C’è il Paese delle intenzioni e il Paese reale. E mentre si avvicina la data delle elezioni, il 24 dicembre, riappare tra i candidati Saif, il figlio di Gheddafi

C’è una Libia dei comunicati stampa alla fine degli incontri negoziali e delle conferenze sulla stabilità. E poi c’è una Libia reale. A volte questi due Paesi si somigliano un po’, più spesso no.

 

Una è la Libia delle intenzioni, l’altra è la Libia dei fatti. È così da dieci anni e le ultime settimane non fanno eccezione.

 

Il 12 novembre si è riunito a Parigi un vertice voluto dal presidente francese, Emmanuel Macron, per scandire il percorso verso le elezioni annunciate lo scorso febbraio a Ginevra. Un altro tassello dell’investimento internazionale nel processo di pace che prevede l’unificazione delle istituzioni statali e il ritiro delle truppe straniere presenti sul terreno, oltre a regole chiare su chi possa o meno candidarsi alle elezioni. Regole che, però, ancora non ci sono nonostante manchino meno di quattro settimane al voto previsto per il 24 dicembre.

 

A Parigi erano presenti alcuni dei principali attori internazionali coinvolti nello scacchiere libico: l’Italia di Mario Draghi, gli Stati Uniti con la vicepresidente Kamala Harris, la cancelliera tedesca Angela Merkel, alti rappresentanti egiziani. Naturalmente i vertici delle istituzioni libiche dell’est e dell’ovest. Il vertice si è svolto in un clima disteso e collaborativo, i capi di Stato hanno invitato Tripoli a tenere elezioni “libere e credibili”, e la dichiarazione congiunta alla fine del vertice ammoniva chi ha ambizioni egemoniche nel Paese: «Le entità all’interno o all’esterno della Libia che tentano di ostacolare, sfidare, manipolare o manomettere il processo elettorale saranno ritenute responsabili e potrebbero essere soggette a sanzioni», scandiva il comunicato. Tradotto significa: fuori i mercenari dalla Libia. Punto su cui Macron è stato più esplicito della ragionieristica lingua delle conferenze stampa: «Russia e Turchia devono ritirare i loro mercenari senza indugio».

 

Peccato, però, che come sempre più della presenza, in questi consessi, contino le assenze, o le partecipazioni formali. A Parigi non c’erano né Erdogan né Putin, né i loro ministri degli Esteri, i Paesi erano rappresentati da semplici funzionari. I mercenari, nonostante il cessate il fuoco dello scorso anno, restano trincerati lungo le linee che segnano la divisione del Paese in sfere di influenza. E non sorprende visto che le passate dichiarazioni d’intenti e il calendario sul ritiro delle truppe straniere previsto dalla conferenza di Berlino dello scorso anno sono rimaste lettera morta, le Nazioni Unite stimano che in Libia ci siano ancora 20 mila combattenti stranieri tra le milizie pro-Ankara a sostegno di Tripoli e i soldati del Gruppo Wagner inviati dal presidente russo, Vladimir Putin, a sostegno di Haftar. E a ben poco sono servite le passate minacce di sanzioni, più volte annunciate e mai attuate.

 

Le «entità esterne presenti in Libia che sfidano la transizione politica», per dirla col linguaggio dei comunicati ufficiali, non sembrano affatto intimidite dagli incontri dei leader internazionali.

 

Due giorni dopo il vertice di Parigi e le esortazioni a tenere elezioni «inclusive e credibili», un convoglio di decine di mezzi blindati è arrivato a Sebha, nella regione meridionale del Fezzan.

 

Da una delle auto è sceso un uomo con il capo coperto da un turbante marrone, vestiva un abito tradizionale uguale a quello indossato dall’ex rais Muammar Gheddafi quando all’inizio della rivoluzione, nel febbraio 2011, esortò la folla nell’allora piazza Verde a resistere e trovare i «topi, i rivoltosi, casa per casa, vicolo per vicolo». L’uomo nell’abito marrone era suo figlio Saif, arrivato nella sede della Commissione elettorale di Sabha, a lungo roccaforte della sua tribù, i Khadafa, per presentare la candidatura alle elezioni.

