Big Tech
Facebook, un decennio tra scandali e scuse ipocrite
Atlas, Cambridge Analytica, i Facebook Papers. Di fronte alle accuse il social network ha adottato due strategie: promesse (non sempre mantenute) o appello alla libertà di parola
«Scusi, signor Zuckerberg, lei in quale albergo ha dormito stanotte?», chiede l’anziano senatore democratico Richard Durbin. Il fondatore di Facebook, che ha 40 anni meno di lui, sgrana gli occhi, non capisce che sta per cadere nella trappola e afferma stupito: «Ma perché volete saperlo?». Ecco la chiave, risponde il navigato politico dell’Illinois, «vede perché la privacy è importante?».
Aula della commissione commercio del Senato Usa, 10 aprile 2018. È la prima avvisaglia dei Facebook Papers portati alla luce in questi giorni. In discussione è lo scandalo Cambridge Analytica, con i dati personali di 87 milioni di cittadini americani e britannici (nelle varie fasi dell’inchiesta poi il numero scese a 50 milioni) sono stati ceduti illegalmente da Facebook (evidentemente a pagamento) a questa società dal nome roboante, in realtà una startup californiana creata da un miliardario conservatore, Robert Mercer, e da Steve Bannon, allora braccio destro di Donald Trump e poi coinvolto in avventure rocambolesche come la scuola di sovranismo nell’abbazia di Trisulti, progetto poi rigettato perfino da Matteo Salvini che ne doveva essere il portabandiera.
Ma in quel momento la macchina da guerra Zuckerberg-Mercer-Bannon viaggiava a mille. I dati erano estrapolati dai like, dai ristoranti, dalle confidenze, dalle faccine “emoji”, dalle fidanzate, dai viaggi, dai libri, insomma da tutto quello che incoscientemente postano su Facebook centinaia di milioni di persone in tutto il mondo. Sulla base di essi, con l’aiuto dello psicologo russo Aleksandr Kogan, veterano del Kgb e intimo di Putin, veniva predisposto un messaggio elettorale personalizzato, infarcito di fake news e veicolato ovviamente via Facebook.
Gli analisti politici sono sicuri che questo giochetto abbia avuto un ruolo importante sia nell’elezione di Trump nel novembre 2016 che nel referendum sulla Brexit pochi mesi prima. Zuckerberg, con la formula delle “scuse solenni” al Congresso, evitò il processo ma non la multa da 5 miliardi per violazione della privacy alla Federal Trade Commission, cui si aggiunsero 500mila sterline appioppate dall’Information Commissioner di Londra.
Gli bastò la lezione? Macché: solo un mese dopo il New York Times rivelò che Facebook aveva ceduto senza consenso ai produttori di smartphone i dati personali degli utenti, perché Apple, Samsung e gli altri potessero predisporre con efficacia l’accesso alla app. Ennesime scuse, accompagnate da una motivazione pasticciata: «La domanda di accesso a Facebook superava la capacità di sviluppare versioni del prodotto che funzionassero su ogni telefonino. Perciò abbiamo lavorato insieme ai produttori per garantire che tutti avessero accesso al social». Chissà.
Sono dieci anni che “Zuck” entra e esce da aule giudiziarie, sedi di authority, parlamenti. La prima volta che ammise di aver mentito promettendo agli utenti il rispetto della privacy, fu il 29 novembre 2011 di fronte alla Federal Trade Commission. Da lì una litania di controversie, alcune tecniche (come l’uso arbitrario di dati tratti dai servizi di messaggistica del gruppo), altre clamorose: nel 2019 vennero scoperti i numeri di telefono di 200 milioni di “amici” su un database aperto a chiunque, l’anno dopo mezzo milione di pacchetti di dati riservati apparve su un cloud Amazon, e così via con security breaches in tutto il mondo.
Zuckerberg a volte si è scusato o ha detto di essere inconsapevole, sempre però ha dato prova di spregiudicatezza: nel 2016 lanciò il progetto Atlas promettendo 20 dollari a ogni utente fra i 13 e i 35 anni che avesse ceduto i suoi dati personali, nel 2020 propose l’Off-Facebook Activity che permetteva agli utenti di condividere le iniziative al di là del network: quali altre app usava, quali acquisti faceva e così via. Roba al limite della legge.
E così arriviamo ai Facebook Papers, di gran lunga lo scandalo più grave. Li ha rivelati per primo il Wall Street Journal, il cui team investigativo è candidato al Pulitzer 2022 (la scadenza delle proposte era il 15 ottobre come pubblicato… su Facebook). Zuckerberg e i suoi collaboratori discutevano con un mantra: siamo per la «cultura aperta» (il Ceo la chiama così) e anche se ci rendiamo conto della pericolosità o dell’immoralità di certi messaggi, lasciamo correre perché ci fruttano audience, pubblicità, soldi. Così, centinaia di messaggi di odio, razzismo, omofobia, sono riusciti a filtrare nel network, compresi gli incitamenti all’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio (con l’aggravante di aver contribuito con la sua pervasività all’aumento del numero e alla violenza dei manifestanti), fino ai “post” che si scambiavano i guerriglieri in Etiopia per coordinare le azioni o i ricchi sauditi alla ricerca di qualche colf filippina (attività per la quale si ipotizza il reato di traffico di esseri umani). Tutte le accuse venivano registrate, discusse e il più delle volte ignorate, anche le più sordide come quelle riguardanti l’effetto tossico sugli adolescenti di certe immagini su Instagram (stesso gruppo) che proponevano modelli inquietanti di bellezza o bullismo (in passato Facebook era stato perfino accusato di ospitare le chat dei terroristi jihadisti ma almeno in questo caso sembra che sia riuscito a fare pulizia).
In tutto, oltre 10mila file riservati che la dirigente dimissionaria (per protesta) Frances Haugen ha ora consegnato alla Sec, la Consob americana. Stavolta lo scandalo è così grave che nulla potrà restare come prima: anche se la società cambia nome, e Zuckeberg si dimette, bisogna rivedere il modello di business, improntandolo all’etica, alla misura, soprattutto alla sincerità: il fondatore ha insistito fino all’ultimo che aveva 2,7 miliardi di sottoscrittori quando questo, osservano gli analisti, significherebbe quasi uno ogni due abitanti della Terra compresi i nomadi Kuci dell’Afghanistan, i pigmei del Congo, i samburu del Kenia, gli indios amazzonici e poi neonati e vecchi di ogni latitudine. Basta aprire il network per vedere che ogni pizzeria, centro estetico, parrocchia, gruppo d’opinione, società sportiva, ha il suo bravo account. E quindi le persone fisiche coinvolte sono molte di meno.