François Jullien: «Non facciamoci impressionare dai totalitarismi: sono più deboli di quello che sembrano»

Il nazionalismo gode oggi di fortuna. Ma un sistema basato sulla paura non promuoverà mai la Storia. Il filosofo e sinologo francese riflette sulla forza del logos

Chi meglio di François Jullien, 60 anni, filosofo, ellenista e sinologo francese molto tradotto all’estero, per parlare di differenti sistemi politici in conflitto, lui che l’8 ottobre sarà alla Biennale Democrazia di Torino per tenere una lectio dal titolo “Vite armoniche in equilibrio sul mondo”? Proprio la sua profonda conoscenza della Cina viene in soccorso per sviscerare quello che è ormai diventato il grande dualismo contemporaneo.


Professor Jullien, lo scontro tra democrazie e regimi autoritari o dittature è destinato a incrudelirsi o c’è qualche possibilità di dialogo?
«Anzitutto distinguerei tra regimi a volontà democratica (nessuno è totalmente democratico) e a volontà totalitaria. Effettivamente la pandemia ha accentuato le due predisposizioni. Abbiamo accusato le democrazie di debolezza. E le dittature hanno avuto buon gioco nel rincarare: visto? Avevamo ragione noi Cina, noi Russia, perché col nostro sistema abbiamo potuto imporre regole e comportamenti. Se accettassimo questo ragionamento dovremmo dare ragione ai regimi totalitari perché è come dire che saranno loro a vincere».


E non sarà così?
«L’immagine di potenza delle dittature è più spettacolare che effettiva. Anche loro sono travagliate da spaccature e divisioni. Sono forti nel loro apparato ma molto deboli, addirittura fragili a causa delle lotte intestine. Prendiamo la Cina. Mostra una forza economica e militare ma nasconde una guerra interna per il potere assai accesa. Dunque dobbiamo chiederci cosa può dare forza alle democrazie e non farci troppo impressionare dalla supposta superiorità dei totalitarismi».

 

Perché la superiorità è supposta?
«La sua debolezza è la paura del popolo, dei suoi cittadini. Paura di perdere la vita addirittura. E la paura non è un fattore che promuove la Storia. I regimi autoritari per creare un sentimento che non può essere democratico creano un sentimento nazionalista. La Cina si promuove come egemone, la Grande Cina. E per ampliare l’idea c’è la guerra. Al solito. Per assicurare la coesione interna si minaccia chi è fuori. Basta vedere la politica abominevole che Pechino promuove contro Taiwan. Addirittura impedisce di pronunciarne il nome. Persino le compagnie aeree sono costrette a censurarsi e annunciare ad esempio che un aereo “arriva dalla Cina”. Ma Taiwan non è Cina».


Lo fanno perché temono di perdere quote di un mercato immenso.
«Giusto. E la concorrenza tra i vari Paesi europei per compiacere i padroni di quel mercato non è diversa. Siamo disposti a qualsiasi compromesso. E i cinesi lo sanno molto bene, ci giocano».


Tuttavia nella percezione comune la Cina punta alle risorse, ad ampliare i mercati ma non vuole un’egemonia militare.
«Questa convinzione va presa con precauzione. Ci sono diverse forme di imperialismo. Abbiamo la forza e cosa ne facciamo? Gli antichi romani, in generale gli europei, poi gli americani hanno risposto al quesito sempre con la stessa formula: si stermina, poi si “civilizza”. La Cina è un’altra cosa. Il suo imperialismo discreto non vuole eliminare l’altro ma costruire una rete d’influenza, fino a rendere l’altro passivo. Quando si occupa militarmente si afferma un potere fragile, si sa che le colonie sono fatte per essere perdute».


La nuova Via della Seta è un buon esempio della strategia di Pechino. C’è da capire dal suo punto di vista cosa è più pericoloso, se l’occupazione silente alla cinese o quella militare all’occidentale.
«L’occupazione all’occidentale si può combattere, si possono organizzare forme di resistenza. L’occupazione indiretta alla cinese è più alienante perché la possibilità di resistere scompare. È talmente obliqua che non si può nemmeno denunciare. Ma ci sono elementi che mi danno speranza...».


Quali?
«I popoli non sono bestie, non sono stupidi. Basta vedere cosa in Africa e in Europa la pandemia ha rivelato del potere cinese. Il nostro compito è denunciare indefessamente tutte le storture del loro sistema».


Il nazionalismo ha goduto e sta godendo di una certa fortuna anche in Occidente comunque. L’Ungheria, la Polonia, certi partiti come la Lega in Italia, la destra di Marine Le Pen in Francia, la Brexit... Possiamo concludere che c’è una crisi della democrazia in Europa?
«Crisi. Malattia. Fine. Diffido di queste parole se coniugate con la democrazia. E se penso alla Cina per paragone subito mi viene in mente la frase di Churchill: la democrazia è la peggior forma di governo eccezion fatta per tutte le altre forme sperimentate sinora. Intanto perché si può criticare, cosa che non succede altrove. Quanto al nazionalismo in Europa ci si attacca a delle idee o a delle radici per cui ad esempio noi francesi siamo i Galli... Tutto questo è ideologico e mitologico e tuttavia sono discorsi demagogici che hanno un certo successo, passano molto bene. Ma in Francia non credo che il nazionalismo sia un pericolo, politicamente è poca cosa, è rumoroso ma è poca cosa».


