In una chiacchiera radiofonica con Massimiliano Panarari mi è recentemente capitato di ragionare sulla generazione Mediaset dei politici. Una nidiata estesa che va dai casi conclamati - Renzi, Salvini - ad altri solo culturali, figli naturali di Berlusconi senza neanche averlo sfiorato, fino a Rocco Casalino, che proviene com’è noto dai lombi del Grande Fratello I, la stele di Rosetta dei reality, il momento preciso in cui la comunicazione italiana ha stabilito una sorta di estensione del celebre principio di Warhol: nel nostro Paese, ognuno può essere eletto per quindici minuti.
Tra questi figuri per cui un’ospitata a “La Sai L’Ultima” equivale alla guida di un partito, si staglia l’ex portavoce di Giuseppe Conte Uno e Bis, il quale esonda da qualche giorno su tutti gli schermi per presentare il suo libro, “Il Portavoce”, che per circa 800 pagine ne narra l’infanzia, e si conclude con alcuni dettagli residuali sulla sua carriera politica. La lettura de “Il Portavoce” è consigliata a chi voglia meglio ritenere il pastiche emotivo/antropologico/autoritario che ha generato una figura comunque decisiva della nostra storia recente.
Specie ora che i Cinque Stelle ripuliti ambiscono alle nozze con la sinistra moderata e l’avvocato del popolo è diventato, forse persino suo malgrado, un incrocio tra Di Vittorio, Gramsci e una bacheca de l’Unità. Davanti alle telecamere, Casalino risulta titubante, preda com’è di un italiano spesso rudimentale dovuto alla sua lunga permanenza in Germania. Ma suscita una sorta di empatia, come direbbe lui, quasi intangibile. Quasi, perché qualche giorno fa è stato ospite di Radio Capital, nel programma degnissimamente condotto da Edoardo Buffoni e Mary Cacciola.
E ha colto l’occasione per distillare non tanto il proprio rancore ottuso e inestinguibile, quanto soprattutto il proprio analfabetismo culturale che lo rende, ad oggi, ancora pericoloso. Casalino ha infatti attaccato con parole faticose e pedestri («Diceva cose sbagliate di noi», «Il peggior giornalista…») l’uomo che di Capital era stato fino alla sua scomparsa la bandiera: Vittorio Zucconi. I suoi interlocutori hanno reagito come meglio non potevano.
Ma la sola idea di perpetrare un affronto del genere proprio lì, in quel contesto, su quelle onde che anche il vostro scriba ha condiviso e amato, attiene al mondo del bullismo, per giunta postadatato, più o meno inconsapevole. Casalino ha una sola attenuante: non sapeva, tecnicamente, quello che diceva. Non aveva contezza di come debba essere la stampa, e cioè libera e originale proprio come Zucconi. Che peraltro del suo MoVimento aveva capito tutto da subito, identificando nel populismo arrembante i prodromi per una triste parabola dorotea, seppure con punte di violenza verbale come quella testé raccontata.
Proprio perché non è colpa sua, proprio perché questo dà una botte adulterata dal fanatismo e dall’ebbrezza di potere, qualcuno dovrebbe dire al portavoce quel che neppure gli altri figli della generazione Mediaset hanno mai capito: il giornalismo non è propaganda. E, anche, che non si irridono le persone perbene dopo la loro dipartita. Da “Il Portavoce” si evince che Casalino ha studiato poco. Cominci. Poi, appena può, chieda scusa.
Giudizio: Il portaniente