Dentro e fuori
Due passaporti per il Medio Oriente
Per anni entrare in Israele da un paese arabo (e viceversa) non è stato possibile. Oggi tutto è cambiato, ma la pace con i palestinesi è ancora lontana
Per molti anni, più di mezzo secolo fa, ho viaggiato in Medio Oriente con due passaporti. Non sarei potuto entrare in Israele con visti di paesi arabi, né le polizie arabe di frontiera avrebbero accettato quelli israeliani. Non dovevo sbagliare passaporto al momento dei controlli di confine. A volte ero costretto a giurare il falso quando mi veniva chiesto quale era stato il mio paese di partenza, che era Israele o l’Egitto o il Sudan. Spesso arrivavo infatti da Israele in un paese arabo o da un paese arabo in Israele. Le bugie di noi giornalisti, che passavamo da un “mondo” all’altro via Cipro, erano evidenti. Per andare dal Cairo a Tel Aviv o viceversa, l’isola era la deviazione più veloce. Allora era un territorio neutro sia per gli israeliani sia per gli arabi. Gli uni e gli altri stavano al gioco. Fingevano di credere alla nostra innocente menzogna. A volte però il gioco poteva diventare spiacevole. L’espulsione era un rischio. In tal caso bisognava prendere il primo aereo di passaggio, diretto chissà dove, dopo alcune ore passate piantonati da un gendarme. Poi la situazione è cambiata: più pragmatici, gli israeliani non mettevano più neppure il timbro d’arrivo sul tuo passaporto, se lo chiedevi, per non crearti guai entrando nei paesi arabi. Adesso il clima politico è stravolto. Così cambiato che Israele sembra sotto tanti aspetti il “vincitore”. È infatti alleato con i paesi arabi, i vecchi nemici, anche se non ha ancora formali rapporti diplomatici con tutti. Lo Stato ebraico è la prima potenza militare e la società industriale tecnicamente più avanzata del Medio Oriente. In quanto tale è alla testa dello schieramento arabo di fronte all’Iran. Se non lo è ufficialmente lo è di fatto. Israele non è più da tempo un paese isolato nella regione: adesso è il capofila del fronte arabo sunnita contro l’Iran sciita.
Corro troppo in fretta. Il ricordo delle mie lunghe esperienze mediorientali mi fa relativizzare i tanti conflitti ancora esistenti nella regione, al di là delle nuove alleanze. Il problema palestinese è irrisolto (ci sono quattrocentocinquantamila coloni israeliani nella Cisgiordania occupata, che dovrebbe essere la Palestina), ma esso non impedisce ai regimi arabi di considerare Israele un alleato: e come tale il loro punto di forza in Medio Oriente contro l’Iran. Il problema palestinese resta vivo. Ma Hamas al potere a Gaza è in aperta tenzone con l’Olp al potere, perlomeno formalmente, nella Cisgiordania occupata da soldati e coloni israeliani. I rapporti tra Hamas e l’Olp sono in questo momento abbastanza distesi, ma l’ostilità non si è spenta del tutto. Il popolo palestinese in questa fase della Storia è comunque trascurato dai regimi arabi.
Quella in corso in Medio Oriente è una svolta delineatasi da tempo, ma essa appare adesso radicale. La situazione non è più la stessa. È cambiata da quando viaggiavo con due passaporti, e vivevo nel timore di mostrare quello sbagliato: quello con i timbri arabi agli israeliani, e viceversa. Il Covid-19 e il crollo dei prezzi degli idrocarburi hanno affrettato il mutamento della mappa politica della regione, già frantumata dalla rivalità tra i paesi arabi (per lo più sunniti) e l’Iran stremato dalla pandemia e i suoi alleati (soprattutto sciiti). Anzitutto c’è stata l’inclusione di Israele come elemento di primo piano, riconosciuto, nel nuovo Medio Oriente. Dove le guerre “segrete” non sono finite e quelle aperte non sono escluse nel futuro, scrive Gilles Kepel in “Le prophète et la pandémie”.
Non essendo più dipendente come un tempo dal petrolio mediorientale, l’interesse degli Stati Uniti per il Medio Oriente è destinato a diminuire, mentre cresce il ruolo di Israele che è in grado di fornire ai paesi non più adagiati sul reddito che sgorga dal sottosuolo la tecnologia necessaria per favorire o creare un’industria. La più interessata a questa trasformazione è l’Arabia Saudita, non a caso il paese più ricco del fronte sunnita, di cui Israele è diventato l’elemento principale. Il confronto avviene, in modo disordinato, tra due schieramenti. Da un lato l’asse fratelli musulmani e sciiti, il Qatar, la Turchia, Gaza e naturalmente l’Iran. Dall’altro gli Stati Uniti, Israele, Marocco, Emirati arabi, Bahrein, Sudan, Arabia Saudita. Quest’ultima è chiamata l’intesa di “Abramo”.