I leader di oggi non ascoltano i consigli di chi dissente e preferiscono il pensiero unico. Perciò sono destinati a vita breve

Non vorrei travisare Giorgetti, né recargli danno. Ma mi ha colpito quel riflesso condizionato di alcuni suoi censori che hanno pensato bene di paragonarlo al sottoscritto, o a Casini, o a Fini, o ad Alfano, secondo l’ordine cronologico delle rispettive prese di distanza da una certa idea di governo. Un brusco richiamo all’ordine che a tutti i costi pretende di fargli vestire panni non suoi e magari di destinarlo prima o poi a un fedifrago allontanamento dalla sua casa madre.

E invece si dovrebbe riconoscere, e perfino apprezzare, proprio il fatto di non essere tutti uguali, e di seguire ognuno di noi un percorso che può essere ovviamente più o meno condiviso ma che non andrebbe mai omologato. Tantomeno bollandolo con il marchio del sospetto e/o dell’equivoco.

Ognuno di noi, a suo tempo, ha cercato di realizzare un disegno. Uno diverso dall’altro. Giorgetti a sua volta esprime una convinzione che non ha affatto tutta questa somiglianza con i nomi evocati prima (peraltro non proprio fatti con lo stampino, come si sa). E se a volte a qualcuno è capitato di indossare i panni della coscienza critica, ognuno lo ha fatto a modo suo, secondo convinzioni e circostanze che non si possono assimilare come fossero prodotti identici appena usciti dalla stessa catena di montaggio.

Esiste nella vita, e tanto più nella vita pubblica, una cosa chiamata dialettica. E cioè un pensare con la propria testa, se del caso contraddicendo l’andazzo seguito dai propri compagni e anche, e tanto più, dai propri condottieri. La cosa può dare fastidio e può non essere condivisa, è ovvio. Ma catalogare ogni pensiero difforme alla voce tradimento, o congiura, o manovra da basso impero, è solo un modo per zittire ogni confronto, richiamando bruscamente all’ordine chi ha solo deciso di correre il rischio di cantare fuori dal coro.

Ora, dal punto di vista leghista può aver ragione Giorgetti che non ha apprezzato i candidati sindaci, tifa oltremodo per Draghi e si tiene a distanza dallo spirito del “salvinismo” assai più di lotta che di governo. Oppure al contrario può aver ragione il fu-Capitano che magari si aspetta un briciolo di solidarietà in più in un momento non facile del suo percorso politico. Questione di punti di vista, ovviamente. Tutti leciti e tutti discutibili. Senza bisogno però né di deformarli né di demonizzarli.

Il punto è che il caso Giorgetti non parla solo di baruffe leghiste. Parla di tutti i partiti dei giorni nostri. Ci ricorda che essi sono diventati luoghi dell’allineamento e non della discussione. E che se qualcuno ne viola i codici è assai facile che ne venga messo alla porta, o almeno messo alla berlina. Tutte cose che a Giorgetti non succederanno. Ma che suonano come monito a chi volesse mai impugnare la bandiera del dissenso in luoghi nei quali, a differenza che nel passato, viene pretesa ubbidienza.

I vecchi leader di una volta non erano meno votati al potere. Ma esercitavano il comando con un certo discernimento, distinguendo tra un’obiezione e l’altra e all’occorrenza facendosi forti perfino delle avversità che incontravano. Così, la dialettica nei partiti finiva per ampliare lo spettro del loro elettorato, e le diverse opinioni concorrevano a rendere meno banale il confronto che vi si svolgeva. Non era magnanimità in purezza. Era un modo di intendere la politica capace di farsi forte anche delle difficoltà che incontrava. E se questo mondo è durato cinquant’anni e più, è segno che qualche merito doveva pur averlo.

Oggi vige piuttosto il richiamo al pensiero unico. Tanti pensieri unici per quanto sono i partiti, ridotti all’ossequio del capo e alla denigrazione del dissenso. Ma è proprio questo moto di insofferenza verso il proprio vicino che infine condanna le forze politiche a una vita grama e i loro condottieri a una vita breve.

Detto questo, vorrei rassicurare. Giorgetti non ha predecessori. A lui auguro semmai di avere qualche successore.