I minori senza risorse economiche indispensabili per una vita dignitosa sono oltre 1,3 milioni, uno su 7. Dalla salute all’istruzione, pagano il prezzo del disagio e dell’assenza di servizi. Colloquio con Raffaela Milano (Save the children)

La povertà minorile è una piaga che ferisce l’Italia. Prima della pandemia, il Paese era tra i peggiori dell’Unione europea, con l’emergenza sanitaria ha toccato picchi mai raggiunti da quando l’Istat ha iniziato le rilevazioni nel 2005. Ci sono un milione e 346 mila minori senza le risorse economiche indispensabili per una vita dignitosa. Tra il 2019 e il 2020, il numero è cresciuto di 200 mila unità. «La povertà dei bambini è diversa da quella degli adulti perché ha un duplice effetto: immediato, sullo stile di vita, e di lunga durata, in quanto condiziona tutte le dimensioni della crescita, la salute, l’educazione e anche le aspirazioni», spiega Raffaela Milano, direttrice dei programmi Italia-Europa di Save the children.

Che cosa significa per un bambino vivere in povertà?
«Significa stare a casa con il cappotto, perché non ci sono i soldi per pagare il riscaldamento. O abitare in condizioni di sovraffollamento. Situazioni che con le restrizioni per ridurre il contagio da Covid-19 sono diventate ancora più difficili. Vivere in povertà per un bambino significa crescere senza accedere alle cure mediche, le prime a essere abbandonate sono le odontotecniche. Significa non avere i libri, andare in gita, fare sport. È anche sinonimo di cattiva alimentazione. Secondo un’indagine Eurostat, in Italia nel 2019, il 6 per cento dei bambini non poteva permettersi un pasto equilibrato al giorno. Cresce il numero di persone in sovrappeso mentre aprire mense scolastiche di qualità e gratuite per chi è in difficoltà, potrebbe ribaltare la situazione. La povertà danneggia la quotidianità da tutti i punti di vista, soprattutto le aspirazioni. Quando un bambino si guarda intorno e crede che determinati obiettivi siano impossibili da raggiungere, ricalibra le aspettative. Nel 2020 i bambini in povertà erano uno su sette. E proprio nelle aree dove ci sono più famiglie povere le risorse sono carenti. Al disagio economico si aggiunge la mancanza dei servizi. I bambini pagano le conseguenze, una doppia ingiustizia che compromette la loro crescita».

Se disegnassimo una mappa della povertà minorile che forma avrebbe?
«Tra le famiglie più povere ci sono quelle numerose, con almeno tre minorenni. Le straniere che non possono contare sui sussidi, e le famiglie mono-genitoriali, di solito mamme con figli. Le regioni con meno risorse sono al sud ma l’impoverimento aumenta soprattutto al nord. C’è stato un riallineamento al ribasso. Per capire cosa succede è necessario guardare ai territori specifici, le periferie, le aree interne. Ci sono zone in cui tutti gli svantaggi coincidono, la quota degli under-18 in povertà presenta forti disuguaglianze territoriali. A deteriorare situazioni già in bilico sono stati gli effetti della pandemia, devastanti su chi vive ai margini, con occupazioni precarie o non regolamentate. La bassa occupazione femminile peggiora la situazione. Il Pnrr assegna all’infanzia una grande quantità di risorse, sarà fondamentale impiegarle nelle zone che hanno bisogno».

Le carenze economiche ed educative sono correlate?
«La scuola ha un ruolo importante nel riequilibrare le condizioni di vita dei bambini, seppur non abbastanza da interrompere il legame tra il successo scolastico e la condizione familiare. Con il passaggio dalla didattica in presenza a quella a distanza, il link tra povertà materiale e educativa si è stretto: lo svantaggio economico è diventato impossibilità, per molti genitori, di offrire ai bambini tempo, spazio e strumenti educativi a casa. La caduta dell’apprendimento è legata anche a una perdita di motivazione, della volontà di costruire il futuro, alla mancanza di socialità, all’impatto psicologico della pandemia. Nessuno ha ascoltato la voce dei giovani. Siamo in una fase tragica che, però, è servita per riscoprire la scuola come pilastro della democrazia. Ora è necessario uscirne».

Come?
«Non tornando al pre-pandemia, guardando avanti. L’Unione europea ha varato la Child guarantee, strategia globale per garantire la protezione dei diritti di tutti i bambini e l’accesso ai servizi di base anche per i più vulnerabili. È uno strumento che spinge gli Stati a fare un piano di contrasto alla povertà minorile. L’Italia è tra i Paesi che hanno maggiore necessità di prepararlo. Avremmo dovuto già nominare una figura di coordinamento, mentre entro marzo dovremmo presentare il piano, per mettere in rete tutte le risorse per la lotta alla povertà, in modo che l’obiettivo da raggiungere sia misurabile».

Che cos’è la povertà digitale?
«La parte più visibile è la mancanza di connessioni e dispositivi ma l’argomento è complesso: la perdita di socialità e la Dad hanno fatto crollare gli argini nell’esposizione al digitale. Nonostante oggi si parli di nativi digitali, molti non hanno le competenze minime per affrontare la rete. Save the children ha realizzato un’indagine su 772 bambini che frequentano l’ultima classe della scuola secondaria inferiore, in 11 città italiane: un quinto non è in grado di identificare una password sicura o eseguire operazioni semplici come scaricare un documento condiviso sulla piattaforma della scuola. Il 49,5 per cento dei minori non è in grado di riconoscere una fake news».

Che importanza hanno i servizi per l’infanzia?
«Gli asili nido sono uno strumento straordinario per combattere la povertà. I servizi per le famiglie sono scarsi dappertutto ma in alcune aree la situazione è drammatica: in Calabria, ad esempio, trovano posto negli asili nido pubblici tre bambini su cento. Le mamme non sanno dove lasciare i figli se vogliono riprendere il lavoro. Sono proprio questi i contesti da cui partire, il punto non è solo fare i bandi e trovare i Comuni in grado di aderire, è necessario fare in modo che l’offerta di servizi raggiunga tutti, in tutti i territori, indipendentemente dalla bravura dell’amministrazione. Rendere i servizi per la prima infanzia gratuiti per chi ha meno possibilità significa facilitare anche l’accesso al lavoro per le mamme».

Qual è il peso della disparità di genere?
«Le bambine ottengono risultati più brillanti rispetto ai colleghi a scuola ma la situazione si capovolge non appena mettono piede nel mondo del lavoro. Le bambine sono scoraggiate dall’intraprendere percorsi scientifici, a causa del contesto prevalentemente maschile, e per le opinioni comuni. A influire sono gli stereotipi di genere che agiscono fin dall’infanzia e si palesano nell’accesso al lavoro. Per invertire la tendenza verso un mondo dell’occupazione soprattutto di uomini è importante contrastare le disparità fin dai primi anni. In questo senso è fondamentale il supporto alla genitorialità, i dati dicono che ancora oggi il peso della cura familiare è soprattutto sulle spalle delle donne. Un problema del mondo, a cui, però, l’Italia non è immune».