Vent’anni fa i fatti del G8 di Genova: le violenze e la menzogna di stato, la sospensione della Costituzione. E una generazione che ha perso per sempre fede nella politica e nelle istituzioni. Allora si è aperto il vuoto che dura ancora oggi

Chiedi cos’era la Diaz, chiedi che cosa è successo a Genova. Chiedilo a un ragazzo di venti anni che nel 2001 era appena nato. Cosa successe in quell’estate breve durata due mesi. Dal pomeriggio del 20 luglio, quando Carlo Giuliani cadde in una pozza di sangue, al pomeriggio dell’11 settembre a New York. «L’intero mondo abitato cambiò», sono le parole che lo storico Ibn Khaldun scrisse quasi sette secoli fa a proposito dell’epidemia di peste nera del 1348 che gli aveva strappato i genitori, tornate tragicamente attuali nell’ultimo anno con la pandemia di Covid-19. Ma il mondo intero era già cambiato venti anni fa, all’alba del secolo e del nuovo millennio. Quando la globalizzazione lucente degli anni Novanta - la caduta dei muri, la Rete nuova agorà democratica - aveva mostrato il suo volto violento. A New York. E prima ancora per le strade di Genova.


Un’intera generazione ha vissuto un Sessantotto accelerato, durato 48 ore: la spinta al cambiamento di massa, che coinvolgeva la società civile, i centri sociali, le reti cattoliche, le organizzazioni giovanili dei partiti, le manifestazioni popolari e pacifiche devastate con l’uso feroce delle violenze di piazza, quei black bloc venuti dal nulla e nel nulla tornati. L’omicidio, il massacro, la sospensione delle garanzie costituzionali in una scuola e in una caserma, sotto gli occhi di ministri della Repubblica. La menzogna di Stato che mise al riparo i responsabili di vertice della macelleria messicana, primo fra tutti il capo della Polizia dell’epoca Gianni De Gennaro che non ha mai trovato il modo di dire una parola almeno di scuse, a differenza di quanto fece undici anni dopo il suo successore Antonio Manganelli e poi quattro anni fa con nettezza Franco Gabrielli, oggi sottosegretario: «Se io fossi stato Gianni De Gennaro mi sarei assunto le mie responsabilità senza se e senza ma. Mi sarei dimesso. Per il bene della Polizia». E infine il riflusso di chi aveva allora venti o trenta anni e che non ha più voluto sapere di un’impresa collettiva dopo l’incontro con la politica e con le istituzioni violento e bugiardo. Genova è anche questo: l’occasione perduta, la fine dell’impegno, la voragine. Il buco nero in cui è precipitato tutto.

 

La ricostruzione
Genova, 20 luglio 2001
2/7/2021

«Ho cominciato a scavare nella memoria e mi sono ricordato di qualcosa che non ho mai tirato fuori. Quando dico che quelle giornate hanno cambiato il mio rapporto con l’autorità e con le divise non penso al fatto soltanto che ci hanno menato, e di più e più duramente, ma ci sono due fatti specifici che su me ragazzino ebbero un effetto devastante. La sera, dopo la morte di Carlo Giuliani, i cori delle forze dell’ordine: siete uno di meno. E sul corpo di Carlo Giuliani c’erano i segni delle sigarette spente su di lui», mi ha detto qualche mese fa Michele Rech Zerocalcare che firma la sconvolgente copertina di questo numero dell’Espresso. «Quello che è scomparso dopo Genova è stata la società civile. Quando succedeva qualcosa c’erano l’Arci, i cattolici e i centri sociali, assemblee cittadine, ognuno con le sue modalità declinava lo stesso tema. Gli unici che hanno resistito sono quelli che non avevano un approccio naif alla violenza. Tutti gli altri sono stati spazzati via».


La Repubblica italiana, con gli uomini che oggi sono ai vertici delle istituzioni, ha il dovere di fare verità su quelle giornate di venti anni fa, anche a questo servono le ricorrenze. Soprattutto se le immagini dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere rilanciano l’orrore di funzionari dello Stato in divisa che picchiano, oltraggiano, sputano, fanno inginocchiare detenuti a loro affidati. Lo Stato ha il dovere di ricucire la ferita di quelle giornate di sospensione della democrazia. E noi in questo e nei prossimi due numeri ripercorriamo con la memoria e il rigore di Simone Pieranni quelle giornate di Genova 2001: Piazza Alimonda e Carlo Giuliani, la scuola Diaz, la caserma Bolzaneto. Le sevizie, gli insulti, le umiliazioni, ancora il sangue. La tortura che ha portato l’Italia fuori dall’Europa .Ma quello che non si può recuperare è la generazione rimasta senza politica. E finita nell’anti-politica.

 

Il nuovo numero
Genova, Luglio 2001: L’Espresso in edicola e online da domenica 4 luglio
2/7/2021

«Il giorno prima dell’ultimo grande Flash del G8 a Genova, ero a Pegli con Gino Paoli: un bancomat finto, una macchina da demolire e Gino con una tuta bianca e una mazza che lo sfasciava, mentre dal palco io cantavo “Senza fine”. Il consiglio che davo a tutti era di stare alla larga dal G8, sarebbe stato pericoloso, ed è stato inutilmente terribile. È stato l’ultimo fenomeno spontaneo di massa che prevedesse il futuro prossimo in cui erano rappresentati tutti. C’era la rappresentazione di come sarebbe diventato il mondo da li a breve». Lo scrisse Beppe Grillo sul suo blog il 10 aprile 2017. Lui, genovese, al G8 non c’era, era sul palco dell’arena estiva di villa Doria a Pegli con l’amico Gino Paoli, faceva ancora l’uomo di spettacolo, nessuno avrebbe mai immaginato la sua metamorfosi in capo politico.

