Oltre undicimila anni fa i primi cacciatori si sono stabiliti nell’attuale Turchia, vicino al confine siriano, per dedicarsi al culto e alla politica sfruttando un ambiente ideale. E mentre studiosi locali, tedeschi e italiani riscrivono la preistoria, il partito di governo punta sui visitatori per rilanciare un’economia in difficoltà

Un fronte di duecento chilometri, seminato di punti che si possono unire con una linea ondeggiante come in un gioco enigmistico, attraversa la direttrice est-ovest dell’Anatolia interna, in Turchia, segnata dalla catena del Tauro.

I puntini corrispondono a una dozzina di colline scavate nel calcare dove si sta riscrivendo la storia delle prime civiltà. Nell’alta valle dell’Eufrate, sul limite superiore della Mezzaluna fertile, è stato individuato il punto finora più arretrato dell’avventura umana, riferibile al paleolitico pre-ceramico, poco dopo l’ultima era glaciale. Prima della scrittura, della ruota, dell’aratro, tribù di cacciatori-raccoglitori hanno costruito anfiteatri di monoliti alti fino a sei metri e pesanti fino a dieci tonnellate, scolpiti con le figure della fauna selvatica locale declinata in oltre sessanta specie fra mammiferi, uccelli, rettili, pesci e molluschi.

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È uno spettacolo formidabile, enigmatico. I tentativi di decrittarlo sono dispersi in un elenco di ipotesi sulle quali nessun ricercatore è disposto a giurare. Göbekli, Cakmak, Sayburc, Sefer e Karahan, forse la più importante dopo Göbekli con quattro aree in via di scavo, potrebbero essere aree sacre destinate al culto e ai sacrifici, locali per pratiche di iniziazione, sedi di assemblee politiche e di festa o forse tutto questo insieme in un contesto di datazione intorno al decimo millennio avanti Cristo.

Il lavoro interpretativo procede con la stessa cautela che serve agli scavi, un tempo appannaggio di équipe europee, tedesche, francesi, italiane, e oggi sempre più in mano alle università locali, sostenute da investimenti per decine di milioni di euro messi a disposizione dal governo di Recep Tayyp Erdoğan.

La grandeur del democratore turco passa anche attraverso l’archeologia nella costruzione di un’identità che non si accontenta più del sogno etnocentrico di Kemal Pascià, il padre dei Turchi, ma abbraccia i contributi culturali dei secoli precedenti a dispetto di qualche forzatura tipica del discorso propagandistico. In tutto il territorio nazionale sono in corso campagne a vasto raggio, come il progetto per riportare alla luce il teatro greco di Izmir, l’antica Smirne diventata una metropoli sul Mediterraneo da 4,5 milioni di abitanti invasa dai turisti russi, o le ricerche della tomba di Antioco di Commagene, sovrano di un regno ellenistico nella zona del monte Nemrut.

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Ma il fulcro è poco lontano dal Nemrut, nel cuore della Turchia più lontana dai flussi turistici maggiori. È il distretto dell’Anatolia sudorientale, con quattro milioni di abitanti in un’area grande il doppio del Veneto. Qui l’alcol è sconsigliato e il velo femminile è molto più diffuso che a Istanbul. In queste zone storicamente miste fra armeni, curdi, arabi, il partito della Giustizia (Akp) di Erdoğan fa il pieno di consensi elettorali grazie a città come Malatya, Adiyaman, Sanliurfa, l’antica Urfa dove un tempo si parlava aramaico e dove, secondo la leggenda, nacque il profeta Abramo, celebrato dall’Antico testamento e dal Corano. L’ordine dall’alto a sindaci e valì, il nome dei prefetti ereditato dall’impero ottomano, è di puntare forte sulla cultura.

La materia non manca. La vista dalla collina del ventre, Göbekli Tepe in turco, è formidabile in una mattina chiara di primo inverno. Ai piedi dell’altura si apre la pianura di Harran, di nuovo riabilitata all’agricoltura grazie alle dighe sull’Eufrate. A una quarantina di chilometri c’è il confine con la Siria e, ancora oltre, Raqqa, caposaldo dello Stato islamico fino al 2017, quando la coalizione internazionale ha conquistato la città.

Pur avendo una complessità ingegneristica notevole, queste serie di cerchi concentrici sono state edificate con strumenti rudimentali, punte di selce per tagliare la roccia e pali di legno per trasportare a destinazione i monoliti dalle cave. Le colline di pietra rappresentano anche il primo tentativo noto di scrittura articolata attraverso immagini complesse e raffinate.

Gli studiosi concordano su poche certezze. I cacciatori-raccoglitori che ignoravano allevamento e agricoltura, come dimostrano i resti di animali selvatici trovati intorno alle colline e datati con il carbonio 14, smisero il nomadismo e si riunirono in gruppi sedentari. La spinta venne forse dall’ambiente, con Tigri ed Eufrate che consentivano disponibilità illimitata di acqua, quindi anche di selvaggina e cereali selvatici. Qualche archeologo ha evocato il giardino dell’Eden dei miti primordiali dove gli uomini non conoscevano né il lavoro né le gerarchie sociali generate dal lavoro ma vivevano in società di uguali.

Dopo essere state costruite con fatica e utilizzate per secoli, all’improvviso queste aree monumentali sono state seppellite di terra rossa e nascoste allo sguardo per millenni dagli stessi popoli che le avevano realizzate, forse per oscurarle a invasori stranieri, forse per desiderio di modernità e di nuovi culti.

