«La sentenza per l’omicidio di George Floyd ha sancito, di fronte al mondo intero, che la vita di un nero vale esattamente quanto quella di un bianco». Parola della scrittrice femminista Jamia Wilson

Jamia Wilson è cresciuta in una famiglia con profonde radici nel movimento dei diritti civili. Una madre molto attiva, al fianco di Martin Luther King durante le proteste non violente della Carolina del Sud. E un nonno che, rischiando quotidianamente la vita, ha passato anni a lottare per il diritto al voto delle persone di colore. Il desiderio, dunque, di impegnarsi nella battaglia per la costruzione di un mondo migliore e più giusto, è stato il filo conduttore di ogni sua scelta e ne ha ispirato il percorso professionale, dal Women’s Media Center fino alla casa editrice Ramdom House, dove ricopre il ruolo di vice presidente. Femminista, attivista, scrittrice, Jamia è convinta che le nuove generazioni possano finalmente ambire a una società meno razzista e più inclusiva, perché l’idea che «discriminare sia normale» non è più nel loro Dna.


Per un bambino nero cosa ha significato apprendere della sentenza per l’omicidio di George Floyd?
«È stato sicuramente un passaggio cruciale. La decisione della giuria ha sancito, di fronte al mondo intero, che la vita di un nero vale esattamente quanto quella di un bianco. E chi commette un’azione violenta deve risponderne di fronte alla legge. Una differenza enorme rispetto a quello che avevamo noi adulti nel cuore, mentre attendevamo il verdetto. Nonostante i fatti fossero chiari, malgrado George Floyd fosse stato linciato e giustiziato davanti a tutti, fino all’ultimo momento abbiamo temuto che saremmo stati delusi ancora una volta. Eravamo preparati al peggio e questo è molto triste».
Cosa l’ha colpita di più nella reazione dei giovani di fronte a questa vicenda?
«Il fatto che a loro sia sembrato assolutamente scontato che si arrivasse a questo verdetto. Crescono in un contesto in cui le proteste per i diritti fanno parte del quotidiano, anche se non vi prendono parte direttamente. Hanno più libri a disposizione, più programmi televisivi e film che li aiutano a formarsi con una mentalità diversa. Ritengo indispensabile che si investa nella scuola e nell’istruzione per scardinare la vecchia mentalità. Ho molta speranza».
Potrebbe esserci qualcosa in grado di rallentare, se non addirittura arrestare, questo processo culturale?
«Sono due i punti cruciali che dobbiamo difendere e sono sotto attacco da parte dei conservatori: la scuola pubblica e il diritto al voto. Sappiamo bene che l’amministrazione Trump si è distinta per tagli milionari che, di fatto, hanno limitato o reso più complesso l’accesso all’istruzione per i ceti più poveri. Spero che il presidente Biden, come promesso e ribadito, approvi al più presto investimenti importanti che rilancino l’istruzione a livello nazionale. E bisogna proteggere il diritto al voto che in molti Stati, con leggi e provvedimenti al limite della costituzionalità, viene di fatto impedito proprio ai più giovani, tendenzialmente più inclini a sostenere il partito democratico».
Riesce a immaginare un momento, in futuro, in cui non ci saranno più posizioni «mai ricoperte prima» da una persona di colore?
«Per molti di noi essere “i primi” ha ancora un valore importante per sottolineare il cammino della società in una direzione più inclusiva. Primi a laurearsi, primi a diventare manager o amministratori delegati, primi a diventare presidenti degli Stati Uniti o vice-presidenti. Tutti passaggi cruciali ma, come racconta spesso Kamala Harris parlando di sua madre, “quando riesci a diventare il primo o uno dei primi in un settore, parte del tuo lavoro sarà creare le condizioni perché tu non sia anche l’ultimo”».