche quelle non scritte. I giocatori sono tanti: alcuni giocano per loro esplicita decisione (gli operatori civili, la polizia) altri vi sono costretti (i detenuti). Ognuno gioca per vincere. Per i detenuti significa paradossalmente uscire dal gioco (leggi: uscire dal carcere; leggi: libertà)».
Era il 2 febbraio del 2007 quando Michelangelo Poccobelli, dirigente sanitario della Casa circondariale di Milano Opera, pubblicava quest’intervento sul sito della Società italiana di medicina penitenziaria. In quegli anni l’organizzazione dell’assistenza sanitaria ai detenuti era affidata all’amministrazione penitenziaria. I controlli erano pochi. L’accesso alle visite e ai farmaci spesso non veniva garantito. Chi era in carcere, fra i detenuti comuni o in alta sicurezza (esclusi quelli al 41 bis), viveva in condizioni pietose. I dottori lamentavano un sistema inefficace. Quando nel 2008 è arrivata la riforma della medicina penitenziaria, le regole del gioco sono cambiate: la salute dei detenuti è stata affidata al Servizio sanitario nazionale. In molti parlavano di una rivoluzione. Ma dopo dieci anni le criticità rimangono: i controlli sono pochi, l’accesso alle visite e ai farmaci spesso non viene garantito, chi è in carcere vive in condizioni pietose, i dottori lamentano un sistema inefficace.
Elisabetta Dalmonte lavora da cinque anni nel carcere di Forlì. È vicedirigente e medico di guardia. «Mi occupo di organizzare i turni e coordinare le visite», racconta. Ammette che lavorare in un istituto penitenziario non è facile. Bisogna avere un’attitudine particolare. «Mi sono appassionata per caso a questo lavoro. Mi ero iscritta al concorso mentre seguivo un master in geriatria e, quando sono stata selezionata, ho deciso di accettare». Non esistono corsi di specializzazione o formazione che preparino i neolaureati a diventare medici penitenziari. Si impara sul campo. Elisabetta ama il suo lavoro, ma sa benissimo che le difficoltà non sono poche. Oggi, con la diffusione del nuovo coronavirus e con delle strutture sempre più fatiscenti, le carceri sono bombe a orologeria.

«Quando è stato stilato il disegno di legge nel 2008 ero seduto a quel tavolo. Rivendico il principio che era alla base dell’intervento», spiega Stefano Anastasia, portavoce dei garanti regionali. L’obiettivo della riforma era garantire il diritto alla salute anche nelle carceri, non luoghi in cui il singolo tende ad annullarsi. Gli istituti penitenziari non dovevano più essere contenitori di sofferenze fisiche e psichiche, «fabbriche di malattia», come le chiama il sociologo Giuseppe Mosconi. Da quel momento in avanti l’assistenza sanitaria sarebbe stata una prerogativa del Servizio sanitario nazionale e non delle singole amministrazioni penitenziarie. Il percorso, però, è ancora lungo. «La situazione è diversificata da regione a regione e da istituto a istituto. Ognuno è gestito da un’azienda sanitaria locale differente», precisa Sandro Libianchi, medico a Rebibbia e responsabile dell’associazione “Conosci” (Coordinamento nazionale degli operatori per la salute nelle carceri Italiane). I problemi sono di diversa natura.
Mancano dottori e infermieri, in primo luogo. Nel 2019 erano 1000 i medici penitenziari presenti in Italia. Troppo pochi per poter garantire un’assistenza sanitaria adeguata tanto agli oltre 65mila detenuti dell’epoca quanto agli attuali 55mila. A Casal del Marmo (Roma) il medico di base è disponibile sei ore al giorno, gli infermieri 12. I detenuti sono 88. «Tutte queste figure dovrebbero essere presenti 24 ore al giorno», evidenzia Franco Corleone, ex garante toscano. Quando stava per scadere il suo mandato, ha deciso di intraprendere un digiuno dimostrativo per denunciare le promesse non mantenute da parte delle amministrazioni penitenziarie. «Mancano assunzioni, questa è la realtà», precisa.

Non solo. «Molte volte mancano gli strumenti per poter effettuare gli esami», aggiunge la dottoressa Elisabetta Dalmonte. Da poco nell’istituto di Forlì hanno potuto comprare un ecografo. Prima dovevano arrangiarsi. «Così lavorare non è facile». Il rischio è quello di dover richiedere spostamenti verso strutture, ospedali o cliniche, dove possono essere garantiti gli esami. I tempi di attesa sono lunghi. Il Nucleo traduzioni, che si occupa del trasferimento dei detenuti, non è sufficientemente attrezzato: anche in questo caso manca personale. Ci sono regioni in cui l’attesa è più breve. Altre in cui i tempi si dilatano. In Campania, nel carcere di Poggioreale prima di effettuare una tac possono trascorrere anche sei mesi. Quattro per una gastroscopia all’istituto di Arienzo. Garantire in tutte le Asl delle vie preferenziali per prenotare gli esami specialistici potrebbe essere una soluzione efficace.
«È importante tenere a mente che, a dispetto del tipo di assistenza sanitaria, il pubblico deve garantire le cure basilari. In questi contesti non è possibile accedere al privato. O ci si cura tramite le Asl o non ci si cura», chiarisce il portavoce dei garanti, Stefano Anastasia. Proprio per questo motivo, oltre che per le condizioni logistiche, il sistema sanitario carcerario continua a essere messo a dura prova dall’epidemia di Covid-19. Secondo gli ultimi dati disponibili, risultano contagiati quasi 1000 detenuti e circa 700 agenti. Dalla seconda metà di dicembre i numeri stanno gradatamente diminuendo. Manca una strategia comune. Isolare i positivi in aree dedicate è stata l’unica soluzione adottata per evitare la diffusione del virus. Ma gli spazi non sono sufficienti; nonostante gli arresti domiciliari concessi a marzo e con il decreto ristori, le strutture sono sovraffollate.

