Nello Xinjiang, dove risiede la minoranza etnica musulmana, è in atto da anni una clamorosa operazione di polizia. Che utilizza software di società statunitensi per monitorare la vita dei cittadini e soffocare il dissenso

Si chiama “guerra popolare al terrore”: check point e videocamere a riconoscimento facciale ovunque, soprattutto fuori dalle moschee, obbligo di portare sempre con sé il proprio smartphone, per essere sempre tracciati e affinché il proprio cellulare possa essere analizzato da software ad hoc alla ricerca di informazioni. In alcuni casi questi software possono accedere anche alle attività sui social media, analizzando circa 50 mila diversi indicatori di “attività islamica” o “attività politica”.

 

Basta avere installato WhatsApp per passare dei guai. Basta poco per finire in un carcere o in un campo di detenzione. Specie se si è uiguri, ovvero appartenenti alla minoranza etnica cinese turcofona e musulmana che abita la regione dello Xinjiang. Alcuni di questi particolari sono emersi dai Xinjiang Papers, pubblicati nel 2019 dal New York Times e più di recente da The Intercept, il sito di informazione creato da Gleen Greenwald e Laura Poitras che offre ai whistleblower una piattaforma sicura dove pubblicare documenti.

 

Quelli diffusi sullo Xinjiang contengono una mole di dati impressionanti fuoriusciti direttamente dai distaccamenti della polizia cinese. Oltre alla raccolta di Dna e dati biometrici, nella regione cinese dello Xinjiang sono in uso strumenti di polizia predittiva già noti anche in altri luoghi del mondo, come ad esempio gli Stati Uniti. “Predittivo” è un termine che presuppone una verità che in realtà non è tale: dipende da chi stabilisce la predizione. Negli Usa i modelli predittivi della polizia finiscono per indicare come aree più probabili dove avverrà un reato quelle abitate da minoranze etniche; in Xinijang, nord ovest cinese, la “predizione” è una supposizione: che uno uiguro abbia installato Whatsapp per commettere, in futuro, un reato. Come per altri esempi di algoritmi o forme di Intelligenza artificiale, la predizione si rivela molto spesso un pregiudizio di natura etnica.

 

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Sulla clamorosa operazione di polizia e repressione in atto nello Xinjiang negli ultimi anni sono uscite parecchie testimonianze e lavori investigativi che hanno cercato di raccontare quanto sta accadendo nella regione nord occidentale cinese, acquisizione “recente” dell’ultima dinastia imperiale dei Qing a metà del 1700 e negli ultimi vent’anni diventata una sorta di laboratorio di sorveglianza da parte del governo cinese. Il motivo è il terrorismo, sancito dall’inserimento di gruppi uiguri nella lista dei cattivi da Bush dopo l’11 settembre 2001 e più di recente a seguito di attentati compiuti tra il 2013 e il 2014 che hanno colpito solo persone non uigure. A questo va ad aggiungersi la partecipazione degli uiguri alla jihad internazionale lanciata dall’allora Stato islamico. Tanto bastava alla Cina per applicare alla regione un sistema di controllo avanzatissimo in termini tecnologici e un sistema di arresti di massa diretti esclusivamente alla minoranza etnica uigura (fino ad anni fa maggioranza schiacciante nella regione).

 

Darren Byler

Di recente un libro di Darren Byler, antropologo della Columbia University con un’esperienza di studio decennale in Xinjiang (“In The Camps, China’s High-Tech Penal Colony”, 2021, Columbia Global Reports) ha provato a raccontare tanto la politica repressiva cinese, quanto il suo aspetto più specificamente tecnologico. Proprio i 52 giga di dati di The Intercept usavano software Oracle. La risposta alle accuse piovute addosso alla Oracle di Ken Glueck, vice presidente dell’azienda americana e riportata da Byler, fu sbalorditiva perché Glueck sostenne che tutte le più grandi aziende americane stavano facendo la stessa cosa.

 

Sul tema Byler, intervistato da L’Espresso, ha specificato che «gli strumenti utilizzati in Cina sono collegati o rispecchiano in molti modi gli strumenti utilizzati dalle aziende tecnologiche, dalla polizia e dall’esercito negli Stati Uniti. Ovunque nel mondo gli smartphone sono diventati dispositivi di tracciamento e monitoraggio del comportamento degli utenti. La differenza è davvero in termini di privacy e tutela legale data agli utenti. In Cina molte di queste protezioni non esistono. E le aziende tecnologiche cinesi hanno cercato attivamente di imitare gli strumenti di valutazione dei dati costruiti da aziende come Palantir e Any Vision per poi adattarli agli usi specifici desiderati in Cina. Vedono lo Xinjiang come uno spazio in cui mettere a punto strumenti di valutazione algoritmica da utilizzare eventualmente in altre circostanze».

