Alcuni top manager, come promesso, si sono ridotti il compenso. Ma tra bonus e premi vari, nei mesi della pandemia la maggioranza dei capi delle grandi aziende quotate in Borsa ha visto aumentare la propria retribuzione

Nell’Italia travolta dalla pandemia c’è chi ha trovato un vaccino che funziona alla grande. È un vaccino speciale. Non uccide il virus, ma mette al sicuro la busta paga. Mica male, se si considera che di questi tempi, con il Pil che viaggia al minimo da un anno, milioni di lavoratori tirano avanti grazie alla cassa integrazione. Per non parlare di artigiani, commercianti e partite Iva, costretti ad arrangiarsi con i ristori di Stato. Ai piani alti delle aziende, invece, il terremoto innescato dal virus ha prodotto effetti molto più sfumati. Decine di manager al comando di grandi gruppi nazionali hanno visto aumentare il loro compenso anche nel 2020, l’anno nero dell’economia.


L’inchiesta dell’Espresso ha analizzato i dati di 55 società quotate in Borsa, un elenco che comprende tutte le banche più importanti e i campioni dell’industria made in Italy. Nomi come Eni, Telecom Italia, Intesa, Unicredit, Generali, Fca e molti altri ancora. Ebbene, i documenti da poco resi disponibili al pubblico insieme ai bilanci, rivelano che gli stipendi hanno viaggiato per lo più al rialzo. In più metà dei casi considerati, 30 su 55, la retribuzione del 2020 supera quella del 2019.

 

 



TUTTO IN FAMIGLIA
Il primo in classifica è Pietro Salini, amministratore delegato di Webuild, la più importante impresa di costruzioni italiana. Salini, che è anche l’azionista di comando del gruppo, nel 2020 ha guadagnato 6,1 milioni, circa 700 mila euro in più rispetto all’anno prima. Con l’acquisto di Astaldi, azienda concorrente giunta al capolinea del concordato, nei mesi scorsi Webuild ha completato un ambizioso piano di crescita e Salini è passato all’incasso. In aggiunta alla retribuzione fissa di 2 milioni, il manager-azionista ha ricevuto anche un superbonus da 3,9 milioni. È andata meno bene per i dipendenti del gruppo. Il loro stipendio, si legge nella relazione sulle retribuzioni appena pubblicata da Webuild, nel 2020 è diminuito in media dell’1 per cento a 73 mila euro. Una somma 81 volte inferiore al compenso del capo azienda. Nel 2019 il divario era inferiore: 71 a uno. Tutto regolare: il piano dei compensi è stato approvato l’anno scorso dall’assemblea dei soci, con il voto favorevole della famiglia Salini, 44 per cento del capitale, e del socio pubblico, la Cassa depositi e prestiti, che possiede il 18 per cento delle azioni. Hanno votato contro, invece, quasi tutti i grandi investitori internazionali, fondi, banche e assicurazioni che però, in totale, valgono solo il 4 per cento circa del capitale.

BANCHIERI AL TOP
Ben più sostenuto, invece, è stato il fuoco di sbarramento dei soci contro il maxi stipendio attribuito al nuovo amministratore delegato di Unicredit, Andrea Orcel, designato dal consiglio di amministrazione per prendere il posto del dimissionario Jean Pierre Mustier. Nel 2020, con il bilancio della banca in rosso per 2,7 miliardi, Mustier ha visto diminuire i suoi compensi del 25 per cento: 900 mila euro circa contro il milione e 200 mila euro dell’anno precedente. Orcel invece ha spuntato un compenso di 7,5 milioni all’anno. «È una retribuzione che serve ad attirare talenti di alto livello», si è giustificato il board dell’istituto presieduto dall’ex ministro Pier Carlo Padoan, spiegando che lo stipendio del nuovo amministratore delegato, per la maggior parte versato sotto forma di azioni della banca, è in linea con quello dei manager al vertice dei più importanti gruppi bancari internazionali.


Molti investitori istituzionali, però, non si sono fatti convincere e all’assemblea di giovedì 15 aprile hanno confermato la loro posizione contraria alla retribuzione di Orcel, un manager che in carriera ha già fatto parlare di sé per le controversie legate al suo stipendio, tanto da meritarsi il soprannome di «Ronaldo dei banchieri». Due anni fa, il Banco Santander, il più grande istituto spagnolo aveva cercato di ingaggiarlo con un’offerta da 52 milioni annui, tra titoli e cash. L’operazione sfumò perché Orcel chiese altri 50 milioni come rimborso dei bonus a cui era costretto a rinunciare lasciando il precedente incarico a capo della svizzera Ubs. Dalla Spagna arrivò un rifiuto e il manager rinunciò alla poltrona facendo causa al Santander.


Orcel a parte, il più pagato tra i banchieri italiani è il numero uno di Intesa, Carlo Messina, che però l’anno scorso ha guadagnato quasi il 30 per cento in meno rispetto al 2019: il suo compenso si è ridotto da 4,5 a 3,3 milioni. Nella graduatoria degli stipendi 2020 fanno un balzo in avanti altri nomi meno conosciuti come Massimo Doris, a capo di Banca Mediolanum, e Luigi Lovaglio, amministratore delegato di un istituto di media grandezza come il Credito Valtellinese (Creval). Nell’anno della pandemia, lo stipendio di Lovaglio, bonus compresi, è più che raddoppiato: da 880 mila a un milione e 800 mila euro. Se a questa cifra si aggiunge anche il valore delle azioni Creval ricevute in premio si arriva a quota 3 milioni. In pratica, il numero uno dell’istituto lombardo può vantare un compenso di poco inferiore a quello di Messina, a capo di una banca tra le più grandi in Europa con una raccolta 30 volte superiore a quella del Valtellinese. Va detto che Lovaglio ha firmato un bilancio più che positivo: nel 2020 gli utili del Creval sono passati a da 56 a 113 milioni, grazie soprattutto al taglio di costi e a bonus fiscali.


Viaggia in controtendenza, invece, il compenso di Massimo Doris. Per il lui il 2020 si è chiuso con un aumento dello stipendio superiore al 30 per cento. Nello stesso periodo l’utile di Banca Mediolanum, di cui è grande azionista anche Silvio Berlusconi, è diminuito del 23 per cento circa. Doris junior, che ha ereditato dal padre Ennio il posto di comando del gruppo finanziario di famiglia, è passato da 1,3 a 1,8 milioni. È rimasta invariata la retribuzione per la carica nel board dell’istituto, mentre sono più che raddoppiati i premi legati ai cosiddetti “sistemi di incentivazione”.

CAMPIONI DI BONUS
Questione di bonus, insomma. Funziona così: gli stipendi di amministratori delegati e direttori generali sono composti da una quota fissa e da una variabile. Quest’ultima viene calcolata sulla base di complessi parametri legati agli utili aziendali, ma non solo. Viene presa in considerazione anche la performance del titolo in Borsa e il raggiungimento di specifici obiettivi strategici, che comprendono, per esempio, anche la sostenibilità ambientale, di gran moda di questi tempi. Quasi sempre i bonus vengono spalmati su un arco di tempo che nel caso degli incentivi a lungo termine può essere anche triennale. L’esperienza degli ultimi venti anni, da quando le società quotate in Borsa sono state obbligate per legge a pubblicare i compensi dei componenti del board e dei manager di punta, dimostra che i bonus finiscono per diventare una sorta di paracadute. Nel senso che l’eventuale diminuzione dei premi è sempre inferiore a quella dei risultati aziendali. Succede il contrario, invece, quando gli utili aumentano.


Dati alla mano, i campioni di bonus del 2020 sono due finanzieri: Carlo Pesenti e Giovanni Tamburi. Il primo, erede della famosa dinastia di imprenditori bergamaschi, guida la holding Italmobiliare e l’anno scorso ha guadagnato 2,3 milioni di euro, per la metà sotto forma di incentivi cash. Nel 2019 era andata ancora meglio: il bonus aveva superato i 7 milioni per un compenso complessivo di 8,1 milioni di euro. Tamburi, che dirige la Tamburi investment partner (Tip) da lui fondata, nell’anno della pandemia ha guadagnato più di Messina, il capo della prima banca italiana. In totale il suo stipendio ha sfiorato i 3,5 milioni contro i 3,3 milioni del banchiere. Gran parte dei compensi, quasi 3 milioni di euro, sono stati assegnati a Tamburi sotto forma di bonus. Come per Pesenti, anche per il leader della holding col marchio Tip il 2019 si era concluso con un bilancio personale ancora più ricco: circa 8,2 milioni di stipendio, con 7,6 milioni di bonus.

