Le aperture di credito al presidente Usa e la distanza dai democratici americani tornano indietro al premier che, con Joe Biden alla Casa Bianca, non ha più amici negli States. Mentre il Pd ha interagito con Pentagono e Dipartimento di Stato

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Giuseppe Conte ha accompagnato Donald Trump all’uscita di una Casa Bianca rovente senza segnare mai un distacco. Neppure formale. La voce più timida d’Europa era la sua. Si è fatta quasi afona dopo la sconfitta elettorale di novembre. Le conseguenze politiche non sono subito visibili. Si celano, indistinte, nel perimetro della diplomazia e sfuggono al controllo mediatico del portavoce Rocco Casalino. Nei retroscena giornalistici non si avvertono. A un tratto, però, accade qualcosa. E ci si affanna a cercare i motivi che hanno spinto Matteo Renzi, da solo ma non solo per sé, a ribaltare la maggioranza giallorossa con tale insistenza: i sondaggi, il tre per cento, il futuro precario, il consenso logoro, più poltrone a Italia Viva. Le cose si tengono assieme. E poi c’è la convinzione di Renzi e della politica italiana che guarda oltre i palazzi romani: “Giuseppi” non ha più amici negli Stati Uniti con Joe Biden alla Casa Bianca. Presto o tardi se ne accorgerà.

Il callido Conte può rinnegare finanche Conte, non lo stimato “Giuseppi”. Quella goffa, surreale e però non casuale, investitura di Trump fra il Conte 1 e il Conte 2 nei giorni folli di agosto 2019. La figlia Ivanka, la prediletta, ha osato sfoggiare un’autonomia tardiva da papà Donald. “Giuseppi” no, non se lo può permettere.

Il lutto di Trump per la vittoria di Joe Biden ha prostrato pure Palazzo Chigi. Con una copertura, più o meno esplicita, dei democratici americani, cioè la struttura statale da sempre devota alla sinistra liberale, l’ex premier Renzi, ancora agganciato alla rete dem di Obama e di Biden, è partito all’assalto dell’unico reduce europeo della stagione di Trump: Giuseppe detto “Giuseppi” Conte. Lo dicono i fatti. Lo dicono i 17 mesi del governo Conte 2.

IL PERICOLOSO SALTO IN ALTO
Il 20 agosto 2019, un pomeriggio di calura estiva a Palazzo Madama, il premier Conte si diede tutto il coraggio che gli era mancato e impartì una severa lezione a Matteo Salvini, poi salì al Quirinale per le dimissioni e si rintanò in campagna per dissimulare le sue ambizioni.

Il 15 agosto nella sede dei servizi segreti di piazza Dante a Roma si tenne un incontro fra il generale Gennaro Vecchione e l’americano William Pelham Barr. Vecchione è il capo del dipartimento che coordina le attività di intelligence (Dis), appena confermato per un altro biennio; Barr era il ministro della Giustizia - che si chiama procuratore generale - degli Stati Uniti e ha rinunciato alla carica un mese fa dopo le sfuriate di Trump. Barr trascorse un ferragosto romano in missione per condurre un’inchiesta – finita nel nulla – per riscrivere il Russiagate: non più una strategia di Mosca per danneggiare Hillary Clinton a beneficio di Trump, ma un complotto per incastrare Donald ordito da agenti americani in combutta con gli italiani.

L’amministrazione di Trump, tre mesi prima, chiese agli alleati di collaborare tramite l’ambasciata italiana a Washington. Ci fu una lunga riflessione. Barr capitò a Roma con l’esecutivo gialloverde agonizzante. Il 24 agosto fu inaugurato il G7 di Biarritz in Francia, all’apparenza il congedo internazionale di Conte mentre a Roma si formava l’unione di convenienza di 5s e Pd. Come ha raccontato già l’Espresso, Conte uscì dal bozzolo a Biarritz con una doppia manovra politica, interna per riaffermare sé stesso come candidato dei Cinque Stelle, esterna per riportare l’Italia nella tradizione diplomatica dopo le sbandate verso la Cina e contro l’Europa, e si fece ancora presidente del Consiglio in assenza di alternative. La cartolina di Biarritz, con le onde spumose dell’Atlantico, sono i pollici all’insù di Conte e Trump. Il 27 agosto Donald si schierò su Twitter per il secondo mandato di “Giuseppi”. Il 28 dagli Stati Uniti svelarono che a Biarritz fu proprio Conte a sostenere, nonostante lo sdegno di Germania e Gran Bretagna, la proposta di Trump di reintegrare al G7 la Russia di Vladimir Putin e tornare al formato G8. Il 5 settembre, per la seconda volta, Conte giurò al Colle, non più da avvocato del popolo, mediatore fra Matteo Salvini e Luigi Di Maio, ma da interlocutore privilegiato di Trump. Una roba diversa, si è compreso, dagli Stati Uniti.

