Il commissario di governo ha distribuito senza gara più di 3 miliardi a decine di aziende. Sempre in totale autonomia. Anche quando in piena emergenza - e anche dopo - il ministero degli Esteri ha offerto una lista di fornitori in Cina e nel mondo. Finendo così nella rete di intermediari improvvisati. Ora sotto inchiesta

Aggiornamento 9 dicembre: La replica di MyMask alla nostra inchiesta

 

Si è creduto a lungo che di Domenico Arcuri ce ne fosse più di uno. Ogni qual volta è apparso in televisione dopo aver rilasciato un paio di interviste ai giornali e fissato una conferenza stampa mentre l’amico Giuseppe Conte gli affidava l’ennesimo incarico, l’onnipresente Arcuri dev’essersi davvero sentito un commissario straordinario, pronto però a concentrarsi più sull’aggettivo straordinario che sul sostantivo commissario. Così ha pensato che soltanto un uomo, sé stesso, potesse reperire, produrre, acquistare, distribuire mascherine, vaccini, copricapo, visiere, igienizzante, macchinari e qualsiasi materiale per qualsiasi esigenza.

Arcuri si è giudicato e si è assolto, sicuro di meritare un premio. E fin dall’inizio ha ignorato il resto. Non ha attinto mai dallo sterminato elenco di aziende straniere, disseminate nel mondo, scovate e vagliate dalle strutture diplomatiche del ministero degli Esteri, disposte a fornire quello che Arcuri cercava.

Secondo quanto L’Espresso ha ricostruito, nei giorni compresi tra l’annuncio e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della nomina del commissario Arcuri, cioè tra l’11 e il 20 marzo 2020, la Protezione Civile di Angelo Borrelli – con l’aiuto del ministero degli Esteri e l’ambasciata a Pechino – ha stipulato un accordo con la Byd auto industry company, un’azienda statale cinese di automobili convertita alla fabbricazione di mascherine chirurgiche: 100 milioni di pezzi, 0,29 euro l’uno, per un totale di 29,8 milioni di euro.

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In quel momento, però, Conte trasferisce il centro di spesa dalla Protezione Civile alla struttura di Arcuri. Nel periodo non semplice del passaggio di consegne, la Farnesina continua a mandare alla Protezione Civile, e in copia al commissario straordinario, le segnalazioni degli ambasciatori con le società che si rendono disponibili a trattare con l’Italia. Nella fase più confusa della pandemia, il ministero spedisce quattro o cinque comunicazioni al giorno, raggiunta una certa normalità, poi è stata in grado di compilare un documento al giorno con una lista - dalla A di Austria alla T di Thailandia – di fornitori da contattare. Il vantaggio era quello di non incappare in società improvvisate o in speculatori e, soprattutto, di non ricorre a importatori e mediatori che avrebbero inciso sul prezzo finale.

Dopo due mesi, a maggio, l’albo dei potenziali fornitori della Farnesina era lungo una trentina di pagine. Però Arcuri non ci ha trovato mai niente di interessante. Ha comprato altri 200 milioni di mascherine da Byd Auto a 0,29 e ha tentato una sinergia per dei tubi sanitari – poi interrotta per ritardi, dicono dalla struttura – sempre con i cinesi, stavolta con la multinazionale della farmaceutica Sinopharma.

In quelle settimane di emergenza, Arcuri non ha più spuntato prezzi come quelli garantiti da Byd auto. La struttura del commissario ha trovato, ancora in Cina, società con pretese ben maggiori. È il caso della Luokai Trade, 450 milioni di mascherine (0,49 l’una) per 220 milioni di euro, come la Wenhzou Moon-Ray, 10 milioni di mascherine (0,55 l’una). Per entrambe, si è saputo dopo l’apertura di un’inchiesta giudiziaria, sono state pagate provvigioni per decine di milioni di euro.