AZIONI IN REGALO
Tra i manager che grazie ai bonus hanno scalato la classifica degli stipendi del 2020 troviamo Fabio De Longhi, vicepresidente e azionista dell’azienda di famiglia. Nell’anno della pandemia, il suo compenso è aumentato del 30 per cento circa, grazie ai premi che sono più che triplicati, da 200 mila a oltre 600 mila euro. Questa somma si aggiunge al cospicuo assegno, un milione e centomila euro, ricevuto da De Longhi a titolo di emolumento per la carica di vicepresidente e dirigente con responsabilità strategiche del gruppo. Stipendio in crescita anche per Valerio Battista, il manager al comando di Prysmian, multinazionale tricolore tra i leader mondiali nella produzione di cavi per telecomunicazioni ed energia. L’anno scorso Battista ha incassato un bonus di molto inferiore a quello del 2019: 323 mila euro contro 943 mila. A fare la differenza, però, è il pacchetto di titoli ricevuto dal manager ad aprile del 2020. Le azioni regalate come premio per i risultati raggiunti valgono oltre un milione di euro. Tirando le somme, quindi, Battista è arrivato a guadagnare 2,4 milioni di euro, il 20 per cento in più rispetto al 2019.


Stesso copione per Marco Alverà, che guida la Snam. Il documento pubblicato dall’azienda di Stato (31 per cento del capitale è di Cassa depositi e prestiti) segnala che lo stipendio di Alverà l’anno scorso è aumentato del 10 per cento circa grazie a un incentivo sotto forma di azioni Snam. Il valore del pacchetto di titoli assegnato al manager ammonta a circa 2 milioni. Quanto basta, e avanza, per compensare la diminuzione del premio in contanti, anche tenendo conto che il numero uno di Snam ha rinunciato a 125 mila euro di retribuzione per contribuire a un’iniziativa benefica “in considerazione dell’emergenza Covid-19”, come si legge nella relzione sulle remunerazioni del gruppo. Tutto compreso, quindi, il compenso di Alverà nel 2020 supera i 3,7 milioni di euro, contro i 3,4 milioni guadagnati nel 2019.


Bonus in abbondanza, per un totale di 3,7 milioni, anche per un altro manager pubblico come Claudio Descalzi, confermato nel 2020 dal governo Conte sulla poltrona di comando dell’Eni. Il compenso di Descalzi è diminuito da 5,6 a 5,3 milioni, nell’anno in cui il gruppo ha chiuso il bilancio in rosso di oltre 8 miliardi di euro, con il titolo in ribasso del 30 per cento.


Al pari degli altri giganti petroliferi internazionali, anche l’Eni è stata colpita in pieno dalla crisi innescata dalla pandemia. Descalzi invece ha limitato i danni. Le carte societarie spiegano che l’amministratore delegato del cane a sei zampe, «in relazione al perdurare dell’emergenza sanitaria da Covid-19» incasserà solo tra gennaio e febbraio dell’anno prossimo la maggior parte dei bonus maturati già nel corso del 2020. Questione di mesi, insomma, e Descalzi passerà alla cassa. Con buona pace del bilancio in rosso e della pandemia.

 

NOTA

Per realizzare questa inchiesta L’Espresso ha analizzato le relazioni sulle remunerazioni pubblicate dalle principali 75 società quotate in Borsa, quelle con il valore di mercato più alto. Non tutte le aziende hanno già depositato il documento che descrive e spiega i compensi versati ai membri del consiglio di amministrazione e ai principali manager. Per questo motivo l’analisi riguarda i rapporti pubblicati entro martedì 13 aprile, che rappresentano comunque oltre i due terzi del campione considerato. Tra i grandi gruppi nazionali, all’appello mancano solo Enel, Leonardo e Poste italiane. Per tutti i manager citati nell’articolo è stato messo a confronto il valore dei compensi percepiti nel 2019 con quello dell’anno scorso, considerando, oltre alla retribuzione fissa, anche le somme incassate a titolo di bonus ed eventuali incentivi sotto forma di azioni.