Lunedìi alla Camera, martedì a Palazzo Madama. Il premier può ottenere la fiducia, anche dopo lo strappo di Iv, ma non allarga i confini della maggioranza. E rischia il Vietnam politico
La prospettiva, per nulla allettante, è il
Vietnam. E' questo, dopo notti di furibonde ricerche di nuovi voti per allargare la maggioranza azzoppata dall'uscita di Italia viva di Renzi, l'esito più probabile della due giorni in Parlamento che si apre oggi per il governo. Un Vietnam politico, e anzitutto numerico.
Allo stato dell'arte infatti il presidente del Consiglio, che ha parlato lunedì alla Camera e martedì al Senato chiedendo il voto di fiducia, nonostante le telefonate diramate in ogni direzione e dal più giovane del suo staff, non sembra essere riuscito a trovare i voti sufficienti ad ampliare la sua base parlamentare: a Palazzo Madama, metro cruciale della stabilità di governo, i sì dati per certi sono 151, con le aggiunge dell'ultim'ora si varia tra i 154 e i 158 (per la Camera si parla di 320 voti, poco sopra la maggioranza assoluta che è di 315). Una maggioranza insomma c'è, ma è ben sotto l'asticella dei 161, è risicata. Basti paragonare Conte con se stesso: il 5 giugno 2018 il suo primo governo ottenne al Senato 171 voti favorevoli (350 alla Camera), il 10 settembre 2019 il secondo ne ebbe 169 (343 alla Camera).
Questi margini numerici così scarsi – che naturalmente il premier conta di migliorare, e ci mancherebbe - hanno una immediata ricaduta politica: altrettanto risicati saranno infatti i margini dell'azione di governo, sempre che sopravviva a questo passaggio. Non è un caso che Conte, dopo aver volato nel firmamento del populismo quando disegnò il governo giallo-verde e se stesso come Avvocato del Popolo, e dopo aver carambolato sulle altezze del «nuovo umanesimo» al momento di passare a guidare il governo Giallorosa, adesso è atteso al varco di parole non esattamente esaltanti, come ad esempio l'elogio del sistema proporzionale, e appelli altrettanto motivanti, come quelli a ex M5S, ex Iv, liberali, cattolici, centristi, Mastella in genere. Un perimetro risicato della maggioranza, il giorno per giorno a trattare sulle virgole, sui commi, sulle poltrone, è infatti esattamente ciò che sinora Conte non ha dovuto patire, né affrontare. E in fondo, tutti i provvedimenti principali che abbiamo visto passare in questi ormai quasi tre anni di legislatura, dai decreti Salvini sull'immigrazione fino al taglio dei parlamentari passando per il reddito di cittadinanza, sono figli anzitutto dell'agio numerico su cui potevano contare i rispettivi governi, che in tanto hanno potuto agire in quanto non dovevano fare i conti con i veti dei piccoli partiti.
Proprio ieri, in una delle sue ennesime comparsate televisive, proprio Matteo Renzi, il protagonista dello strappo, ci ha fatto ricordare quanto possa essere complicata quella attività. Lui, da premier, governava con l'Ncd di Angelino Alfano, ma non solo. A un certo punto per stabilizzarsi ebbe bisogno di Denis Verdini, il quale gli creò un gruppo parlamentare apposito: Ala.
Quell'Ala, ha ricordato Renzi intervistato su La7, non gli era però necessaria per raggiungere la maggioranza, era diciamo un elemento di contorno, di stabilizzazione: fu essenziale solo in un caso, quando si trattò di votare le unioni civili, dopo che i Cinque stelle s'erano clamorosamente sfilati.
Ecco, il solo ricordo che Renzi, per l'unica legge di sinistra del suo governo, abbia avuto bisogno dei voti di Denis Verdini, basta forse a chiarire quanto complicato sia il panorama di guerriglia che si stende davanti al premier dei due mondi, che ha governato con due maggioranze opposte ma forse sin qui non ha ancora visto niente.