 

È stata la prima apparizione pubblica per Saif al-Islam Gheddafi dai tempi della rivoluzione.

 

Quarantanove anni, un percorso di studi in economia terminato con un dottorato alla London school of economics, era stato considerato durante il regime del padre colui che avrebbe trainato il Paese a un processo di liberalizzazione economica e avrebbe modernizzato la Libia. Tornato a casa per supportare il padre contro i rivoluzionari al grido di «combattiamo qui in Libia, moriamo qui in Libia», fu catturato e portato nella zona montuosa di Zintan, condannato a morte, e poi graziato. Saif Gheddafi è stato (ed è) una delle presenze più enigmatiche della Libia post rivoluzionaria. Su di lui si sono diffuse tante leggende quante quelle che riguardano il corpo di suo padre, di cui nessuno pare conoscere le sorti: c’era chi dava Saif per morto, chi per sposato con la figlia di un capo milizia di Zintan, chi malato terminale, chi esule. Non una foto per anni, non un video, non una prova di esistenza in vita, Saif è stato un fantasma fino allo scorso maggio, quando è ricomparso in un’intervista al New York Times dalla sua lussuosa villa di Zintan dicendosi pronto a tornare protagonista della vita politica, nonostante sul suo capo penda un mandato di cattura della Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità, per il ruolo che ricoprì nella brutale repressione degli insorti contro il regime dei Gheddafi nel 2011. Prima delle sue parole il giorno della candidatura, prima della veste che evoca la figura del Fratello Guida, è la pura presenza di Saif che manda un messaggio politico: sono tornato sulla scena, ignorando le richieste della legge internazionale.

 

Di nuovo, c’è una Libia delle intenzioni, e una dei fatti. E poi, come sempre, c’è una Libia delle mappe di alleanze.

 

Non è solo perché sede di un antico consenso che Saif Gheddafi ha presentato la sua candidatura a Sabha, questa scelta dice di più: la regione è protetta dall’Esercito nazionale libico (Lna) sotto il controllo di Khalifa Haftar, non pare dunque un caso che uno dei figli dell’uomo forte della Cirenaica fosse, proprio in quelle ore, in ispezione nella regione. C’è chi sostiene che Saif fosse scortato, nel suo viaggio verso Sabha, proprio dai mercenari di Wagner che supportano Haftar.

 

Il 16 novembre, quarantotto ore dopo la candidatura di Saif, anche Khalifa Haftar si è presentato agli elettori proponendosi come possibile presidente.

 

Ora ci sono proprio tutti: il figlio di Gheddafi, il generale dell’est, l’ex ministro degli Interni Fathi Bashagha, l’ex primo ministro Ali Zeidan, il presidente del Parlamento Aguila Saleh Issa, e addirittura l’attuale primo ministro Abdul Hamid Dbeibeh che era stato nominato a febbraio con il vincolo che il suo fosse un mandato di transizione e che non potesse per nessuna ragione candidarsi alle elezioni.

 

Era la Libia delle intenzioni, a Ginevra. Nella Libia della realtà Dbeibeh si è presentato di fronte a una folla esultante durante un raduno giovanile chiedendo: Decidete voi, volete che mi candidi alle elezioni oppure no?

 

Che le elezioni si tengano o meno Khalifa Haftar e Saif Gheddafi hanno segnato un punto, perché nonostante il diritto internazionale si sono imposti come parte del processo di transizione politica del Paese.

 

È con queste premesse che la Libia va al voto: non ci sono ancora tutele istituzionali per garantire i risultati elettorali, non ci sono forze di sicurezza neutrali, né un sistema giuridico funzionante, non esistono media indipendenti e l’organismo Onu che ha fissato la data per il voto, il Libyan political forum, non ha trovato l’accordo sulla base costituzionale e giuridica per le elezioni.

 

In un Paese come la Libia queste condizioni possono essere la premessa di riacutizzare scontri mai sanati, e aumentare il rischio di una ricaduta nel conflitto armato dopo le elezioni.

 

La domanda è: a chi servono davvero queste elezioni, ai cittadini libici o ai partner internazionali che hanno fretta di dimostrare che il cammino verso la stabilità prosegue, non importa con quali conseguenze?