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Secondo la tesi di Klaus Schmidt, l’archeologo che ha guidato gli scavi fino alla morte prematura nel 2014, l’idea che l’agricoltura e la stanzialità abbiano favorito il culto religioso va rovesciata. È la religione che ha obbligato l’uomo alla stanzialità e, in ultima analisi, all’agricoltura. In altre parole, l’idea di Dio è un motore del progresso.

A quasi dodicimila anni di distanza, nessuno dubita che l’idea di Dio possa essere anche un volano economico. Il progetto Tas Tepeler (colline di pietra) è stato presentato alla Bmta (borsa mediterranea del turismo archeologico) di Paestum a fine novembre. Grazie al turismo archeologico, l’Anatolia vuole inserire la ricerca culturale nel motore di un paese afflitto dalla svalutazione monetaria e da una bilancia commerciale in deficit. Non per caso il ministro della cultura e del turismo, Mehmet Nuri Ersoy, è proprietario insieme al gemello Murat di una delle più grandi agenzie di viaggi del paese, l’Ets (Ersoy turistik servisleri).

Di pari passo con scavi e musei, Erdoğan sta portando avanti a tappe forzate un programma di infrastrutture stradali e aeroportuali il cui vertice è il nuovo aeroporto di Istanbul, inaugurato nell’autunno del 2018 e messo a servizio anche di aeroporti regionali come Urfa e Malatya.

L’idea di trasformare le colline di pietra in un’opportunità turistica si scontra, oltre che con la pandemia, con la difficoltà di raccontare i siti ai visitatori di massa. Un altro elemento di complessità sta nella necessità di vietare le aree ai turisti per i mesi necessari a continuare gli scavi, coincidenti con la bella stagione.

Durante la visita dell’Espresso, Karahan Tepe risultava chiusa. A Göbekli Tepe, fornita anche di un ottimo museo interattivo, è arrivato soltanto un pullman in un paio di ore. Non molto per un giovedì, giorno che equivale al sabato cristiano.

Nell’Anatolia sudorientale l’archeologia deve fare i conti con le conseguenze più dirette dello sviluppo previsto dai piani del partito della giustizia di Erdoğan. Il Gap, il progetto di ventidue dighe su Tigri ed Eufrate gestite dall’ente idrico nazionale Dsi che risale ai programmi di Kemal Pascià, minaccia di sommergere siti di notevole importanza come è accaduto già a Samosata, città di nascita di Luciano, scrittore del secondo secolo dopo Cristo. Anche a Nevali Cori il salvabile è stato trasportato al museo nazionale di Ankara prima che salissero le acque dell’Atatürk, la maggiore diga del paese, inaugurata nel 1992 sull’Eufrate e costata la vita a molti lavoratori ai quali è dedicato un monumento nella zona del belvedere.

Il Gap è fonte di tensioni diplomatiche con le vicine Siria e Iraq, che lamentano la diminuzione di portata dei fiumi mesopotamici aggravata dall’Ilisu, lo sbarramento sul Tigri inaugurato un mese fa dopo quindici anni di lavori. Per anni Damasco ha contrastato questi progetti con finanziamenti sottobanco ai curdi del Pkk, la formazione messa fuori legge per terrorismo, e dell’Hdp, terza forza nel parlamento di Ankara nel mirino della Corte costituzionale turca.

Ma il Gap è una chiave di volta irrinunciabile per il fabbisogno energetico che sostiene uno sviluppo palazzinaro in stile Italia del dopoguerra. Le città della zona si stanno allargando attraverso cinture di quartieri residenziali con torri di aspetto signorile, più o meno uguali. Proprio un cantiere di edilizia civile in centro a Urfa ha consentito il ritrovamento di una statua ad altezza naturale, oggi conservata nel museo cittadino. È la più antica finora nella storia della scultura e raffigura un uomo senza bocca, probabilmente un morto, con occhi di ossidiana.

Le vestigia dell’antichità sono dovunque. Nel cuore di Malatya c’è una stupefacente e gigantesca necropoli romana che era stata trasformata in discarica prima che il sindaco metropolitano Selahattin Gürkan, uno dei colonnelli locali dell’Akp, desse l’ordine di ripulire le grotte ricavate dallo stesso calcare di Göbekli e Karahan Tepe.

Sempre a Malatya, città di 400 mila abitanti a mille metri di altezza circondata da colline innevate, dove gli operai edili si raccolgono intorno al fuoco ai -6° dell’alba prima di iniziare la giornata, è emersa la traccia archeologica più antica di struttura burocratica organizzata. È Arslan Tepe, la collina dei leoni, integrata nella lista del patrimonio Unesco il 26 luglio scorso. Qui un ruolo fondamentale è stato svolto dall’archeologa della Sapienza Marcella Frangipane, cittadina onoraria di Malatya dopo decenni di lavoro in un sito che risale al quarto millennio avanti Cristo.

Arslan Tepe, sopravvissuta al crollo dell’impero ittita come stato indipendente e infine rasa al suolo dal re assiro Sargon II, è in qualche modo l’antitesi di Göbekli Tepe perché racconta un mondo già distante dall’Eden, strutturato da una burocrazia ferrea e segnato da tracce di ribellione violenta dei contadini vessati.

«Ho ottenuto», dice la professoressa Frangipane, «che i cartelli per i visitatori fossero scritti anche in italiano oltre che in turco e inglese. Devo dire che le autorità locali sono sempre state molto disponibili, senza lo sgomitare tipico della realtà italiana. I lavori continuano in buone mani».

Dopo il pensionamento, Frangipane ha lasciato il testimone a una collega della Sapienza, Francesca Balossi Restelli, e il marchio di una frase di Eugenio Montale all’inizio del cantiere. «La storia non è la devastante ruspa che si dice. Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli».