La ricostruzione

Genova, 20 luglio 2001

di Simone Pieranni   2 luglio 2021

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“Massacrateli”: cosa accadde nei giorni del G8, la carica dei Carabinieri al corteo No Global in via Tolemaide e la morte senza giustizia di Carlo Giuliani. L’inizio di una guerra dentro le forze dell’ordine in cui furono stroncati i movimenti democratici

«Di Furia, quanti siete? Siamo 72 incazzati come bombe. Ok va bene signor maggiore. Mandateci a lavorare per Dio. Va bene». Il maggiore Di Furia scalpita. È fermo da ore, senza ricevere ordini, mentre i suoi «colleghi» stanno affrontando quella che poi verrà descritta alla stregua di una guerra.

 

Il 20 luglio 2001 Di Furia ha un problema: «Io ho già tutto il personale sui mezzi, i mezzi accesi, mi basta solo un via libera da parte vostra quando volete. Dobbiamo ricattare la questura per farci liberare. Perché io lo ammazzo questo funzionario, odio più lui dei no global, se dessero fuoco alla questura farei festa».

Hanno voglia di buttarsi nella bolgia, lui e i suoi uomini. Le sue dichiarazioni passano inosservate all'interno di processi che proveranno a dipanare – con l'utilizzo di oltre 300 ore di video e 15 mila fotografie, perché il G8 di Genova fu anche un evento mediatico benché in un mondo senza ancora i social - quanto successo in quei tre maledetti giorni, a Genova, nel 2001; dinamiche via via sporcate da testimonianze reticenti, da un'omertà di corpo e da ben più congegnati tentativi di depistare alcuni rivoli dei procedimenti. Mentre Di Furia cerca un modo per partecipare, finendo per lanciare un augurio ai suoi colleghi, «massacrateli», si consuma la carica più terribile del 20 luglio (il giorno dopo ce ne sarà un'altra in corso Italia, con il corteo spezzato in due e i manifestanti rincorsi perfino sulla spiaggia).

 


Il corteo autorizzato dei Disobbedienti sta attraversando via Tolemaide: è la trappola perfetta perché da una parte c'è il muro della stazione, dall'altra c'è il reticolo di piccole vie e cortili interni di palazzi. Più avanti c'è un tunnel, che porta verso lo stadio (e il carcere). Ma soprattutto il problema è dietro: migliaia di persone ammassate. I carabinieri incrociano il corteo; in teoria dovrebbero andare oltre, le comunicazioni dalla questura sono chiarissime. Nell'ordine pubblico comandano i poliziotti e l'invito ai carabinieri è esplicito: attraversate il tunnel e andate verso Marassi dove c'è un gruppo di manifestanti che sta assaltando il carcere. Ma i carabinieri girano a sinistra e poi a destra e caricano.

 

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«Sò da Rai», è l'urlo di un giornalista, uno dei primi a essere colpiti, lì accanto al plotone. La carica è durissima, così come la risposta del corteo: da lì, gruppi di manifestanti e carabinieri cominceranno una danza macabra tra le vie di Genova che avrà il suo epilogo in piazza Alimonda. Carlo Giuliani muore a seguito della carica di via Tolemaide. I manifestanti sotto processo per devastazione e saccheggio verranno condannati con centinaia di anni di pene, ma i procedimenti hanno avuto se non altro il merito di svelare le tante guerre che in quei giorni si sono svolte all'interno delle forze dell'ordine, un mondo chiuso, i cui movimenti democratici hanno finito per soccombere all'interno di una «organizzazione» che non prevedeva altro che un vero e proprio scenario di battaglia a Genova.

