"Da settembre non dipenderemo più dall’estero", aveva annunciato a maggio parlando delle mascherine. E invece per lentezze burocratiche e difficoltà tecniche la corsa contro il tempo è andata persa e dipendiamo ancora dalle importazioni. Quasi tutte dalla Cina

Domenico Arcuri
Le ultime parole famose risalgono a maggio, il 27 del mese, quando la stagione dei lutti e della paura sembrava volgere alla fine e il mondo intero si illudeva di poter convivere con il virus fino alla inevitabile vittoria. «A settembre ci saranno sul mercato solo mascherine italiane», scandì Domenico Arcuri davanti ai deputati della commissione Affari sociali della Camera, con il tono solenne delle dichiarazioni definitive, parole che non lasciavano spazio a dubbi e obiezioni. E nessuno obiettò, infatti. Del resto, solo poche settimane prima, lo stesso Arcuri non aveva forse annunciato che sei aziende italiane entro l’autunno avrebbero rifornito il Paese di 660 milioni di mascherine pagate dallo Stato?

«È un primo passo importante», commentò il commissario all’emergenza nominato dal governo di Giuseppe Conte evocando, di lì a qualche mese, la fine della dipendenza dalla Cina, per settimane fornitore unico, o quasi, degli strumenti indispensabili per frenare l’avanzata del virus.

I numeri della nuova emergenza, quelli di questi giorni, disegnano però uno scenario ben diverso da quello evocato a maggio da Arcuri. La macchina si è messa in moto, ma la produzione made in Italy riesce a coprire solo la metà, forse meno, del fabbisogno nazionale. «Siamo partiti da zero e già adesso riusciamo a produrre venti milioni di mascherine al giorno», ha detto Conte nella conferenza stampa di domenica 18 ottobre, subito dopo l’approvazione del nuovo decreto anti-Covid.

Una frase che suona come l’involontaria ammissione di un fallimento. Nei giorni in cui l’Italia si scopre impreparata di fronte alla seconda ondata di contagi, non tornano neppure i conti delle mascherine. L’autarchia annunciata da Arcuri per settembre resta ancora un traguardo lontano. Prima dell’estate, gli studi più attendibili, come quello del Politecnico di Torino, stimavano che una volta archiviato il lockdown, nella cosiddetta fase due la domanda di mascherine avrebbe toccato i 35 milioni al giorno, oltre un miliardo di pezzi al mese. Una cifra da aggiornare al rialzo alla luce degli ultimi decreti governativi che hanno esteso e rafforzato l’obbligo di protezione alle più diverse circostanze.

Si arriva così verso quota 40 milioni, quanto basta per soddisfare le necessità quotidiane di scuole, aziende, strutture sanitarie o semplicemente dei cittadini che usano la mascherina per uscire di casa. Intanto l’import non accenna a diminuire. Secondo i calcoli di Assosistema, che fa parte di Confindustria, tra marzo e luglio sono arrivate in Italia maschere di protezione per un valore di circa 2,5 miliardi di euro, quasi tutte di provenienza cinese.

EMERGENZA INFINITA
Insomma, i numeri parlano chiaro: per raggiungere davvero l’autosufficienza, la capacità produttiva del nostro Paese andrà quantomeno raddoppiata. Nel frattempo l’oggetto simbolo di questi tempi di pandemia, il bene di consumo più diffuso nelle case degli italiani, ha innescato un volano d’affari colossale. Non c’è più il far west delle prime settimane dell’epidemia, quando il governo, così come le regioni, si è spesso affidato a produttori improvvisati se non a veri e propri truffatori. I prezzi, per settimane in balia della speculazione, ora difficilmente superano i cinquanta centesimi al pezzo per le mascherine chirurgiche, quelle di gran lunga più diffuse.

Documenti alla mano, però, si scopre che il business viene ancora in buona parte gestito seconda una logica dell’emergenza. Dai grandi gruppi industriali fino alle botteghe artigianali, sono centinaia le aziende che nei mesi scorsi hanno ricevuto il via libera del ministero della Sanità alla produzione e alla vendita di “maschere facciali a uso medico”. Un’autorizzazione cosiddetta “in deroga” rispetto alle procedure ordinarie. In poche parole significa che è sufficiente una semplice autocertificazione, accompagnata dai risultati di alcuni test di laboratorio, con cui il produttore dichiara la conformità delle sue mascherine chirurgiche a una serie di requisiti tecnici. I controlli, fin qui tutt’altro che frequenti, scattano solo a posteriori. Lo stesso vale per i dispositivi di protezione individuale, cioè le maschere di tipo filtrante (Ffp2 e Ffp3). In questo caso è l’Inail a decidere, sempre sulla base della documentazione presentata dall’imprenditore.

Le nuove procedure sono state introdotte con il decreto “Cura Italia” di metà marzo. L’obiettivo, allora, era fare presto, colmare nel più breve tempo possibile il colossale deficit della produzione nazionale rispetto a quanto era necessario per proteggere la popolazione da un virus sconosciuto e pericolosissimo. Dopo sette mesi non è cambiato nulla. E nulla cambierà anche nel futuro prossimo, per effetto del decreto del governo che ha prorogato lo stato di emergenza fino al 31 gennaio.

