
E invece adesso, in questa crisi senza capo né coda, emblema di una legislatura senza capo né coda, Luigi Di Maio da Pomigliano D’Arco, 34 anni, ministro degli Esteri, già vicepremier e titolare del Lavoro e dello Sviluppo economico, rappresenta un punto fermo, l’“uomo che non c’era” dell’intera crisi, la pietra nera capace di assorbire su di sé tutte le chiacchiere (renziane e non solo) sul futuro di Palazzo Chigi.
La quintessenza insomma dell’ambizioso caos: principale antagonista interno ai grillini di Giuseppe Conte pur proclamandosi fino all’ultimo «tra le persone più vicine al presidente del Consiglio», capace di far maturare la svolta delle dimissioni col solo avvinghiarsi ad Alfonso Bonafede, capo di fatto dei Cinque Stelle pur avendo delegato ormai da un anno intero gli affari correnti e le scocciature a uno che non potrà mai sopravanzarlo come l’eterno reggente Vito Crimi, Di Maio appare infatti oggi come uno dei pochi abbastanza scaltri da scansarsi dal crollo generale - grillino in specie - e ancora in condizioni di giocarsi un futuro, in un orizzonte politico pullulante di personaggi feriti in maniera abbastanza fatale dal furibondo andamento delle cose.
Negoziatore strenuo, incassatore strenuo, non somigliando più in quasi niente a ciò che era all’inizio, salvo la vaga arietta democristiana e compunta che nel lontano 2013 gli valse la nomination nel reality grillino per il ruolo di vicepresidente della Camera, infatti, con la tempestosa crisi aperta dal leader Iv Matteo Renzi ma apparecchiata da fazioni interne ai due principali partiti della maggioranza giallorosa, Di Maio ha appena compiuto la complessa svolta che l’ha impegnato nell’ultimo anno e mezzo: quella di darsi lo slancio per un nuovo upgrade e per la generale sua sopravvivenza. L’età di Casini l’avrà del resto tra trent’anni.
Dovesse parere ingenerosa la descrizione prospettica, basti a questo proposito ricordare come stava messo Di Maio ai tempi dell’ultima crisi di governo. Agosto 2019, lui protagonista del governo giallo-verde insieme con Matteo Salvini e quindi appena caduto appresso a lui in disgrazia, si trovò a guidare le trattative per conto dei Cinque Stelle, ma obtorto collo e giocando fuori casa. Si trattava infatti di allearsi con l’ex partito di Bibbiano, superando il famoso «mai col Pd». Di Maio prima tentò con la manovra diversiva del dettare le condizioni, vale a dire i dieci punti, rapidamente saliti a venti e pronti a diventare trenta (c’era nel frattempo Salvini che lo lusingava con profferte di nuovi governi da fare insieme): ma fu prontamente stroncato da Beppe Grillo, che gli chiarì come fosse venuta l’ora di prestarsi a dire sì. Persa quella battaglia, ne aprì un’altra per essere riconfermato per lo meno vicepremier, ma fallì anche con quella, grazie alla triangolazione esterna di Dario Franceschini, che fece per primo il passo indietro sulla questione dei “vice”. Avviato il governo giallorosa, Di Maio ha dunque dedicato la stagione intera a riposizionarsi.
Sul fronte internazionale anzitutto: dopo aver toccato quello che forse è il minimo storico della sua credibilità incontrando a febbraio 2019, i gilet gialli di Christophe Chalençon a Montargis, cento chilometri a sud di Parigi, previa gita in automobile con Alessandro Di Battista (felice e incredulo, l’islamofobo e xenofobo Chalençon spiegò essere «onorato, perché qui in Francia il governo non ci vuole ricevere e invece uno come Di Maio, che è vicepremier, è venuto fin qui per conoscerci»), una settimana fa il ministro degli Esteri - mentre il premier arrancava su entrambi i fronti - è arrivato ad assicurare «l’amicizia con gli Stati Uniti» e nello stesso tempo a esprimere parole di condanna per l’arresto dell’oppositore di Putin Alexei Navalny, scampato all’avvelenamento con Novichok e appena rientrato in Russia dopo cinque mesi in Germania. Una rivoluzione, praticamente.

Sul fronte della politica interna, invece, è stato protagonista di una spettacolare gestione della fase di progressivo scivolamento verso il basso del potere di Conte. Sparito senza mai sparire del tutto; assente in presenza; parlante pur quasi tacendo (ha imparato infatti la lezione del dire senza dire); mai disallineato, Di Maio ha raggiunto l’apoteosi in quel weekend di inizio gennaio in cui invece di occuparsi della crisi in procinto di esplodere, volò per il suo viaggio da capo della Farnesina, missione in Giordania e in Arabia Saudita, per farsi fotografare tra cene, cuscini, memorandum, principi, sorrisi.