 

Nel 2020 due ricercatori della Humboldt University hanno pubblicato il report “China’s Surveillance State: A Global Project”, nel quale si dimostrano i legami tra le principali aziende tecnologiche e la Cina. Gli autori del report ritengono che questo sia dovuto a inefficaci “due diligence” all’interno delle aziende americane. Se il governo degli Stati Uniti è davvero preoccupato per ciò che sta accadendo nello Xinjiang, sostengono, dovrebbe chiarire alle aziende statunitensi che la complicità con lo stato di sorveglianza cinese avrà un costo. Che la sorveglianza sia un fenomeno globale (anche le aziende cinesi partecipano alla sorveglianza occidentale, sebbene non così pesante come in Xinjiang in termini di violazioni di diritti umani) è un dato ormai assodato. Resta da capire se il capillare controllo cinese potrà mai estendersi in altre regioni: secondo Byler «i sistemi utilizzati nello Xinjiang sono unici per scala e densità, ma alcuni aspetti sono diffusi in tutta la Cina. Nella maggior parte dei casi, vengono utilizzati per rendere più efficienti i servizi governativi e la polizia. E per mantenere il controllo politico. Ma non sono principalmente utilizzati per determinare chi dovrebbe essere detenuto. Quindi la maggior parte delle persone vede questi strumenti come qualcosa che rende la loro vita più comoda e sicura. Le minoranze sessuali, religiose e politiche in generale sono molto più interessate a queste tecnologie, poiché vengono utilizzate per controllare deviazioni e anormalità e proteggere gli interessi della maggioranza».

 

In Xinjiang, inoltre, tutto questo apparato repressivo ha un suo costo. «I documenti di Stato mostrano che l’infrastruttura del sistema costa circa 100 miliardi di dollari», ha spiegato Byler: «Inoltre sono stati assunti quasi 90mila nuovi poliziotti e 90mila nuovi insegnanti (che vengono utilizzati per insegnare cinese ai prigionieri dei campi di rieducazione). Non è chiaro quanti siano i costi per tutti quei nuovi lavoratori. Il salario minimo nella regione è di circa 300 dollari al mese. La maggior parte dei lavoratori statali di basso livello sembra guadagnare molto di più almeno basandosi sugli annunci di lavoro, quindi come minimo il costo dei nuovi lavoratori è di circa 648 milioni di dollari all’anno. Questo ovviamente si aggiunge ai budget già esistenti per i dipendenti statali e per i sistemi di sicurezza. Il costo del sistema è parte del motivo per cui hanno deciso di mettere i detenuti e altre persone dei villaggi a lavorare in nuove fabbriche».

 

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Si tratta infatti di un minimo cambiamento dovuto alle accuse internazionali, portatrici di sanzioni per molti dei funzionari cinesi coinvolti nelle attività repressive: «Lo Stato cinese sta attivamente tentando di cancellare le prove del sistema dei campi», spiega Byler: «Ne hanno chiuso alcuni, ribattezzandoli come strutture di detenzione, altri li hanno trasformati in fabbriche. E hanno costruito una serie di grandi prigioni nuove di zecca. Tutto ciò è in parte una risposta alla pressione internazionale che ha prodotto un grande costo morale ed economico. Lo Stato sta attivamente cercando ora di nascondere ciò che hanno fatto nella speranza che nel tempo le persone dimentichino le centinaia di migliaia di uiguri che sono ancora dispersi e tornino agli affari come al solito. Allo stesso tempo, non abbiamo visto un cambiamento nel sistema educativo, quindi sembra che sperino ancora di produrre una generazione di bambini uiguri che sono stati completamente sganciati dalle loro famiglie e tradizioni. Ciò rispecchia i processi coloniali di molti stati come Australia, Canada e Stati Uniti».

 

Una situazione drammatica sia per chi è arrestato, sia per chi rimane fuori ad aspettare, sia per chi teme per la propria incolumità. E perfino per chi è costretto a collaborare: Byler infatti si occupa di un fenomeno scarsamente preso in considerazione da articoli e inchieste, ovvero la vita degli uiguri che lavorano all’interno dei sistemi rieducativi: «Molti uiguri che lavorano all’interno del sistema statale lo fanno perché offre a loro e alle loro famiglie una certa protezione. Tuttavia, negli ultimi anni quasi tutti gli uiguri, indipendentemente dalla loro posizione, hanno assistito alla detenzione di colleghi e familiari. Quindi nessuno si sente al sicuro. L’unico modo per mantenere un certo controllo sul proprio futuro è spesso continuare a lavorare all’interno del sistema, e così tanti hanno scelto di agire in modi disumanizzanti nei confronti delle persone delle proprie comunità».