Il suo Atlante è diventato un bestseller. Perché mostra soltanto attraverso infografiche i diritti mancati nel mondo. Ma per Joni Seager è solo l’inizio: «La rivoluzione ora è la solidarietà. Per sconfiggere matrimoni forzati e violenza domestica»

Le mappe come strumento politico, come forma di accesso democratica e universale alla conoscenza. E in particolare, come piattaforma di denuncia e consapevolezza sulle condizioni di vita delle donne nel mondo. Nei giorni dello sdegno per la decisione del governo turco di uscire dalla convenzione internazionale firmata proprio a Istanbul per la difesa dei diritti delle donne, parlare dell’ “Atlante delle Donne” torna quanto mai attuale.

 

L’opera di Joni Seager, geografa femminista e professore alla Bentley University di Boston, giunta ormai alla quinta edizione, si rivela uno piattaforma sempre nuova e necessaria per incidere la realtà e promuovere il cambiamento della condizione femminile, partendo dalle differenze e dalle ricorrenze di problemi e risposte in tutto il mondo. Scorrendo le 200 visualizzazioni raccolte nel libro, pubblicato in Italia da add editore, viene segnata infatti internamente la strada ancora da compiere nelle case e nelle istituzioni di tutto il mondo, perché la parità non resti un argomento di discussione ma diventi la normalità.

 

È di cambiamento possibile infatti che parla l’autrice, intervistata dall’Espresso in occasione dell’incontro che la vedrà impegnata il 31 marzo in un dialogo con Cathy La Torre, organizzato dal Circolo dei lettori in collaborazione con “Torino città per le Donne”, con il contributo di Fondazione Cariplo, nell’ambito delle rassegne “Desiderare il mondo. Linguaggi, corpi, icone” e “Io amo leggere-Voci di donna”. Seager, sorridendo dallo schermo dall’altra parte dell’Oceano, risponde «da geografa» sul ruolo che possono avere le mappe e le visualizzazioni nell’affrontare un tema come quello delle differenze e delle violenze di genere.

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«Avrei potuto scrivere un libro, un saggio, un approfondimento testuale: ce ne sono moltissimi su ognuno degli argomenti esplorati nelle infografiche dell’Atlante. Ma da geografa, ho pensato fin da subito che la conoscenza e l’apprendimento di tutte quelle informazioni sarebbe stato enormemente facilitato dalla mappatura. Penso che le mappe, queste mappe, abbiano tre fondamentali punti di forza».

 

Quali?

«Primo: sono democratiche. Le mappe sono un modo per comunicare a tutti; anche a chi non legge, non fa ricerca, non sta in università, o non ha abitudine allo studio. Guardando una mappa chiunque può facilmente essere attirato da un dettaglio: perché ad esempio quel Paese è verde mentre gli altri no? La curiosità è attivata, e inizia il percorso di conoscenza e di approfondimento. Le visualizzazioni sono un punto d’accesso importante specialmente per i giovani. Molte e molti insegnanti mi scrivono che l’ “Atlante delle Donne” è stato per loro uno strumento eccezionale nell’attivazione in classe, anche con i bambini. Il secondo punto di forza riguarda la possibilità delle mappe di mostrare i pattern, i modelli e le tendenze, le differenze o le similitudini. E quindi di riflettere sulle comparazioni. Mi interrogo, per dire, vedendo su una mappa che Italia e Turchia hanno colori simili (come avviene, ad esempio, relativamente alla quantità di tempo dedicata alle faccende domestiche dalle donne, lavoratrici e non – tre ore più rispetto agli uomini, contro i 47 minuti della Norvegia). L’ultimo aspetto è la flessibilità: che un dato riguardi una piccola regione o l’intero globo, posso espandere o restringere le mappe aggiungendo valore alla nostra comprensione del mondo, con uno strumento versatile, che tiene insieme gli aspetti generali e quelli particolari».

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Le visualizzazioni proposte nell’“Atlante delle Donne” tracciano infatti un percorso, una proposta di lettura del mondo da un angolo e con uno sguardo molto specifici. È un modo per pensare in qualche modo alla stessa cartografia, oggi, come un’arte dell’orientamento di fronte alla mole di informazioni dentro cui altrimenti rischiamo di perderci?

«In questi anni abbiamo assistito alla proliferazione delle auto-mappature funzionali, delle mappe che per esempio riuniscono tutte le librerie di un territorio, o i negozi. Le informazioni di servizio oggi sono veramente facili da mappare. Ma questo non è un atlante funzionale. È un libro d’autore, che usa le mappe per veicolare conoscenza, come dicevamo prima. Sono diffidente rispetto ai big data, alle grosse macinazioni quantitative. La vita è più sfumata, e spesso un piccolo esempio, granulare, racconta più di una precisa media statistica».