LA PROCEDURA
Per capire il potere del commissario Arcuri e in che modo siano stati gestiti gli affidamenti basta dare un’occhiata ai numeri resi pubblici da Palazzo Chigi. Ad oggi la struttura commissariale ha bandito gare con una base d’asta pari a circa 8 miliardi di euro e firmato 291 contratti per un valore di 3,5 miliardi di euro. I dati sono stati analizzati dall’Anac, l’Autorità anticorruzione: la gran parte degli appalti, 5,2 miliardi di euro sono stati avviati con il sistema della «procedura negoziata senza previa comunicazione». Cioè una chiamata discrezionale di aziende invitate a fornire preventivi e offerte. La procedura si è poi conclusa con una altrettanto discrezionale scelta del contraente.

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Le gare aperte sono una manciata, perlopiù quelle per il finanziamento delle riconversioni industriali per la produzione di dispositivi antivirus. La scelta di procedere in via diretta o con la procedura negoziata senza pubblicazione è stata dettata dalla necessità di fronteggiare l’improvviso scoppio della pandemia nel febbraio dello scorso anno, questa la difesa del commissario. Il fatto è, però, che la macchina degli affidamenti senza gara non si è fermata neppure dopo la fine dell’emergenza della primavera 2020. Arcuri non ha mai smesso di gestire le gare in totale autonomia. In altre parole, non era richiesta la trasparenza sulla scelta dei contraenti. E neppure sui prezzi a cui venivano conclusi i contratti.

Nasce così il colossale pasticcio delle commesse per un miliardo e duecento milioni di euro aggiudicate a due gruppi cinesi spuntati dal nulla, i già citati Luokai e Wenzhou. Si è scoperto che a far da tramite per la fornitura era scesa in campo un’eterogena compagnia di giro guidata dal giornalista Mario Benotti. La torta da spartire era gigantesca: 72 milioni di provvigioni. La procura di Roma ha aperto un’inchiesta ipotizzando i reati di traffico di influenze, perché Benotti, sfruttando la sua personale conoscenza di Arcuri, si sarebbe fatto retribuire dalle controparti cinesi e senza che il commissario lo sapesse, in modo «occulto e non giustificato». Tutti gli indagati reclamano la loro innocenza e la totale liceità dell’operazione e dei rispettivi compensi.

 

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A prescindere dal risultato delle indagini, la vicenda illumina un sistema, il sistema Arcuri, che ha finito per moltiplicare i costi a carico dello Stato. Lo dicono i numeri: le mascherine chirurgiche importante con la mediazione di Benotti e soci sono costate molto di più, fino al 90 per cento, dei prodotti analoghi forniti nello stesso periodo (marzo-aprile) dal gruppo cinese Byd industry. Anche la scelta di prodotti e materiali a volte si è rivelata inadeguata. Nei mesi scorsi, per esempio, la Regione Siciliana ha dovuto fare da sé dopo che si è vista recapitare in piena emergenza pandemica cento termometri ascellari, inutilizzabili per il Covid-19, ma anche diversi lotti di mascherine non certificate per uso medico. A conti fatti, quindi, la spesa complessiva aumenta, perché nel computo vanno inseriti anche gli esborsi supplementari a carico degli enti locali, che secondo i dati raccolti dalla fondazione Openpolis ammontano a circa 3 miliardi di euro.

GLI APPALTI
Arcuri è un manager con i superpoteri, inattaccabile e insindacabile. Da capo di Invitalia guida l’operazione che porterà in mani pubbliche una quota del 15 per cento di Reithera, l’azienda produttrice del cosiddetto vaccino tutto italiano, anche se al consorzio per lo sviluppo del farmaco partecipano un’azienda belga e una tedesca. Inoltre, contributi pubblici per 80 milioni finanzieranno le ricerche della stessa Reithera.

 

 

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Arcuri si troverà, dunque, nella singolare posizione di trattare la fornitura di vaccini con le case farmaceutiche internazionali, mentre allo stesso tempo ha voce in capitolo nella gestione di un’impresa tricolore impegnata nel medesimo settore.