 

E durante i processi, carabinieri e poliziotti hanno testimoniato tra una miriade di «non ricordo», contraddizioni rispetto a relazioni di servizio incomplete, affannate, talvolta palesemente differenti da quanto, in aula, mostreranno i video. La sfilata di uomini delle forze dell'ordine – con personale della Digos sempre presente nel tribunale di Genova, pronto a registrare qualsiasi presenza e comportamento, tanto della difesa quanto degli spettatori – ha caricato di tensione uno degli aspetti più indagati dalla difesa dei manifestanti, ovvero la formazione di reparti speciali dei carabinieri, creati ad hoc per Genova. Il curriculum dei capi di queste formazioni era di tutto rispetto. Dalla Fiera, a Genova comandava il generale Leonardo Leso. Si trattava di un'autorità: fondatore e capo in Bosnia e Kosovo delle Msu, Multinational specialized unit, la polizia internazionale finanziata dalla Nato, era anche a capo della seconda brigata mobile dell'Arma che aveva lo scopo di addestrare e coordinare i reparti in missione di guerra. Tra i suoi uomini, parà Tuscania, teste di cuoio dei Gis e Ros. Con Leso ci sono Claudio Cappello, poi maggiore, e Giovanni Truglio: nel 1994 sono tutti insieme in Somalia e vengono citati nel memoriale dell'ex parà Aloi fra «gli autori o persone informate delle violenze perpetrate contro la popolazione somala». L'inchiesta fu archiviata. Cappello, dopo Genova, venne mandato a comandare l'unità militare a Nassiriya (si salvò dalla strage perché era in bagno) e ad addestrare la nuova polizia irachena. A Genova c'erano i capi delle missioni italiane all'estero. Era lecito dunque presupporre una certa esperienza nel gestire una piazza ribollente, ma sono proprio i carabinieri a fare il disastro: uccidono un manifestante.

 


Non solo, perché il 16 novembre 2004 nelle aule genovesi c'è una piccola svolta. A testimoniare arriva il capitano dei carabinieri Antonio Bruno; di fronte al materiale video e fotografico, Bruno non può far altro che confermare una cosa mai emersa prima: i carabinieri che hanno caricato il corteo delle tute bianche oltre ai normali manganelli in dotazione all'Arma, hanno utilizzato oggetti contundenti «fuori ordinanza», tra cui mazze di ferro. Un altro elemento che conferma certe intenzioni, emerse da tutto il materiale agli atti dei processi genovesi, nonché particolare rilevante pensando a quanto succederà da lì a poco.


La dinamica dei fatti da via Tolemaide a piazza Alimonda è stata al centro del processo contro i manifestanti: gli avvocati difensori hanno provato a scardinare il blocco di carabinieri e polizia al riguardo, per aprire uno squarcio dal grande anello mancante dei processi genovesi, quello per la morte di Carlo Giuliani le cui indagini partirono subito con l'avviso di garanzia a per omicidio volontario ai carabinieri Mario Placanica (ausiliario, in quel momento al sesto mese di servizio) e Filippo Cavataio (l'autista del Defender).

 

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Nel dicembre 2002, però, il procuratore Silvio Franz avanza la richiesta di archiviazione per Mario Placanica (per legittima difesa) e per Filippo Cavataio (nel referto dell'autopsia di Carlo Giuliani, i medici legali Marcello Canale e Marco Salvi escludono che il doppio passaggio del Defender sul corpo di Carlo gli abbia potuto procurare lesioni mortali). Il procedimento per l'omicidio di Carlo Giuliani viene infine archiviato il 5 maggio 2003 dal giudice per le indagini preliminari Elena Daloiso che accoglie la richiesta del pm per legittima difesa, ma anche per «uso legittimo delle armi in manifestazione».

 


Questo vuoto processuale viene colmato, in parte, dal procedimento contro i manifestanti. A sfilare nelle aule di Genova, infatti, sono i video e le foto dei momenti precedenti a piazza Alimonda: proprio quella girandola di movimenti di plotoni e Defender che nella sentenza di archiviazione di Daloisio non sono presi in considerazioni. I momenti del processo nelle aule genovesi sono drammatici, specie quando è il momento dei principali protagonisti. Mario Placanica, chiamato a deporre nel 2005 si avvale della facoltà di non rispondere; la seconda volta, nel giugno 2007, decide di parlare. Racconta che «praticamente io dovevo lanciare dei lacrimogeni e il capitano Cappello non ha voluto che li lanciassi, si è preso dalle mie mani il lanciagranate e ha iniziato a sparare lui con il lanciagranate; la granata vera e propria si divide in due con un nastro, io dovevo togliere quel nastro e darglielo al capitano Cappello, in questo caso io mi sono sentito male e mi hanno fatto andare sulla camionetta».

