Si è vestito da lupo, da nonna, è tornato per un'ora a fare il Cappuccetto rosso del Popolo, come agli esordi («Posso dirlo, questo?»). Ma adesso, dopo lo strappo di Matteo Renzi, abbiamo tra le favole persino quella del Giuseppi cattivo, in cerca nel bosco dei transfughi che ormai pure i grillini chiamano "responsabili"
Solo negli ultimi, incomprensibili, diciotto giorni ha provato a vestirsi da lupo, poi da nonna, poi da lupo, poi è tornato il Cappuccetto rosso del Popolo, quello che esordì in politica domandando ai suoi vicepremier «questo posso dirlo?»: sembrando all’ennesimo cambio d’abito, più che un capo di governo, la bambola di pezza con cui si giocava una volta, quella che, a seconda del verso con la quale la si prendesse, capovolgendo la gonna e girando il cappello, diventava un personaggio diverso della favola di Charles Perrault. Il volto come un Giano bifronte: di qua Cappuccetto, di là lupo. Quanto durerà, Giuseppe Conte, anche con questo travestimento? Impossibile a dirsi. Basti pensare che in una delle più moderne versioni della favola, nella versione in versi dello scrittore inglese Roald Dahl, persino la mite Cappuccetto rosso a un certo punto tira fuori la pistola dalle mutande, spara al lupo e se ne fa una pelliccia, per cui chissà.
Poco ci aveva sin qui risparmiato, questa folle legislatura: e in quel poco, tra le poche certezze, insieme con l’insostituito ministro Danilo Toninelli - ultima esibizione, i 42 «non ricordo» al processo che vede a Catania imputato Matteo Salvini - c’era il poter considerare Giuseppe Conte come un vanesio marziano, capacissimo al trasformismo, ma tentennante, cavilloso e prudente, incapace alle spregiudicate manovre di autentica cattiveria, se non altro per avvocatesca furbizia.
Ecco, anche questa certezza la si è vista cadere, in questi giorni impazziti dove nulla è rimasto come era, intoccato.
Giorni in cui una gran parte delle trattative è stata gestita non da una sede di partito ma dal miniappartamento da trentacinque metri quadrati di Goffredo Bettini, specie di segretario ombra per i dem, ma adesso anche tutor di Palazzo Chigi nella selva oscura della politica. Crisi in cui i principali partiti non hanno saputo tessere una strategia coerente, mentre uno dei principali bersagli di Matteo Renzi, sollevatore del caos, è stato incredibilmente, ancor più che il premier, il suo portavoce: Rocco Casalino, primo indiziato, in quanto ex concorrente del Grande Fratello, dell’accusa renziana di aver trasformato «la democrazia in un reality show» (il leader di Iv lo ha peraltro anche bloccato su Whatsapp, si è saputo). Una crisi in cui il partito più pesante del Parlamento, i Cinque Stelle, è rimasto per giorni incapace di una posizione significativa, diviso tra un superfluo reggente (Vito Crimi) e un ex capo silente (Luigi Di Maio). E in cui persino i voltagabbana, i transfughi, coloro insomma sempre dipinti come il male assoluto dal vasto mondo che gira intorno ai grillini, sono per un attimo diventati seriamente dei «responsabili», personalità cui affidare la stabilità del governo scosso dagli strali renziani. (Del resto «responsabilità», in un terremoto in cui tutto significa niente, è il principio cardine invocato proprio da Renzi nella conferenza stampa in cui finalmente dimetteva la delegazione di governo di Italia viva, le ministre Teresa Bellanova ed Elena Bonetti, e il sottosegretario Ivan Scalfarotto).
Quindi figuriamoci, tra tante favole s’è intravisto in questi giorni persino un Giuseppe Conte cattivo. Pronto a seguire con decisione le indicazioni, provenienti a sera dalle telefonate come quella dello scorso lunedì del direttore del Fatto Marco Travaglio, sommo consigliere, che spronavano verso una nuova maggioranza da costruire in Parlamento, raccogliendo i dispersi nell’arco politico tra gli ex grillini e gli azzurri (a seguire i messaggini notturni di Casalino a Crimi e al Guardasigilli Alfonso Bonafede). E si sono visti risorgere, tra Camera e Senato, tutti i singoli eletti dispersi dal day by day di una attività politica ormai trasfigurata dal Covid-19: un unico brivido di vita ha percorso le Sandra Lonardo e gli Osvaldo Napoli, le Donatella Conzatti e le Paola Binetti, i Bruno Tabacci e i Gaetano Quagliariello. Persino Domenico Scilipoti ha avuto improvvisamente moltissime cose da dire, e molti microfoni per farlo sapere a tutti.
Nel frattempo Conte, versione lupetto, ha ricominciato a girare per strada: lunedì solo per prendersi un caffè e farsi intervistare dal Tg3, martedì per prendere aria e camminare lungo via del Corso, quella dello shopping. Strategia precisa - non si sa se efficace, stavolta. Aveva fatto così soltanto a fine agosto 2019, ai tempi delle consultazioni dopo la fine del governo giallo-verde e la rovinosa caduta del leader leghista, quando era uscito da Palazzo Chigi e aveva attraversato piazza Colonna per andare a comprare un cellulare per il figlio al negozio Tim (a seguire, per dire la spensieratezza dell’epoca: polemiche per l’indiretta forma di pubblicità). Allora, in quei giorni, Conte aveva appena riscattato la sua immagine di premier-controfigura dei suoi vice, infilzando al Senato Matteo Salvini che fino a quel momento l’aveva pressoché comandato a bacchetta. Con quel discorso in aula, al quale non era seguito un voto, sembrava essersi vestito, di botto, da specie di eroe nazionale agli occhi del popolo del centrosinistra; prima di diventarlo per davvero, per un certo periodo, nella stagione della prima ondata della pandemia.
