Lo diceva ironicamente Giuseppe Pella. E ancora oggi rimane il problema di una classe dirigente che punta sui "marziani" invece di premiare lo scrupoloso adempimento del dovere

C’è un bellissimo dialogo nella serie televisiva The Crown tra il principe Filippo e la Regina Elisabetta. Un dialogo involontariamente politico. Il duca di Edimburgo ha appena voluto incontrare di persona gli astronauti dell’Apollo 11 di ritorno dalla luna e si è accorto con un senso di delusione che i loro racconti non sono così immaginifici come si aspettava e le loro persone sono più ovvie di come gli piaceva credere. «Mi aspettavo che fossero dei giganti, degli dei. In realtà erano solo tre uomini pallidi e col raffreddore, tre ometti. Non hanno talento né immaginazione», dice a Elisabetta. La quale risponde invece: «Possiedono le qualità che li hanno resi perfetti per il loro lavoro. Hanno senso del dovere, modestia e affidabilità». Lui ribatte: «Mancano di originalità, sono bravi come astronauti ma deludono come esseri umani». E lei, di rimando: «È proprio questo che li rende perfetti per gestire una situazione critica».


L’una cerca la regolarità perfino all’indomani della più straordinaria delle imprese. L’altro pretende che quella stessa straordinarietà si riverberi piuttosto nel carattere quanto più possibile eccentrico e irregolare degli uomini che sono stati chiamati a compierla. Una è votata alla banalità del bene, chiamiamola così. L’altro è pronto a catechizzare come meschino ogni cedimento all’ovvio. Per Filippo l’ordinaria umanità di quei tre astronauti è una delusione, quasi una caduta. Mentre per la regina è il vero segno della loro grandezza. Il fatto è che lui insegue l’eccezione, lei invece coltiva la regola. E nell’opporsi, i due finiscono per riassumere un dilemma politico che da anni e anni (da sempre, forse) ci tiene in ambasce.


Ora, la questione che si pone è se appunto la politica debba essere estemporanea oppure tenacemente ripetitiva ancorché tediosa; se è meglio che essa si nutra di eccezionalità oppure che si dedichi a coltivare scarne consuetudini e prassi segnate più che altro dalla regolarità delle loro mansioni. In una parola, se cerchiamo un profeta che ci incanti oppure un buon amministratore che faccia quadrare i nostri conti.


L’argomento, si può capire, riguarda anche il nostro discorso pubblico. Già, perché anche i nostri palazzi appaiono divisi tra chi pensa che occorra più che altro compiere il proprio dovere obbedendo a regole e abitudini collaudate, e chi invece in quelle regole ed abitudini coglie il limite delle proprie fantasie e dei propri sogni di gloria.


In un certo senso Draghi è un po’ come Neil Armstrong e i suoi colleghi. Fa e non dice. E quando si trova a dover dire qualcosa lo fa in modo scarno, senza fronzoli, letterariamente disadorno, politicamente assai poco aulico.


Ma il resto del circo politico di casa nostra invece ragiona piuttosto come il duca di Edimburgo. Ama pavoneggiarsi, lavora di fantasia, affida alle parole il compito di riempire con le loro evocazioni l’immaginazione popolare. E soprattutto considera assai disdicevole il parlare nell’arida prosa della routine.


Lasciamo da parte, per un attimo, la qualità delle persone e il valore delle loro idee. Il fatto è che tra gli astronauti e Filippo, e poi tra la Regina e suo marito, c’è come un diverso modo di intendere la vita (e la politica). Accomodarsi dentro il suo grigiore, contando che lo scrupoloso adempimento dei piccoli doveri quotidiani ne riscatti la mediocrità. Oppure invece dipingerla di colori più vivaci, confidando che, una volta lanciata in orbita l’immaginazione dei protagonisti, ne discendano per tutti conseguenze di grande, e magari straordinaria, portata.


L’argomento, è ovvio, ci riguarda da vicino. La politica italiana infatti, storicamente, è sempre stata un luogo di grandi fantasie - nel bene e nel male. Per sua natura, essa sembra propendere più dalla parte di Filippo che da quella di Elisabetta. Siamo abituati a illuderci che la grandiosità dei personaggi politici e il carattere aulico delle loro parole ci assicurino il maggior beneficio pubblico (e anche un certo divertimento privato). E abbiamo finito per conservare questa aspettativa anche quando i personaggi in questione hanno perso la loro grandiosità e le loro parole si sono fatte assai più povere e banali. Ci piace stare dalla parte della prosopopea anche quando non ne vale la pena. E ci sembra che la quotidianità, la manutenzione, la procedura siano solo la piccola ombra della grande politica.


Eppure dovremo abituarci, prima o poi, a non considerare più la politica come un monumento a se stessa. Dirci che, anzi, è proprio lo scrupoloso adempimento del dovere e della sua routine a racchiudere la maggiore fantasia e a nascondere perfino qualche tratto di grandiosità. E ammettere che per conquistare la luna che oggi andiamo cercando ci sarà bisogno di celebrare i valori oscuri della diligenza, l’ingrata fatica delle piccole cose, la prosa del giorno per giorno.


Un presidente del consiglio ormai dimenticato, Giuseppe Pella, osservò a suo tempo con ironia che un paese non aveva tanto bisogno di aquile, ma semmai di brave galline che facessero il loro uovo tutti i giorni. Forse non aveva tutti i torti.