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Maylis de Kerangal: «Uno scambio di cuori ci salverà»

La libertà? Un’idea. L’uguaglianza? Un’aspirazione. La fratellanza, invece, è fatta di carne. E proprio ora che il contatto fisico ci è impedito, è dai corpi che dobbiamo ripartire. Per ritrovare la nostra essenza umana

C’è un gruppetto di ragazzi surfisti, due maschi e una femmina, su una spiaggia battuta dal vento d’inverno. Si mettono addosso le tute speciali, poi le mute. Per farlo hanno bisogno di aiutarsi a vicenda. Toccano quindi i corpi l’uno dell’altro, fra gesti pratici, carezze e abbracci. Poi affrontano le onde. Ma il caso vuole che sulla via del ritorno accada un incidente, e uno di loro muore. Il suo cuore verrà trapiantato nel corpo di un’altra persona.

 

La scena è tratta dal romanzo dal titolo “Riparare i viventi”, pubblicato anni fa in Francia (in Italia da Feltrinelli). Quel titolo è spesso citato dai politici e commentatori d’Oltralpe per dire: dobbiamo prenderci cura delle persone. E, in fondo, il libro, così come gli altri della scrittrice (“Nascita di un ponte”, “Corniche Kennedy”, “Lampedusa”) parla di fratellanza, non solo per la scena dell’aiuto reciproco fra i surfisti ma perché il cuore, oltre a essere metafora delle emozioni, è oggetto di un dono gratuito.

 

Per spiegare il motivo per cui siamo tutti fratelli e sorelle Maylis de Kerangal (53 anni, il debutto a 33 anni e importanti premi vinti) parte dalla sua esperienza di scrittrice. Cita un altro libro, “Un mondo a portata di mano”, dove racconta un gruppetto di giovani artisti che lavorano insieme, e dice: «Non solo costruire un ponte o trapiantare un cuore richiede uno sforzo collettivo. Sono convinta che pure l’arte e la letteratura non sono gesti di geni solitari ma dialogo e cooperazione».

 

Precisa: «La connessione con gli altri, nella creazione artistica è fondamentale ed è sempre presente». Riflette: «La fratellanza non è componente di un’ideologia ma un sentimento. E va oltre l’amicizia e la solidarietà. Fraternità significa condividere le cose della vita». Si ferma per un attimo. Riprende: «Per questo motivo nei monasteri le persone si chiamano fra di loro fratelli e sorelle». Sorride: «Guardi che l’idea di avere molte cose o tutto in comune, porta molto lontano e ha implicazioni radicali». La domanda è quali? Risposta: «Prendiamo le tre parole d’ordine della Rivoluzione francese, presenti peraltro nello stemma della Repubblica. La Libertà è una rivendicazione politica e filosofica, con un elemento metafisico. Lo stesso vale per l’Uguaglianza, in conflitto con la Libertà. La Fraternità invece appartiene a un diverso ordine di discorso. Non è un’astrazione, è carnale. La si vive attraverso i corpi delle persone, il corpo dell’Altro».

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Aggiunge: «Alla domanda, che cosa è un essere umano, la risposta è fratello e sorella. E trovo bello che questa cosa sia iscritta nello stemma appunto di uno Stato». Intanto stiamo davanti allo schermo del computer, ognuno a casa sua, anziché in un caffè parigino dove la comunicazione passa non solo per parole e sguardi sfocati ma anche per il linguaggio del corpo. Da un anno la carnalità intesa come contatto fisico è stata in gran parte eliminata dal nostro vissuto.