LA CORSA CONTRO IL TEMPO
Nel lungo elenco delle aziende che fabbricano, oppure importano, mascherine e dispositivi di protezione, si trova di tutto. Ci sono grandi gruppi come Fca e la Luxottica di Leonardo Del Vecchio, ma anche meccanici, gommisti, fabbriche di materassi o confezioni per gioielli. La multinazionale dell’auto presieduta da John Elkann ha riconvertito parte degli stabilimenti di Mirafiori, a Torino, e di Pratola Serra, in provincia di Avellino. L’obiettivo dichiarato è quello di produrre 27 milioni di pezzi al giorno, ma per raggiungere questa velocità di crociera saranno necessarie ancora diverse settimane di rodaggio. A settembre, nel primo mese di attività, le due fabbriche hanno sfornato, in totale, circa 100 milioni di mascherine. Luxottica invece ha inaugurato un nuovo impianto non lontano dalla storica sede del gruppo ad Agordo, nel Bellunese. Una volta a regime, le quattro linee produttive messe a punto grazie a un accordo con il gruppo Angelini saranno in grado di confezionare circa 3 milioni di dispositivi.

Insomma, le macchine sono partite, ma serve tempo per spingere i motori al massimo, al contrario di quanto sosteneva Arcuri a maggio. Secondo il commissario per l’emergenza Covid, Fca e Luxottica sarebbero state in grado di produrre 31 milioni di mascherine al giorno già partire da giugno e quindi, diceva, « al più tardi alla fine di settembre, non dipenderemo più dall’importazione dei dispositivi da altri luoghi del mondo». Parole al vento. Speranze destinate a restare tali per via dei tempi tecnici necessari a realizzare partendo da zero le nuove fabbriche.

Poi ci sono gli incidenti di percorso. Come quello che ha visto coinvolta un’azienda tessile del Milanese, la Marobe di Vanzaghello, che ad aprile aveva siglato con il commissario all’emergenza un contratto da 81 milioni di euro per la fornitura di 174 milioni di mascherine. La produzione è partita a giugno, ma a metà luglio l’impianto si è fermato, le consegne sospese e 200 dipendenti sono rimasti a casa senza stipendio. Come si spiega lo stop? Secondo quanto risulta a L’Espresso, un test di laboratorio avrebbe segnalato un’anomalia nei materiali utilizzati dall’azienda lombarda. C’era il rischio concreto che l’appalto saltasse, ma dopo oltre due mesi di tira e molla il problema è stato risolto e ai primi di ottobre la fabbrica è infine ripartita. La produzione, però, è in grave ritardo rispetto alla tabella di marcia programmata. Mancano all’appello decine di milioni di mascherine. Per recuperare, il contratto in scadenza a novembre dovrà quindi essere prolungato.

È una corsa contro il tempo. Una maratona all’inseguimento di un virus che sembra correre molto più velocemente rispetto a una burocrazia stanca e dal passo incerto. Tra gli imprenditori, però, non manca chi ha saputo adattarsi a gran velocità al mondo nuovo sconvolto dalla pandemia. È il caso degli Scagliarini, industriali bolognesi che a giugno hanno quotato in Borsa l’azienda di famiglia, la Gvs, incassando quasi 500 milioni di euro. A convincere gli investitori sono state le brillanti prospettive di un gruppo che nei mesi dell’epidemia ha parzialmente riconvertito il business puntando mascherine Ffp2 e Ffp3. Cambiare rotta non si è rivelato granché complicato visto che la specialità della casa era già la produzione di sistemi filtranti destinati alla sanità e all’industria automobilistica. Una volta sbarcato sul listino, il titolo Gvs ha preso il volo. Collocate a metà giugno al prezzo di 8,15 euro, il 20 ottobre le azioni hanno superato quota 13 euro con un guadagno del 60 per cento in quattro mesi, mentre la Borsa di Milano nello stesso periodo ha perso circa l’1 per cento. Un rialzo da record spinto dal business delle mascherine, che hanno messo le ali anche ai profitti del gruppo. Nel primo semestre dell’anno l’utile di gruppo è quasi raddoppiato, rispetto allo stesso periodo del 2019: da 18 a 32 milioni di euro su 146 milioni di ricavi.

TUTTO IN DEROGA
L’ascesa di Gvs rappresenta un caso limite, ma basta, e avanza, per spiegare la nuova corsa all’oro di migliaia di imprenditori nostrani, pronti a cavalcare l’onda degli affari legati alla gestione e al contrasto della pandemia. Tutti in coda, sin dai primi di marzo, per ottenere il via libera a produrre o a importare mascherine. L’Inail ha ricevuto circa 7mila richieste, di cui oltre 600 sono state accettate. E l’Istituto superiore di Sanità, incaricato di vagliare i dossier per conto del ministero, ha pubblicato sul suo sito una lista di 615 attestazioni rilasciate. Nel caso delle mascherine chirurgiche, le domande di autorizzazione sono accompagnate dai risultati dalle prove di laboratorio che confermano il rispetto dei requisiti stabiliti da una norma europea, la UNI 14683:2019. Sono test fondamentali per garantire il rispetto degli standard di sicurezza per i consumatori. Si tratta per esempio di stabilire l’efficienza di filtrazione batterica, ovvero in che misura il materiale utilizzato per fabbricare la mascherina sia in grado di fare da barriera ai microrganismi. È inoltre richiesto il superamento di prove che misurano la respirabilità e la pulizia microbica.

In questi mesi, con l’avanzare della pandemia, si sono moltiplicate le aziende specializzate che tra i tanti servizi offrono anche le prove di conformità per i dispositivi medici e quelli di protezione. Non tutti i laboratori sono uguali, però. Solo quattro in Italia sono in grado di esibire, per tutti i test, la certificazione rilasciata da Accredia, una sorta di marchio di qualità riconosciuto in tutta Europa. Poco male, a quanto sembra. Interpellato in proposito, l’Inail spiega che «il laboratorio che rilascia il rapporto di prova può anche non essere accreditato». Mentre l’Iss, sul sito web dedicato, ribadisce che non tocca all’Istituto verificare il prodotto, ma solo la regolarità della documentazione presentata.