Dal primo lockdown i detenuti non hanno mai smesso di avere paura. Si stima che il 70 percento sia affetto da una malattia cronica. La possibilità di accedere facilmente ai medicinali è, quindi, indispensabile. Nel 2015 c’è stato un accordo tra le regioni in cui veniva stabilito che i farmaci di fascia C fossero forniti gratuitamente in tutti gli istituti penitenziari. «L’obiettivo era integrare la legge del 2008 e uniformare il sistema», ricorda Sandro Libianchi, responsabile dell’associazione “Conosci”. Le disposizioni prese sono state attuate soltanto in parte. Gli esposti sulla mancata fornitura di medicinali arrivano da tutti i territori.
«Controllare non è così facile», evidenzia Libianchi. Sembra che qualsiasi tipo di denuncia rimanga inascoltata. Anche quelle 119 che i detenuti hanno presentato formalmente l’anno scorso. Secondo Stefano Anastasia per poter preservare davvero il diritto alla salute servono risorse «umane e economiche». Dal 2008 i finanziamenti destinati alla gestione dell’assistenza sanitaria nelle carceri si aggirano intorno ai 160 milioni. Guardando le condizioni in cui versano le strutture, a parte alcuni casi virtuosi, è lecito chiedersi dove finiscano i soldi investiti. Più di 3 istituti su 10 non garantiscono l’accesso all’acqua calda e i riscaldamenti nel 7 per cento dei casi non funzionano. I dati sono forniti dall’ultimo report redatto dall’associazione Antigone, che nel 2018 ha visitato 85 case circondariali e di reclusione (su 189). In 46 strutture l’accesso alle docce è garantito soltanto in spazi esterni alle celle. «I locali - scrivono gli osservatori - sono spesso ammuffiti e insalubri». Rimane radicata nella cultura dominante, «l’idea che la detenzione debba consistere nell’afflizione di una sofferenza (fisica e psicologica)».
Nell’ultimo anno la situazione non è cambiata, anzi. I volontari dell’associazione Antigone stanno concludendo le visite negli istituti penitenziari prima di redigere il consueto rapporto annuale, che verrà pubblicato nel 2021. «Non c’è stato nessun miglioramento. Il deterioramento è andato avanti», racconta Hassan Bassi di Antigone. Prima di Natale ha ispezionato il carcere di Frosinone. «Molte docce non funzionano, la struttura sembra abbandonata. Sono rimasto sconvolto», aggiunge. Una cella era completamente allagata e lì dentro, seduto sul suo materasso, c’era un uomo con i piedi immersi nell’acqua. «Faceva freddo, il riscaldamento non funzionava. Aveva uno sguardo spaventato», ricorda Hassan.
Quell’uomo era lì, in isolamento, ma non sapeva il perché. «Era un ragazzo di colore, penso di origini nordafricane. Non parlava l’italiano e non era riuscito a capire il motivo per cui era stato arrestato». Capita spesso: negli istituti penitenziari mancano i mediatori culturali. Sono figure considerate accessorie. «Come è possibile tutto questo?», si chiede Hassan. Nel carcere di Frosinone si sta in cella praticamente tutto il giorno. «Il campo da calcio deve essere ristrutturato da due anni, la serra è inagibile da tempo e, visto che nel 2017 c’è stata un’evasione, sono state sospese tutte le attività esterne. Poi adesso con il Covid, sono stati interrotti anche i corsi professionali e i laboratori».
Sono queste condizioni di vita, oltre alla pena in sé, ad avere un effetto psicologico devastante. «Il disagio psichico è uno dei problemi maggiori», sottolinea Franco Corleone. I casi di autolesionismo sono molto frequenti. Nel 2016 ne sono stati registrati quasi 9mila. Con il Covid è possibile ipotizzare che siano in aumento. «A Frosinone nel corso dell’ultimo anno ci sono stati otto tentati suicidi e 178 casi di autolesionismo», specifica Hassan Bassi. In tutta Italia, però, nelle strutture scarseggiano psicologi e psichiatri. Si ricorre spesso alla somministrazione di psicofarmaci, medicalizzando disturbi che potrebbero essere risolti in modo diverso. Secondo la dottoressa Elisabetta Dalmonte i medici nelle carceri devono imparare a essere anche un po’ psicologi. Bisogna fare due, tre, quattro lavori in uno. Lo spiega bene Franco Corleone: «Fare parti uguali tra diseguali non è l’obiettivo. Una persona in carcere deve avere di più, perché non ha la libertà: il suo corpo è nelle mani dello Stato». O meglio: dovrebbe avere di più.