Risorge il bipolarismo, affonda il populismo, almeno provvisoriamente, perché un elettore su due che non va a votare lascia senza risposta la domanda di rappresentanza che è il dato più importante di questa giornata elettorale di voto amministrativo del 3-4 ottobre.
In quella metà del campo che non va a votare c’è la grande sconfitta del Movimento 5 Stelle, più bruciante della perdita delle città che ha guidato per cinque anni, Roma e Torino, dove cinque anni fa trionfarono Virginia Raggi e Chiara Appendino. Erano partiti per dare voce politica agli esclusi e dare una prospettiva di governo a quel pezzo di società che non si fidava più di nessuno, era questo il progetto cominciato esattamente dodici anni fa, il 4 ottobre 2009, la festa di San Francesco, la data che fu scelta da Beppe Grillo e da Gianroberto Casaleggio per fondare il Movimento
Seguendo il profilo delle mappe delle 7 Rome, disegnate dai ricercatori Keti Lelo, Salvatore Monni e Federico Tomassi e pubblicate da Donzelli, sono andati a votare i pezzi di città in cui si concentrano i migliori livelli di istruzione e le abitazioni di maggiore superficie media, mentre sono rimasti lontano dalle urne i quartieri del disagio, in cui la pandemia ha fatto più vittime, provocate da altri disturbi e malattie, come l’obesità, in cui la disoccupazione è elevata, la densità abitativa è elevata, le reti criminali egemonizzano l’economia locale, “una trappola da cui non si riesce a scappare”.
Il populismo che non è riuscito a farsi governo lascia un vuoto di rappresentanza che la destra non riesce a colmare. Deludono i candidati civici, gli uomini senza colore che il centrodestra ha scelto per nascondere le divisioni. Tra un partito entusiasta di stare al governo, Forza Italia, uno spezzato a metà, la Lega, e un altro che è fuori dal governo, Fratelli d’Italia. I civici sono stati spazzati via a Milano, mai così male, e a Napoli, vanno peggio del previsto a Torino, tengono a Roma. Sullo sconosciuto Enrico Michetti si concentrano ora tutte le attese della destra in vista del ballottaggio contro Roberto Gualtieri.
Il grande sconfitto è Matteo Salvini, fuori dal Paese reale che si è sempre vantato di comprendere. Il Paese reale non ha capito la sua battaglia contro il green pass, non insegue più il vento xenofobo e le crociate contro gli sbarchi, la pandemia ha cambiato l’agenda, non sono i carabinieri ad avere spuntato gli artigli della Bestia, ma la realtà, che fa molto più male. Giorgia Meloni si aggrappa a Roma per nascondere un risultato al fondo modesto. Tra i tre il più soddisfatto è Silvio Berlusconi. In Calabra porta a casa l’unica vittoria netta. E si conferma che ha ragione lui: Salvini e Meloni non vanno da nessuna parte.
C'è una agenda cambiata. Servizi pubblici, qualità della vita. Che un pezzo di società vive come speranza e un’altra come un incubo, infatti non va alle urne.
Nella metà campo che va a votare tiene il Partito democratico vola a Milano, il 34 per cento, domina a Bologna, con il 35,6, si avvicina al trenta per cento anche a Torino.
Enrico Letta, il nuovo deputato di Siena, disegna il profilo del bipolarismo prossimo venturo. Un bipolarismo asimmetrico, imperfetto. Perché sul centrodestra pesa il fattore S, sovranista o come Salvini, in disarmo ma abbastanza forte da condizionare le mosse dell’intera coalizione. Nonostante i sondaggi nazionali diano ancora in testa la somma aritmetica di partiti che non fanno un soggetto politico.
Mentre nel centrosinistra, almeno fino al ballottaggio, avanza una strana unità attorno al segretario Letta e su modelli come quello vincente a Milano con Beppe Sala che non è più il manager di cinque anni fa ma un politico che parla la lingua del popolo e a Bologna attorno al super votato Matteo Lepore che dice senza mezzi termini: ora le elezioni politiche si possono vincere. A Napoli il Pd torna al Comune dopo dieci anni, con Manfredi e l’alleanza con M5S. Avvolto da una costellazione astrale per la prima volta favorevole. La destra divisa. Il Pd unito. Il Movimento 5 Stelle quasi irrilevante. Aggiungiamo: un partito in buona salute nelle grandi città del Nord. In un quadro internazionale favorevole. I socialdemocratici tedeschi in testa al voto in Germania. E in più, c’è qualcosa di prepolitico. Vanno fuori gioco i leader che urlano, i fighetti, i bulli, di destra, di sinistra, di centro. È il momento dei grigi che non fanno sognare, come Biden negli USA o Scholz in Germania, ma che rassicurano l’elettorato. E che non si presentano come uomini soli al comando, ma dentro una squadra consolidata. L’opposto della leadership testosteronica degli ultimi anni che tanto è andata tanto di moda. Lo specchiarsi di leader quasi sempre maschi, sempre pronti a specchiarsi in tweet, social, dirette Facebook.
Un vento a vantaggio. Nelle prime ore dopo la vittoria il mite Letta prova a resistere alla tentazione di approfittare del risultato e pensare a elezioni anticipate. Ma non può trattenersi dalla soddisfazione di dichiarare archiviata la questione della leadership del centrosinistra che verrà. Il federatore, il futuro leader c’è, è lui. Un saluto a Conte, l’ex punto di riferimento dei progressisti di tutto il mondo, come era stato definito dai predecessori di Letta al Nazareno. E dei vari spintonatori dentro e fuori il Pd. Una posizione con cui il segretario proverà a giocarsi nei prossimi mesi la partita del Quirinale e a diventare il partito di riferimento del governo Draghi. La disunità del centrodestra riapre i giochi, almeno fino al ballottaggio di Roma. Poi verrà il momento di occuparsi anche degli elettori che non sono andati a votare, di chi dalla trappola della vita non riesce a scappare. Un tempo ci pensava la sinistra.