Un politico responsabile, una forza tranquilla. Capace di allearsi «con quelli che in altri tempi consideravate i cadaveri ambulanti della prima Repubblica» come gli ha fatto notare Lucia Annunziata. Di più: capace di rivendicarlo. «Mi fa sorridere perché negli ultimi otto anni M5S è sempre stata raccontata come la forza irresponsabile, che attentava alla stabilità dell’Italia. Adesso siamo diventati il baricentro della stabilità dell’Italia, mentre gli altri staccano la spina e fanno azioni irresponsabili»,è la linea Di Maio.
In effetti c’era un tempo in cui i grillini erano corsari antisistema. Quando ad esempio nel marzo 2013 la neoeletta alla Camera Gessica Rostellato, trentenne di Cartura (Padova) si vantò su Facebook di non aver voluto stringere la mano a Rosy Bindi («ma ti pare che ti do la mano e ti dico pure “piacere”??? No guarda, forse non hai capito: NON È UN PIACERE!!!» ebbe a scrivere). Oppure quando nel maggio 2014 Riccardo Fraccaro, futuro ministro dei Rapporti col Parlamento, poi sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ebbe a spolverarsi vistosamente la manica della giacca davanti alle telecamere di Coffeebreak perché, nel gesticolare, il leader di Possibile Pippo Civati gli aveva toccato il gomito destro. O quando, era sempre il 2014, il futuro presidente della Camera Roberto Fico, proprio davanti a Montecitorio spiegò che alcuni grillini erano stati espulsi perché avevano avuto comportamenti poco chiari, uno su tutti: «Andavano segretamente a cena con Civati». Ancora lui, il diavolo praticamente. Era l’epoca in cui Paola Taverna pubblicava fiera su Facebook un post in versi per spiegare che loro non si sarebbero alleati con nessuno: «Guardate che ste cose le dicevamo pure prima/ quanno facevate finta che fosse na manfrina./ Non esistono partiti coi quali fare apparentamenti. Credevate fossimo finti, coi nostri intendimenti / (…) E noi nun semo avvezzi a fa i vortagabbana, c’avemo messo er core... pe voi è na cosa strana».
Strano a dirsi, i grillini hanno poi trasformato lo schifare ugualmente centrodestra e centrosinistra, Pdl e Pd-meno-elle, con il potersi alleare ugualmente con Lega, Pd e se centristi, magari Forza Italia. E Di Maio di tutto ciò è il nocchiero: «Sono io quello che disse, per la prima volta: se non avremo la maggioranza assoluta come Movimento Cinque Stelle lavoreremo ad accordi con altre forze politiche, per un contratto di governo», ha rivendicato l’altro giorno. Altro che pulirsi la giacca: adesso una custode dell’ortodossia come Roberta Lombardi rivendica essere stata vicina di banco di Bruno Tabacci (altro vate centrista di questa crisi, ancora sul versante opposto rispetto a quello di Casini come negli ultimi quarant’anni).
Ed è ancora Di Maio a sottolineare di aver portato vari responsabili presso la rete contiana di Palazzo Chigi. Tutto vale, adesso: tutto è onorevole. Una volta abolita, a parole, la povertà, i grillini hanno perso la propria identità di battaglia, tanto che nessuno ormai ricorda bene cosa significhino neanche le famose cinque stelle. E in cambio hanno ottenuto di plasmare l’intero Parlamento a propria immagine e somiglianza: tutto infatti ormai è caos, persino la costruzione di un gruppo di responsabili pronti a sostenere il governo in carica è diventata una impresa improba. E chi sapeva farlo fatica, ora, a tessere una vera e propria strategia. Il paradosso è, così, aver fatto risorgere, per i propri limiti, arnesi e profili che l’avvento dei Cinque Stelle voleva relegare nel passato.
Con lo stesso passo, Luigi Di Maio: capace di portare il M5S nella terra della contrattazione e capace di sopravvivere grazie alla sua capacità di incassare qualsiasi colpo, continua ad avere problemi di standing politico-culturale per quel salto che, pure, ad altri - in primis lo stesso Giuseppe Conte - è riuscito a far fare. Più che un vero e proprio leader è un capo: cioè qualcuno che, meglio di altre figure del movimento, è tutt’ora in grado di interpretare i bisogni di un gruppo politico tenuto insieme dalla necessità di sopravvivere. È la sua stessa necessità, la fame di non essere nato tra gli agi, ma di aver conquistato l’ingresso a Palazzo Chigi. E di averlo ancora intatto nei sogni.