 

La prima edizione dell’Atlante è del 1986. Cosa è cambiato da allora?

«Di sicuro l’arrivo di internet ha resto la disponibilità e la diffusione di dati e fonti enormemente più ampia, e quindi la ricerca più semplice. Quando abbiamo iniziato, il solo reperimento delle informazioni per le mappe era faticosissimo. Allo stesso tempo la proliferazioni di fonti aumenta il peso su noi come utenti, e ricercatori, nella doppia, tripla verifica di tutte le informazioni che troviamo. Si tratta di controllare le organizzazioni che possono avere nomi che suonano ufficiali, e procedere con molta attenzione nella scelta delle fonti. Il progresso che abbiamo vissuto non riguarda però solo l’accesso in termini generali ai dati. Ma anche e soprattutto lo specifico di genere, la possibilità di avere uno sguardo più lucido sulla realtà delle donne nel mondo. Trent’anni fa pochissime rilevazioni statistiche erano realizzate considerando la variabile maschile/femminile. Tuttora manca in molti database di istituzioni internazionali e nazionali».

 

Quasi che le donne abbiano meno rilievo proprio a partire dagli stessi dati su cui si fondano le scelte di politica pubblica e le conoscenze…

«È così. Nel 1986, per dire, l’Organizzazione mondiale della sanità non raccoglieva dati sulla violenza domestica. Ora ovviamente lo fa. La banca mondiale, la Fao (Food and Agriculture Organization), oggi sono portate a segmentare le informazioni anche sulla differenza di genere. E questo grazie alle organizzazioni femministe e alla curiosità e alle richieste di ricercatrici come noi. Il cambiamento c’è, si sente. Penso ad esempio alla consapevolezza che sta aumentando sul lavoro femminile non pagato dedicato alla cura e alla casa. Su questo stiamo vivendo un forte slittamento nella concezione e rappresentazione comune del problema, una consapevolezza che fino a poco fa mancava completamente. Ma ancora mancano alla visione molti aspetti. Gli esempi sono innumerevoli. Uno? Le leggi sull’aborto. È impossibile trovare informazioni comparabili sulla realtà dell’accesso all’aborto per le donne nel mondo o negli stessi Stati Uniti. Ci sono Stati dove è ufficialmente garantito come diritto ma concretamente impossibile o quasi perché sono stati chiusi i consultori e gli ambulatori dove poter esercitare questo diritto. La realtà della vita delle donne non è quindi riflessa veramente in quell’informazione».

 

È un problema molto forte anche in Italia, dove l’estensione oltre misura dell’obiezione di coscienza nei reparti di ginecologia degli ospedali e la mancata promozione dei consultori femminili su tutto il territorio rendono spesso il percorso per l’interruzione volontaria di gravidanza dolorosissimo per le donne. Fra gli altri dati che avete raccolto e mappato a livello internazionale nell’Atlante, ce ne sono alcuni che la colpiscono particolarmente, pensando al tempo che è trascorso dalla prima edizione del libro?

«Sono sempre scioccata dal livello e dalla costanza del problema della violenza. Parlo di violenza domestica ma anche di stupri. E in particolare delle leggi che tuttora in molti Paesi consentono agli stupratori di evitare la pena se sposano la donna che hanno stuprato. È talmente inaccettabile. E poi i matrimoni infantili, che riguardano anche i ragazzi ma in minima parte. La stragrande maggioranza delle unioni forzate stringe bambine di 10/12 anni, un’età per la quale non è pensabile parlare di consenso. Sì quindi diciamo l’ubiquità e la pervasività della violenza nella vita delle donne. Ci sono anche cambiamenti positivi però, è importante ricordarli. E su tutto metterei la forza e l’estensione delle organizzazioni femminili e femministe. Dalla Polonia all’Irlanda, c’è una interconnessione fra gruppi di donne che sta portando a una sempre maggiore consapevolezza, alla solidarietà, e alla prospettiva quindi di cambiamenti duraturi».

 

La densa agenda di Seager, nota in ambito internazionale per il suo lavoro sulle politiche ambientali femministe, sui costi ambientali delle forze armate e sul cambiamento climatico, tutti argomenti per i quali è stata anche consulente delle Nazioni Unite e dell’Unesco in numerosi progetti, la porta ad altri impegni. Di fronte, restano le 200 infografiche dell’Atlante, e il loro racconto del mondo attraverso l’accesso alla contraccezione e alla salute, la rappresentanza femminile nelle istituzioni, il divario retributivo e la disuguaglianza nel carico domestico, la violenza e la ribellione.