In questa sovrapposizione di ruoli, è rimasta incastrata anche Laura Frati, già Gucci (quelli della famiglia del famoso marchio di moda). Frati dirige l’ufficio stampa dello Spallanzani e fa pubbliche relazioni da vent’anni con Pirene, società che ha collaborato – dopo bandi pubblici - con Invitalia e di recente ha ottenuto un prezioso mandato da Arcuri: allestire la sala per 12 conferenze del commissario. Compenso: 17.500 euro. Più che la cifra, è il ginepraio di incarichi che intriga: fra i clienti di Pirene ci sono aziende farmaceutiche come Pfizer, che ha prodotto il primo vaccino anti-Covid-19, e pure Johnson&Johnson, che ancora lo sta sperimentando.

Zenith Italy, invece, si è offerta di aiutare la struttura del commissario per l’app Immuni, che secondo il governo sarebbe servita a tracciare gli infetti per arginare la diffusione del contagio. Zenith ha assistito il commissario per la «realizzazione grafica e creatività per post social, la moderazione e la valutazione dei commenti sulla pagina ufficiale di Immuni su Facebook». Sul più famoso dei social network Immuni conta al momento circa 19.000 like. Il 10 ottobre il commissario ha riconosciuto per l’impegno un pagamento di 40.720 euro a Zenith. Più di 2 euro a “mi piace”. Un successo non proprio contagioso.

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Il caso già citato di Reithera non è l’unico in cui il manager di Stato finisce per giocare su due tavoli. Come numero uno di Invitalia, la scorsa primavera Arcuri ha dato via libera ai finanziamenti per la riconversione o all’ampliamento di 129 aziende che producono dispositivi antivirus. Gli stessi dispositivi che poi il medesimo Arcuri, questa volta con il cappello di commissario per l’emergenza, si trova a comprare per conto del governo. Succede così che un grande gruppo come Gvs, specializzato in sistemi filtranti destinati al settore automobilistico e medicale, ad aprile dell’anno scorso abbia incassato soldi pubblici (circa 500 mila euro) targati Invitalia. Il prestito senza interessi serviva per ampliare gli stabilimenti con nuovi macchinari per fabbricare mascherine FFP3. Ebbene, nel giro di poche settimane, Arcuri questa volta come commissario all’emergenza Covid, ha stipulato con Gvs quattro contratti per la fornitura di quelle stesse mascherine FFP3 di cui Invitalia aveva in parte finanziato la produzione.

Tutto bene, se non fosse che nella prima metà di giugno dell’anno scorso, la Gvs della famiglia Scagliarini è sbarcata in Borsa e ha fatto il pieno di capitali. Un trionfo: in sette mesi la quotazione è più che raddoppiata. Gli azionisti venditori hanno incassato quasi 500 milioni di euro, mentre all’azienda sono andati circa 80 milioni. I prestiti di Invitalia, quindi, sono serviti a sostenere una società che non ne aveva bisogno, perché di lì a poco avrebbe raccolto denaro in abbondanza sui mercati finanziari. Interpellati in proposito, i portavoce di Gvs spiegano che a marzo, data del bando per i sussidi di Stato, «non era possibile immaginare che cosa sarebbe accaduto con il percorso di quotazione avviato». Non solo. In base a una clausola del contratto di finanziamento, legata ai tempi dell’entrata in funzione delle nuove linee produttive, Gvs potrà ottenere anche uno «sconto del 100 per cento in conto capitale». Insomma, il prestito potrebbe trasformarsi in un sussidio a fondo perduto: un regalo.

AZIENDE DAL NULLA
Scorrendo l’elenco dei contratti firmati da Arcuri capita anche di trovare società costituite poche settimane prima della firma del contratto. Come la lombarda MyMask, nata in pieno lockdown. Il tre giugno 2020 l’azienda firma con Arcuri un contratto da 13,2 milioni di euro per produrre mascherine chirurgiche ad un costo medio di 0,3 euro. Appalto ottenuto con la «procedura negoziata senza previa comunicazione».