 

De Kerangal riflette: «Mi chiedo che cosa sia successo durante quest’anno. Penso a una persona che si trova sola nella sua piccola cella, nell’abitazione, davanti a uno schermo e manca tutto il resto: la dimensione collettiva. Però, mi rispondo: dall’altro lato la tecnologia conserva e perpetua i vincoli fra le persone. Ed è interessante vedere quanto alcuni di noi abbiano cercato di averne più numerosi e più forti di prima. Il bisogno dei legami è stato, paradossalmente, valorizzato, dato che la pandemia ha fatto capire quanto abbiamo necessità di rapporti fisici proprio nel momento in cui la gente è estremamente fragile e depressa, perché manca l’Altro. Può darsi che alla fine di questa vicenda il sentimento di fratellanza sarà addirittura rinvigorito».

 

Tace, poi si chiede di nuovo: «Cosa è la fratellanza? È avere con l’Altro un legame così importante da considerarlo mio fratello o sorella». Obiezione: l’altro è anche una minaccia, specie oggi. De Kerangal risponde risoluta e velocissima: «È vero, abbiamo ubbidito a questa minaccia ma il desiderio non è spento, né sono spente le passioni. Ho fiducia». Torna a parlare di “Riparare i viventi”. «L’ordine di fratellanza in quel testo è l’atto che fa la madre del ragazzo morto, il dono del cuore».

 

Spiega: «È un momento di dolore terribile. Normalmente negli attimi come questo ci si rinchiude nel privato. Lei invece si apre alla comunità. È un’azione radicale, una specie di “collettivizzazione” della ricchezza. Lei cede alla comunità un organo prezioso. In questo senso la fratellanza ha a che fare con la condizione umana, essere consci del fatto che la morte può colpire in ogni momento e che la condizione dell’essere mortale può far prendere la decisione di restituire alla comunità il cuore del figlio».

 

De Kerangal ha studiato antropologia. Conosce bene il “Saggio sul dono” di Marcel Mauss sullo scambio dei doni appunto come prassi comunitaria. Ogni dono implica poi il “controdono”. «Però nel caso del dono di un organo non c’è possibilità di reciprocità, e questo fatto crea un problema. È qualcosa di difficilmente concepibile avere la possibilità di guarire grazie al dono di una parte del corpo altrui, ma nello stesso tempo non poter donare qualcosa in cambio, visto che il dono degli organi è anonimo».

 

Un senso di colpa? «Certo. Ma non solo. Ho incontrato persone che mi hanno detto: non ho potuto dire grazie e questa è una violenza». Insomma la fraternità implica pure situazioni ambivalenti, difficili e non del tutto pacifiche. La frase “Riparare i viventi” fa venire in mente il concetto ebraico del Tikkun ha-Olam, la riparazione del mondo. E allora, stiamo parlando di una metafora? Riparare un vivente, per riparare il mondo? «C’è anche questo elemento», risponde de Kerangal, «ma il titolo è una citazione delle parole di una pièce di Anton Cechov, e forse ha più a che fare con l’aggiustare che con il riparare».

 

Riflette: «Lo scandalo della morte di un giovane, come lo ripariamo?». Puntualizza: «Ci sono tanti saggi sulla letteratura che ripara il mondo. Ma io mi guardo da ogni ideologia. Voglio conservare la libertà del poeta. Penso comunque che la letteratura è fatta per renderci inquieti, per destabilizzarci, per metterci all’erta e farci capire che non tutto è in nostro potere». Un esempio? «Cosa abbiamo scoperto durante l’anno della pandemia? Abbiamo scoperto la nostra fragilità. Trovo insopportabili i consigli di chi di fronte alla morte dice ai famigliari del dovere morale di essere forti. La morte è parte della vita. Ma niente rimpiazza una vita spenta». Riflette: «Dobbiamo vivere con quello che abbiamo amato e tenerlo presente».

 

Quindi, dobbiamo conservare una memoria per proiettarla nel futuro? E il futuro è l’agire collettivo e solidarietà? De Kerangal insiste a citare l’esempio del trapianto. «Ho raccontato una storia di salvezza. È stato salvato qualcosa dalla morte: il cuore del ragazzo. E questo è anche un atto di creazione di una comunità solidale. Un’altra persona ha avuto un avvenire. Una donna che ha perso il figlio mi aveva scritto che il mio libro le ha fatto un effetto benefico. Ecco, la letteratura crea sorellanza. In questo senso può riparare, talvolta».