 

Ma parlò, anche in quei giorni, un mese dopo il G8, in un’intervista alla Stampa. «Avrei voluto che quelli del Social Forum avessero finto di andare a Genova a manifestare e poi trasferirci tutti al mare lasciando migliaia di poliziotti schierati a controllare strade e piazze vuote. Ma io sono un privilegiato: guardo a distanza. Gli altri, e sono ormai centinaia di migliaia di persone, hanno bisogno di rendersi visibili. E hanno ragione... In che cosa consiste la differenza tra oggi e il ’68? La differenza è che questo è un movimento che ha mille anime: Greenpeace, Lilliput, il commercio equo-solidale, i cattolici, le tute bianche. La sua forza sta nella frammentazione. E nel volere cambiare qualcosa subito, non tutto domani. Per questo temo molto che qualcuno possa mettersi alla sua testa e modificarlo imponendo una strategia comune. Ho paura di un leader. E ne ho più paura ancora se va a parlare da Costanzo».

 

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È lo stesso Grillo che oggi, venti anni dopo, ha fondato il primo partito italiano e ha distrutto la figura dell’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, dopo averlo creato. La paura del leader è anche la paura di dover lasciare la creatura Movimento 5 Stelle e il potere a un altro. In mezzo ci sono questi due decenni. In cui è stata sconfitto il sogno di un altro mondo possibile, di un’altra politica, come la chiamò Stefano Rodotà, all’indomani della vittoria referendaria su nucleare, acqua pubblica e giustizia quando la sera del 13 giugno 2011 ventisette milioni di persone escono di casa per votare sui referendum sull’acqua pubblica, sull’energia, sulla giustizia uguale per tutti. «Di fronte a noi sta un movimento che si dirama in tutta la società, prensile, capace di costruire una agenda politica e di imporla... Le donne, le ragazze e i ragazzi, i precari, i lavoratori, il mondo della scuola e della cultura hanno creato una lunga catena che univa luoghi diversi, che si distendeva nel tempo, che faceva crescere consenso sociale intorno a temi veri» (Repubblica”, 16 giugno 2011 ).


Non una rivolta anti-politica, ma la richiesta di politica, di un’altra politica. Sconfitta in questi anni, dopo essere stata violentata a Genova. Lo si vede nelle classi dirigenti dei partiti del centro-sinistra, lontane da quelle esperienze, a differenza di quanto successo in altri paesi mediterranei, in Spagna, in Grecia, dove Pablo Iglesias e Alexis Tsipras, comunque si voglia giudicare la loro parabola, sono arrivati al governo dei loro paesi partendo dalle strade di Genova. Lo si vede nella società civile che si è tenuta lontana dalla politica. E dalla qualità delle battaglie e delle campagne. Oggi le piazze si riempiono dei ragazzi e delle ragazze dei Gay Pride che manifestano in modo collettivo per i loro diritti individuali, a partire da quello di non essere discriminati. E poi la libertà di scegliere la propria identità, il genere, la felicità personale. È come se l’altro mondo possibile si fosse ristretto per ognuno nei confini della propria esistenza. I cortei giovanissimi dei Fridays for Future sono evaporati durante la pandemia: forse proprio per l’impossibilità di un rapporto con la politica. E in Italia, da ultimo, il movimento delle Sardine è stato un sintomo della malattia, la separazione tra la società e la politica, ma anche la dimostrazione di una impossibilità di rapporto. Perché l’altra politica è l’aspirazione a un cambiamento, ma anche costruzione di politica: le regole del conflitto, una generazione che si scontra con l’altra, la conquista del potere, non un pranzo di gala.


L’altra politica è la politica. Senza la politica c’è la pura gestione, l’affidamento a sedi decisionali estranee ai meccanismi democratici, o l’inseguimento del popolo di cui parla lo storico Giovanni Orsina con David Allegranti in un libro appena uscito per Luiss University Press: «Se l’antipolitica si regge sulla politica, finisce anche per collocarsi allo stesso livello. Se scende la qualità dell’una, cala di conseguenza pure quella dell’altra». È la storia di questi ultimi anni e degli ultimi giorni. Tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte, il vero anti-politico è stato il secondo, l’ex premier che ha preteso di farsi capopartito in virtù del fatto di aver guidato il governo. Una leadership calata dall’alto, artificiale, plasmata dagli strateghi della comunicazione e dagli adulatori che l’hanno costruita sui giornali, ma senza radice nel reale. Mentre Beppe Grillo, ancora una volta, ha dimostrato di aver del capo politico carismatico il senso del tempismo, la ferocia e il cinismo, la difesa strenua di quanto costruito. La tempesta che agita il Movimento 5 Stelle, il centro dello schieramento politico, minaccia di investire tutto il sistema, quando partirà il semestre bianco di Sergio Mattarella e si potranno rovesciare i tavoli senza pagare il prezzo del voto anticipato. Ma il vuoto di politica è cominciato da lì, da quelle strade di Genova venti anni fa. E da quella domanda di cambiamento stroncata con la violenza dagli uomini che indossavano la divisa dello Stato democratico.