Ma come ha fatto un’azienda nata qualche settimana prima a trovare macchinari e impianti, installarli in tempi rapidi e produrre una cifra così importante di mascherine? L’amministratore delegato della società è il giovane I. M. D. N. Il padre, immobiliarista, spiega di aver investito «due milioni di euro, miei e senza aiuti pubblici, per creare questa fabbrichetta e darla in mano a mio figlio. Abbiamo costruito dal nulla lo stabilimento, trovato i fornitori di materiale in parte dalla Cina, e avviato la produzione. Arcuri ci ha pagato, ha rispettato gli impegni anche se per due mesi ci ha tenuti fermi in attesa di verifiche». La certificazione di conformità Ue delle mascherine MyMask è datata 3 giugno 2020, lo stesso giorno del contratto. Oggi però l’azienda non produce più mascherine. «Per chi le devo produrre? Ormai il mercato è chiuso e i prezzi sono inaccessibili. Da Arcuri non ho avuto altre commesse. La verità? Ho perso 2 milioni di euro».

I DISINFETTANTI
A Ferragosto, durante l’ultimo scorcio di un’illusoria estate senza virus, Arcuri si preparava al secondo tempo della sua personale sfida. All’ordine del giorno c’è la riapertura delle scuole e il commissario setaccia il mercato per trovare milioni di litri di igienizzante in formato gel per insegnanti, studenti e bidelli. Il 19 agosto si concludono le trattative – cioè il solito bando «a procedura negoziata senza previa pubblicazione» – con la Italyam per 6,5 milioni di litri di gel al costo di 36,7 milioni di euro.

Al pari del suo titolare Alessio Fontana, comasco classe ’79, anche Italyam è una società giovane. Talmente giovane che quel contratto milionario è stato firmato neppure due settimane dopo il deposito dell’atto costitutivo alla Camera di Commercio di Milano. Il 31 agosto, con una lettera formale, Arcuri assegna a Italyam di Fontana – con sede a Milano in zona San Vittore e un capannone a Chiuduno in provincia di Bergamo – il compito di fornire l’igienizzante agli istituti scolastici di Lombardia, Piemonte, Liguria, Sardegna e Valle d’Aosta. Ben presto però la struttura del commissario è costretta prendere atto che Italyam non riesce a rispettare gli accordi. Già il 30 ottobre il responsabile del procedimento contesta a Fontana una serie di “inadempienze”. Le scuole si lamentano, il gel non arriva e, se arriva, non è in quantità sufficiente.

Il 13 novembre l’amministratore Fontana, ormai nel mirino di Arcuri, cede la maggioranza di Italyam alla società romana Dispositivo medico sanitario, fondata tre giorni prima dall’avvocata Eleonora Carfagna (azionista al 90 per cento), nota come un’ottima giocatrice tra gli appassionati di bridge della capitale. Carfagna ha spiegato a L’Espresso di aver conosciuto Fontana per questioni lavorative, e «siccome la Dispositivo medico sanitario non trattava il prodotto gel igienizzante abbiamo proposto di acquistare le quote e poi trasferito la sede sociale a Roma».

Il 17 novembre gli uffici del commissario incalzano Italyam per sollecitare la distribuzione di 140.450 litri di gel entro il 27. Le scuole però sono in gran parte chiuse causa pandemia. E allora, il 18 novembre, Arcuri si corregge e ordina di portare i carichi negli ospedali, però anche gli ospedali, proprio come era già successo con gli istituti scolastici, non ricevono l’igienizzante richiesto. Il 23 novembre, la struttura del commissario intima a Italyam di far arrivare, non oltre il 7 dicembre, 2,8 milioni di litri di gel al magazzino di un corriere di Vercelli. Niente da fare. Il 10 Arcuri comunica la risoluzione del contratto con Italyam dopo 3,678 milioni di litri di gel distribuiti con grossa fatica e gravi ritardi e 20,7 milioni di euro spesi.