La donna, 90 anni, abita in una palazzina dell’Ater in Abruzzo. L’uomo, 35 anni, è arrivato dall’Africa su un barcone. Quando lui ha perso il lavoro ha trovato alloggio nella casa di lei. Tra curiosità e condivisione (foto di Stefano Schirato)

Veneranda mi accoglie in una mattina di maltempo estivo, ma è solo la pioggia passeggera dei posti di mare. Abita al piano terra di una palazzina dell’Ater, nella parte di Pescara a sud del fiume. Lei è seduta al grande tavolo della cucina, mi ha aperto la signora Lucia, che l’aiuta per qualche ora al giorno. Il ripiano di legno è una distesa di “pallotte cace e ove” che già alle dieci si asciugano sulla carta assorbente. Parliamo nell’odore buono del fritto, mentre Lucia pulisce i fornelli.

Veneranda si è messa il rossetto e indossa un vestito a grandi bolli bianchi su fondo nero, i capelli dalla tinta mogano sono schiariti da colpi di luce. Che nome importante, le dico, e lei subito intona la canzone di Carlo Buti, poi ricantata da Orietta Berti nel ’74, la cui protagonista è una Veneranda dalle trecce bionde per cui tutti i giovani fanno la ronda.

«A mia madre piaceva la canzone e mi ha chiamata così, ce ne stiamo solo seicento sulla Terra», dice orgogliosa. Dopo inizia il racconto di novant’anni di vita, inframezzato ogni tanto dall’annuncio del Regno di Dio che verrà, come lo intendono i testimoni di Geova. In quei momenti Veneranda mi guarda intensamente, quasi a cogliermi in viso un segno di disponibilità alla conversione.

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È nata in campagna, da una famiglia con un ramo nobile caduto in disgrazia. Sua nonna materna era una contessa napoletana, è scappata da ragazza con un bellissimo garzone alto un metro e novanta. Lo ha sposato, ma la famiglia l’ha diseredata e si è dimenticata di loro. Veneranda discende da quella caduta.

È sempre stata golosa di letture: da giovane raccoglieva le olive cadute dagli alberi e le vendeva di nascosto al mercato del sabato per comprarsi dei libri e le sue riviste preferite: Bella, Gioia, Mani di fata. Nella sua formazione è passata dalle monache del convento di San Ciro, a Penne, dove ha imparato il ricamo e il cucito. Si entusiasma per il capriccio del caso: io abito a due passi dal Palazzo Margherita d’Austria dove lei ha appreso il punto Rodi e la precisione degli orli. Tante di quelle suore prendevano i voti per fame, sostiene Veneranda, e adesso arrivano soprattutto dai Paesi poveri. Ha una sua lucida visione del mondo, questa donna.

Si è sposata a vent’anni, molte ragazze di allora hanno creduto di liberarsi delle famiglie patriarcali d’origine inciampando in mariti improbabili. Il suo primo matrimonio si è concluso presto, con un abbandono del tetto coniugale: lui se n’è andato in Germania insieme a un’altra. Veneranda è stata soccorsa da una zia che le ha dato casa e lavoro nel suo negozio di Pescara, lì incartava quarti di pollo ai clienti angustiandosi per la propria condizione di madre sola con due figli da crescere e nessuna certezza.

Come molte altre donne italiane, ha atteso a lungo la legge sul divorzio, seguendone l’iter e il dibattito pubblico in televisione e sui giornali. Nel 1975 ha potuto formalizzare la fine di un matrimonio che da anni esisteva solo nel registro dello Stato Civile. Ha sposato poi un restauratore di mobili, da cui aveva avuto altri due figli.

«Ha restaurato anche la tua vita?», le chiedo.


È stato il suo grande amore, dice, e mi manda nell’ingresso a vedere una delle “opere” del secondo marito, un buffet con le dorature sui bordi.


Dopo la polleria, lei ha messo a frutto gli insegnamenti delle monache e ha cucito o accomodato gli abiti di molte signore di Pescara, clienti fedeli che ancora la chiamano solo per un saluto o gli auguri delle feste.

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«Ho aiutato tante persone, e molti hanno aiutato me quando ero nel bisogno», ricorda guardando Lucia che riempie di pallotte alcune vaschette di alluminio. Sono per amici e parenti, avrò anch’io la mia, prima di uscire da qui. È una ricetta molto personale con cui Veneranda ha vinto anche una gara di cucina.

Passano i minuti e i quarti d’ora, la luce da fuori cambia con il cielo che si rasserena. Lentamente il racconto converge nella solitudine di oggi. A novant’anni Veneranda non guida più, può camminare solo con l’ausilio di un deambulatore e le serve una mano per vestirsi. I figli le vogliono bene, ma lavorano e lei non vuole sentirsi di peso. Una vive a Milano, di un altro che la domenica passa a prenderla e la porta a prendere il gelato parla con voce di tenerezza.