La stessa immagine ha provato a lucidare Conte in questi giorni, facendo il gran capo che gira senza cappotto, con la giacca aperta nonostante il freddo, che si ferma a parlare con tutti, che si presta a fotografie e sorrisi di consolazione. Colui che sta dalla parte della gente che permette di comprare «la bistecca o gli occhiali» grazie al reddito di cittadinanza. L’avvocato del popolo, insomma: un ruolo rivendicato anche nella conferenza stampa di fine anno, celebrata a villa Madama come ai tempi del regno politico di Silvio Berlusconi (anche il capo di Forza Italia è peraltro assai attivo di questi tempi). Un incontro coi giornalisti nel quale, per la prima volta, il premier si è seduto al tavolo di poker con il leader di Italia viva Matteo Renzi dicendosi pronto a un passaggio «chiaro e franco in Parlamento» (ma non necessariamente comprendendo la conta finale dei voti). Ecco quel 30 dicembre Giuseppe Conte si è detto ancora a suo agio in questa definizione, e l’ha confermata: «Avvocato del popolo significava non fare il proprio interesse, non rispondere a lobby e gruppi di pressione o di potere. Sarò immodesto, ma questo l’ho sempre perseguito, e fino all’ultimo minuto sarà così», si è spinto a dire.
Una assicurazione di coerenza interna, insomma: peccato che proprio in quella occasione, il presidente del Consiglio abbia detto, parlando di sé in terza persona, che «il sottoscritto non è in cerca di altre maggioranze», e non è neanche disponibile a «vivacchiare». Prospettiva che tuttavia, in questi giorni, lo stesso bi-premier, capo leggendario di due maggioranze opposte e consecutive, è sembrato più che disponibile a superare, mostrandosi pronto, a tratti, alla sfida finale in Parlamento, ma anche alla creazione di un partito in proprio, e infine anche a frenare bruscamente la corsa verso la rottura dopo il deciso intervento del Quirinale di Sergio Mattarella, per interrompere l’avvitamento verso la crisi.
Insomma avvocato sì, ma di quale popolo? L’azione di Matteo Renzi, del resto, ha mostrato alla luce del sole la principale contraddizione in cui si muovono i partiti della maggioranza. Sia il Partito democratico che il Movimento Cinque Stelle, infatti, proprio dietro la figura di Conte si sono nascosti, sin dai tempi della formazione del governo giallo-rosa, per lasciare sostanzialmente irrisolti i nodi circa le rispettive future leadership. Per quel che riguarda il Pd, il segretario Nicola Zingaretti, dopo aver molto nicchiato sulla sua figura, è arrivato in più occasioni a sperticarsi per la capacità di leadership di Conte, giungendo persino a immaginarlo come un possibile federatore di un nuovo centrosinistra, modello Romano Prodi. Ancora più complicata è la stessa partita, per la leadership, vista dalla parte del Movimento Cinque Stelle. Un partito che sembra incagliato nel suo sistema interno, soprattutto dopo gli Stati generali e la crisi della vitale relazione con Davide Casaleggio: al netto delle procedure da seguire e della burocrazia delle nomine, infatti, a essere venuta in luce è la incolmabile distanza tra il premier indicato dal partito, Conte, e il suo principale esponente, Di Maio. Proprio il ministro degli Esteri è stato in questi giorni il più spettacolare di tutti, per capacità di silenzioso slalom.
Unito a Conte ormai solo dal sentimento dell’avversione, reciproca, si è intestato un paio di mosse davvero notevoli per quota di ironia. Lo scorso weekend, mentre il premier guardava con timore alle riunioni serali di Italia Viva, Di Maio è partito per una missione in Giordania, dove ha incontrato il primo ministro Al Khasawneh e mezzo governo, e in Arabia Saudita. Lunedì, mentre Conte tentava la mossa per strada, Di Maio ha pubblicato su Facebook le foto dell’incontro con il principe saudita Mohammed bin Salman, spiegando in sostanza che era meglio lavorare sulla cooperazione internazionale che «discutere o fare polemica». Martedì sera, poco prima del sospirato consiglio dei ministri di approvazione del Recovery plan, con astensione delle ministre Bellanova e Bonetti, ha avuto modo di diffondere la sua soddisfazione: «Per il secondo anno consecutivo, dopo circa 14 anni di stop, ci sarà il gran premio di F1 a Imola. Un ottimo risultato, che permetterà all’Italia di avere un’importante vetrina internazionale».
Anche questo, insomma un altro pazzo micro-meccanismo contenuto dentro il folle carillon di questa crisi - dei partiti e della politica oltreché del governo - nella quale si è cominciato con un avvocato del popolo travestito da lupo, ma chissà che non si sia già finiti dritti dritti dentro una favola terrificante degna di un film di David Lynch.