 

È così che Placanica finisce sul Defender: in stato confusionale, nel mezzo delle cariche. La percezione, dalla sua testimonianza e da quella di altri carabinieri, è quella di una totale perdita del controllo sulla situazione. Riavvolgiamo rapidamente il nastro: i carabinieri caricano un corteo autorizzato, da lì si entra in una serie di scontri tra manifestanti e carabinieri. I Defender si muovono in modo goffo e complicato, fino ad arrivare a «piantarsi» in piazza Alimonda. Come ci arrivano?

 

La deposizione di Placanica a questo punto si fa più interessante: «Noi eravamo dietro, seguivamo… non capisco perché a noi che eravamo feriti… non feriti, eravamo feriti, sì, perché io ero allucinato, non mi hanno soccorso, non capisco perché non mi hanno soccorso e invece hanno continuato a seguire il plotone». Il racconto di Placanica in pratica conferma una sua deposizione del settembre 2001 secondo la quale a un certo punto il plotone che stavano seguendo con il Defender, scappa, se ne va e lascia isolato «il mezzo». E chi c'è dentro. La situazione secondo Placanica era la seguente: «Ero allucinato io dai gas, non è che potevo… non avevo nemmeno acqua da mettere agli occhi per poter asciugarli, per poter lavarli, come facevo, ho intuito tutto quel casino, però non… non so nemmeno chi sono i no global».

 

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A quel punto l'autista decide di fare retromarcia, per scappare. Ma non ci riesce; Placanica a proposito usa il termine «incagliato». C'era un cassonetto, dice al pm, «però non lo so che manovra abbia fatto l'autista, non ero davanti seduto con lui». Quindi il Defender si è fermato?, chiede il magistrato. «Sì, si è fermato, si è spento». Poi arrivano i due spari, in aria, dice Placanica. Dopo gli spari, entrano in scena il sasso, la ferita «a stella» che compare sulla fronte di Carlo e soprattutto la confusionaria e a tratti dilettantesca «cristallizzazione» della piazza da parte di carabinieri e polizia (si scoprirà poi, anni dopo, che presente in piazza nell'immediatezza dei fatti c'era Renato Farina, la fonte "Betulla" del Sismi smascherata dall'indagine su Abu Omar).


Il famoso sasso appare vicino a Carlo solo dopo che le forze dell'ordine hanno «bonificato» la piazza. Poi scompare, per riapparire, insanguinato, a fianco al corpo nelle foto della scientifica. Durante il suo esame nelle aule genovesi il vicequestore aggiunto Adriano Lauro ha riconosciuto la pietra: l'avrebbe vista al fianco di Carlo, mentre i sanitari toglievano il passamontagna. Peccato che le foto mostrate dalla difesa in aula abbiano dimostrato che invece, in quel momento, il sasso non c'era. Ma attenzione a Lauro: è lui che urlò ai manifestanti «lo hai ammazzato tu, sei stato tu con il sasso, pezzo di merda». Ma è lo stesso Lauro che in aula di tribunale si riconosce in un video mostrato dalla difesa. A quel punto l'avvocato Emanuele Tambuscio sfodera un piccolo colpo di scena: Lauro viene ripreso mentre scaglia pietre contro i manifestanti. È uno dei tanti momenti imbarazzanti per le forze dell'ordine nelle aule genovesi.


L'ipotesi del sasso che devia il proiettile fu inoltre smentita dal medico legale della procura genovese Marco Salvi, che fece l'autopsia: «Lo sparo apparve diretto e non deviato». Lo stesso Salvi lo confermò in aula di tribunale, specificando che la Tac cui fu sottoposto il corpo di Carlo Giuliani «evidenziò un frammento radio-opaco nel cranio del ragazzo», frammento «assolutamente metallico» che però non venne trovato in sede di autopsia. Ma su tutto questo, sui tanti dubbi, sulle contraddizioni, non si è potuto fare di più: Carlo Giuliani muore e la sua morte rimane senza un processo. E secondo tanti, senza giustizia.


(1-continua)