 

All’annotazione per cui la letteratura è un esercizio di empatia, de Kerangal ride, fa un gesto come se volesse abbracciare l’interlocutore e dice: «La letteratura è empatia, è entrare nella pelle dell’altro. Anche i romanzi più refrattari, perfino quelli che in apparenza vogliono trasmettere il sentimento per cui l’autore detesta l’umanità (in Francia c’è una ricca tradizione di romanzieri con postura anti-empatica, da Céline a Michel Houellebecq, aggiungiamo noi) trasudano una certa empatia».

 

Ne siamo sicuri? De Kerangal spiega: «È fondamentale la nozione di contatto. L’empatia è contatto di pelle, dove i sentimenti non aleggiano nell’aria ma si esprimono nei gesti delle mani, nel movimento delle gambe, nel corpo dei protagonisti».

 

Resta, per concludere, la domanda sui migranti. Fra i libri di de Kerangal c’è, come si diceva, “Lampedusa”, una specie di recita bellissima, quasi una poesia in forma di prosa, un cui la vicenda del naufragio del 3 ottobre 2013 con 368 morti si intreccia con l’immaginario letterario e cinematografico dell’isola. Cosa dobbiamo fare di fronte al dramma dei migranti? De Kerangal, una signora dai modi miti e amichevoli, alza la voce: «Dobbiamo riconoscerli come esseri umani, esattamente come lo siamo noi. Riconoscerli come fratelli e sorelle e non come stranieri con i quali non abbiamo niente in comune».

 

Tace, riflette: «Certo, ci sembra che noi, benestanti, dalla pelle bianca e che viviamo in paesi democratici siamo lontanissimi dalla gente che ha attraversato il mare, è scappata dalle guerre, ha subito persecuzioni. Ma bisogna riconoscere come più vicino ciò che è più lontano. O se vuole, portare soccorso significa semplicemente capire che avremmo potuto essere al loro posto». Continua: «Abbiamo parlato dell’empatia. L’empatia è un processo mentale, un cammino che porta a osservare noi stessi con lo sguardo altrui».

 

Ora, parlando del soccorso all’Altro è obbligatorio verificare l’ipotesi per cui, nella parabola del Buon Samaritano, è il ferito che aiuta il soccorritore e non il soccorritore il ferito: un rovesciamento dello sguardo appunto. Un lungo silenzio, e poi de Kerangal tocca una questione delicatissima: «Spesso penso alla postura un po’ megalomane e narcisista di coloro che scrivono dei migranti in termini di indignazione morale. Infatti l’indignazione quasi sempre paga sul piano mediatico e aiuta ad avere la coscienza pulita».

 

Di nuovo silenzio e ancora parole delicatissime: «Pensiamo a coloro che aiutarono gli ebrei durante la guerra. Gli ebrei erano considerati non umani. Ma c’erano persone che li riconobbero come fratelli. Però, in fin dei conti, sono stati gli ebrei che chiedevano di essere soccorsi ad aver soccorso i loro soccorritori. Come? Nel riconoscersi negli Altri in quanto parte della stessa umanità. Sto cercando di interpretare il pensiero di Emmanuel Lévinas (filosofo ebreo originario dalla Lituania e vissuto in Francia, Ndr.) quando parlava del rispecchiarsi e riconoscersi nel volto dell’Altro. Lévinas, filosofo dell’Alterità, diceva che talvolta quando un perseguitato guarda il suo persecutore o colui che lo può aiutare, gli fa il dono di riconoscerlo come suo Fratello. E così il migrante fa un regalo quando dice a chi si prende cura di lui: io ti do la possibilità di essere mio fratello».

 

Lungo silenzio, uno stringersi le spalle e una confessione: «Tutto questo mi mette brividi». Si congeda e chiude il collegamento.

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