In un momento imprecisato di settembre, Conte autorizzò un altro vertice fra il ministro Barr con delegazione al seguito e il generale Vecchione. E poi il medesimo Vecchione, il 27 dello stesso mese, convocò i direttori delle agenzie degli 007 – Mario Parente (Aisi) e Luciano Carta (Aise) – che di certo non apprezzarono l’anomala procedura. Più semplice: Conte mise a disposizione degli inviati di Trump l’intelligence italiana - non ci fu un normale dialogo fra ministeri, a pari livello – per cercare complotti maturati durante i governi di Barack Obama e Matteo Renzi. Conte ha tribolato un paio di settimane, ha stretto a sé la delega sull’intelligence e si è battuto per Vecchione. Barr non ha raccolto niente e ha deluso Trump. Renzi non ha dimenticato. Chissà Obama. Chissà il suo vice di allora: Joe Biden.

NON FU SOLO UN GIRO DI BARR
Con una rapida abiura del passato, Conte versione due è riuscito a farsi perdonare le relazioni troppo strette con la Cina per la firma all’accordo per la nuova Via della seta e le esitazioni troppo rischiose per lo sviluppo della rete G5 con Huawei. Pur di scongiurare derive russe e soprattutto cinesi, gli americani non trumpiani accolsero “Giuseppi” nel rispetto di un apologo sulle decisioni dolorose e però razionali: “Il lupo che incappa nella tagliola si morde la zampa fino a staccarsela per poter scappare prima che arrivino i cani. Ci rimette la zampa, ma almeno salva la pelle”.

L’ambasciatore Pietro Benassi, il responsabile dell’ufficio diplomatico di Palazzo Chigi, è diventato il referente principale di Robert Charles O’Brien, il repubblicano consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, sui temi geopolitici e sul 5G. Lewis Eisenberg, l’ambasciatore americano a Roma, assai attento alle questioni cinesi, dopo qualche incomprensione con Benassi, ha impiegato più tempo a credere alle buone intenzioni del governo Conte su Huawei. I funzionari dell’ambasciata americana a Roma hanno riscoperto l’antica armonia con il governo italiano dopo il ritorno al potere del Pd e non con il contributo del premier. Però Conte, con la sceneggiatura di Benassi, nei consessi internazionali si è seduto al fianco di Trump e l’ha assecondato in ogni scelta, soprattutto militare. Il ritiro delle truppe dall’Afghanistan: si adotta la linea della Casa Bianca. Spese Nato e bandiere di Trump in Europa: tocca a Conte. Gli americani uccidono il generale iraniano Qasem Soleimani all’aeroporto di Bagdad: Angela Merkel riporta il contingente iracheno in Germania, l’Italia giammai.

Dopo la morte di Soleimani, il primo contatto di Roma con Washington fu una telefonata fra Lorenzo Guerini, il ministro della Difesa, e il suo collega americano Mark Esper: pettinare la diplomazia dopo il passaggio del governo gialloverde ha richiesto molta pazienza. La vicenda di Armando Varricchio, ambasciatore italiano negli Usa dall’epoca Renzi, è esemplare. Nel gennaio 2019 ospitò una festa in onore della democratica Nancy Pelosi, nemica giurata di Trump, e i leghisti ne invocarono l’immediata rimozione. Ne è sopravvissuto. Poi ha duettato con Benassi e curato il rapporto fra “Giuseppi” e Donald e si può arguire, con un pizzico di malizia, che nei suoi resoconti sia stato l’opposto di Kim Darrock, l’ambasciatore inglese che ricoprì Trump di insulti e fu ritirato da Londra.

Con astuzia, Conte si è intestato i meriti suoi e degli altri. Ha conquistato la fiducia di Trump e la sfiducia dei democratici di Biden. Conte ha corteggiato la Casa Bianca, il Pd ha interagito con gli apparati americani come il Pentagono e il dipartimento di Stato. Il guaio è che ora Trump non serve più. Non comanda più. E gli altri, i nuovi, hanno una robusta memoria.