Da sempre Veneranda non riesce a stare da sola in casa con la porta chiusa, ha sviluppato una forma di claustrofobia dopo un episodio traumatico della sua infanzia. La chiama curiosamente egofobia, ma non ho trovato tracce di questo termine pur suggestivo. Quando nessuno è con lei, tiene aperto di qualche centimetro, ma così ha paura che entrino i ladri.

Un giorno in quello spiraglio ha visto degli occhi, più spaventati dei suoi. Era Ousmane. Si salutavano da tempo, lui abitava presso un anziano del quartiere che aiutava pagando anche un modico affitto. Ma poi aveva perso un lavoro già precario e i centocinquanta euro al mese non se li trovava più. Il padrone di casa lo ha mandato via e Ousmane, carico dei suoi borsoni, si è fermato davanti a quella porta tenuta aperta. «Nonna, posso appoggiare la mia roba da te?», ha chiesto a Veneranda.

Intanto avrebbe cercato un’altra casa e qualcosa da fare. Lei ha detto di sì e lo ha lasciato entrare. Il ragazzo ha messo i borsoni in un angolo, attento a non occupare che un minimo spazio. «Era così timido, stava a testa bassa e si vergognava di guardarmi in faccia», racconta Veneranda.

Forse per quello era così accaldato. Lei gli ha offerto un bicchiere d’acqua e si è ricordata della stanza lasciata vuota da un nipote che era stato lì per qualche mese. Ousmane arretrava già verso l’ingresso, gli ha detto di non chiudere. E poi all’improvviso, indicandogliela con la mano: «Pulisciti quella camera e dormi qua».

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Non sapeva ancora niente di lui, della sua storia in Senegal e poi in Italia, tra un centro di accoglienza e l’altro, di città in città fino a Pescara, dove si è fermato. Ousmane proviene da una famiglia di pescatori e lo ha cresciuto sua nonna, quando lei è morta è scappato dal villaggio ed è salito su un barcone. Aveva vent’anni, oggi ne ha trentacinque e non è mai tornato in Africa. È musulmano, due volte alla settimana aiuta Veneranda a collegarsi sulla piattaforma Zoom per l’adunanza dei testimoni di Geova. Ciascuno dei due pensa che il proprio Dio sia in pace con l’altro.

Di notte la porta di casa può restare finalmente chiusa. «Ma quella della sua camera la tiene poco poco aperta, per farmi sentire sicura», dice Veneranda e si commuove.

Prepara lui la colazione, taglia il pane a pezzetti per la nonna e bevono insieme un caffè leggero. Poi Ousmane esce, si adatta a qualunque lavoro. «Prima del Covid-19 faceva il buttafuori nelle discoteche, ma non con la violenza, eh…».

D’estate lo chiamano i gestori degli stabilimenti balneari e nei periodi di magra rimedia qualcosa al porto, dove «streccia le reti», libera i pesci dalle maglie. Poco tempo fa ha accettato una paga più bassa per dividersi la giornata con un amico in difficoltà. E oggi dov’è? Oggi fa carico e scarico in un magazzino, ma a pranzo forse tornerà «perché mangia solo quello che cucino io, riconosce l’odore da fuori». Poi vuole subito lavare i piatti, mentre Veneranda si riposa.

Vivono insieme da due anni. All’inizio lei è andata in questura e ha compilato una dichiarazione di ospitalità. L’aiuto che si danno è regolare, l’affetto non risulta su nessun documento. «È nero ma è bello», dice Veneranda, orgogliosa come se parlasse di un nipote con il suo stesso sangue.

Nomina il colore come il verde o l’azzurro, senza nessun riferimento razziale. Mi racconta di quando Ousmane è andato a Milano per rinnovare il passaporto ed è incappato nella chiusura degli uffici per il ponte del due giugno. Si è dovuto trattenere più giorni ed è rimasto senza soldi, senza un tetto. Si disperava al telefono con la nonna. «Passami un vigile», gli ha detto lei e ha convinto il ghisa ad aiutarlo. Poi gli ha inviato il necessario con PostePay.

«È un ragazzo meraviglioso, le fa tanta compagnia», interviene Lucia che sta per salutarci. Su suggerimento di Veneranda mi mostra la camera dell’ospite: pulita, ordinata, un paio di lunghe infradito accanto al letto rifatto, l’accappatoio bianco piegato su una sedia.

Veneranda e Ousmane hanno messo felicemente insieme due solitudini, i loro bisogni differenti e complementari. Addizionando fragilità a fragilità hanno ottenuto una forza comune.

Mi complimento con lei. «Di cinque figli io sono stata sempre quella diversa», afferma con fierezza. «Ma qualcuno dice che sono matta». «Non sei matta, sei unica», le assicuro. M’invita a pranzo, ma oggi non posso. Prometto di tornare e le lascio sul tavolo un libro con dedica. Abbasso la mascherina e le bacio il dorso della mano, prendo la mia vaschetta di pallotte.

«Non ti preoccupare per me, Ousmane mi ha scritto che arriva tra mezz’ora», dice leggendo il messaggio sullo smartphone. Veneranda mi ricorda anche di non chiudere la porta. Fuori la pioggia evapora già dall’asfalto.