In Ungheria come in Polonia il nazionalismo è nei Palazzi del potere e produce danni.
«Infatti il discorso per l’Europa dell’Est è diverso. Sono diverse le condizioni storiche, il passato dittatoriale è recente e l’identità dei popoli non ancora definita. Se la costruzione dell’Unione europea è lenta, i nazionalismi hanno ragione d’essere perché l’Europa non è più portatrice di Storia, di narrazione. Ha avuto questa capacità dopo la seconda Guerra mondiale ma quell’epoca è finita. Ci vuole un altro progetto in grado di sedurre e allora i nazionalismi verranno facilmente assorbiti».


Hanno avuto successo anche perché la globalizzazione economica e finanziaria ha fragilizzato masse di persone che hanno perduto il lavoro, sono finite sotto la soglia della povertà e trovato confortevole chiudersi nell’ambito tribale.
«Giusto. È un altro modo di avere paura. E qui vorrei fare una distinzione. Non bisogna confondere il liberismo con la democrazia. Spesso li associamo ma sono due concetti profondamente diversi. La democrazia ritroverà la sua forza quando si sarà liberata dal liberismo e dalla sua legge che è la legge del mercato, oggi del mercato mondiale».


Resta da definire ora quali siano le caratteristiche fondamentali di una democrazia.
«La democrazia è un luogo dove si può persuadere l’altro e non obbligarlo. Fare una cosa perché si è stati persuasi o perché è imposta con la violenza è decisivo, cambia tutto. Protagora l’ha teorizzato: di tutto possiamo fare due discorsi opposti e questa è la democrazia. Nulla a che fare con il liberismo...».


Anche alle radici della cultura orientale ci sono tuttavia due opposti, Yin e Yang. Perché questa profonda eredità non ha prodotto democrazia?
«Yin e Yang sono gli opposti complementari, i fattori d’energia, è la parte di montagna rischiarata dal sole e quella dall’ombra. Le due polarità formano un insieme che è l’armonia del mondo. Niente a che vedere con i greci e l’opposizione per frattura. Il logos esige una contrapposizione frontale. Se in un’elezione da una parte c’è il 51 per cento e dall’altra il 49, il 51 ha vinto, punto. Io non ho mai visto un cinese immaginare un regime politico diverso dalla monarchia, compresa quella comunista. I greci hanno cominciato a pensare il politico non la politica: Erodoto, Platone, Aristotele, hanno immaginato le forme diverse di governo, dei pochi, di uno, di tutti. In Cina c’è solo il principe buono o il principe cattivo. C’è un buon regime quando c’è influenza reciproca tra alto e basso, quando c’è interazione felice. E un cattivo regime quando il principe si ritira nel suo palazzo, non c’è interazione e il popolo soffre. La vera libertà è assumere la frattura del politico e scegliere un campo contro l’altro. Non è l’armonia alla cinese, il pensiero per integrazione, che promuove la Storia».


Nel dualismo contemporaneo tra democrazie e dittature è compresa anche da una parte la promozione e dall’altra il rifiuto dei diritti umani.
«Abbiamo troppo facilmente creduto in Europa che la nozione dei diritti umani sia naturale. No, è una costruzione storica. La Cina prima diceva di volerli difendere ma era troppo presto, aveva altre priorità ecc. Oggi invece li rifiuta. Non dice più: abbiamo altre priorità. Dice: abbiamo qualcosa di più che è l’armonia. I diritti dell’uomo estraggono l’uomo dalla natura, dal cosmo. Sono diritti dell’uomo, appunto. Nell’antichità non esistevano. È l’illuminismo che ha estratto dal resto l’individuo borghese in quanto soggetto col problema della libertà. Ma quella è la nostra Storia, non possiamo imporla».


Però dobbiamo almeno difenderla.
«Si. Gli europei devono decidere cosa è democrazia e cosa è Europa. Riflettere su cosa c’è di fecondo nel nostro cammino. Cultura, libri, musica. Le lingue in particolare. Sono risorse, cioè “ri-sorse” nel senso che riaffiorano. Non si può essere isolati nel proprio idioma e in questo senso le traduzioni sono il cuore dell’Europa, ma lo aveva già detto Umberto Eco. Tra le risorse c’è il cristianesimo. Per chi crede è una fede, per chi non crede è un valore importante perché ha promosso l’intimo delle cose».


Secondo lei, la pandemia ci ha fatto più europei perché è un problema che abbiamo condiviso?
«Non lo so. I Paesi hanno preso misure nazionaliste, non vedo fattori di coesione. C’è stata una presa di autorità dei medici, c’è stato un abuso. Si è confuso il vivente col vitale. Il vitale è colui che è in vita, che non è morto. Oltre a lui c’è il vivente che non è il puro rimanere in vita perché c’è anche la non vita. Le forme di rassegnazione, di alienazione sono non vita. Dunque bisogna resistere alla dittatura sanitaria rivendicando il primato del vivente sul vitale».

 

C’è un tema che accomuna democrazie e dittature ed è la transizione ecologica, la salvezza del pianeta che è di tutti.
«E in questo caso non c’è contrapposizione. Io rifiuto l’idea per cui le dittature sono inquinanti e le democrazie no. La Cina ha fatto molto per l’ecologia da qualche anno a questa parte. Quando hanno visto che i fiumi non arrivano più al mare, che l’aria è irrespirabile, si sono rimboccati le maniche. La Cina ha un’ideologia politica del durevole e non contempla l’eterno. I cinesi puntano a vivere il più a lungo possibile in buone condizioni. Hanno fatto cose nocive per il pianeta e ora si sono corretti. Sì, l’ecologia può ridurre lo scarto tra democrazie e dittature in nome di un bene comune».

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