È testimonial della Gpa, che in Gran Bretagna è riconosciuta per legge dal 1985. Praticata anche da coppie dello stesso sesso, impone l’obbligo di rivelare al nascituro la verità sulle origini

«Avrò avuto cinque anni, facevo ancora l’asilo. Un giorno la maestra mi chiese di fare un disegno della mia famiglia. Disegnai mia madre, mio padre e la mia mamma di grembo. Il giorno dopo la mia insegnante convocò i miei genitori per capire come mai avessi disegnato due mamme». Gee Roberts oggi ha 21 anni e studia Medicina riproduttiva all’Università di Plymouth. Nel 1998 i suoi genitori hanno fatto ricorso alla Gestazione per altri (Gpa).

 

La incontriamo a Exeter, 300 km a sud-ovest di Londra, dove vive con il suo compagno. «Mia madre non riusciva a rimanere incinta e ha chiesto aiuto a un’altra donna, Suzanne, la mia mamma di grembo. Ho sempre saputo la verità sulla mia nascita», racconta Gee. Nel Regno Unito la gestazione per altri è legale da oltre trent’anni: le coppie richiedenti, incluse quelle dello stesso sesso, devono essere conviventi e avere un domicilio in Gran Bretagna; la gestante è considerata a tutti gli effetti la madre del nascituro e dopo aver acconsentito al trasferimento della genitorialità ha sei mesi di tempo per ripensare alla sua scelta. Al di là di un «ragionevole» rimborso spese, che non può superare le 15mila sterline, non può esserci un pagamento vero e proprio, perché la Gpa deve essere «altruistica».

 

Dal 1985, l’anno in cui è diventata legge, è stata più volte oggetto di riforme: nel 2018 per esempio è stato introdotto l’obbligo per le coppie richiedenti, una volta divenute genitori, di raccontare al bambino la verità sulle proprie origini. «Ognuno di noi ha il diritto di avere accesso a tutte le informazioni che lo riguardano. Sono convinta che l’anonimato non sia conciliabile con una pratica come la Gpa», dice Gee Roberts.

 

Lei è intervenuta a Ginevra in occasione della celebrazione del 30esimo anniversario della Convenzione delle Nazioni unite sui diritti dell’infanzia (Uncrc) raccontando la sua esperienza. «Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia allargata e di costruire un bellissimo rapporto con la mia mamma di grembo e i miei fratellastri. Sono tre: Alex e Jake vivono con lei, mentre Dominic, come me, è stato cresciuto da un’altra coppia. Biologicamente siamo tutti figli suoi e per alcuni aspetti le assomigliamo, ma non sono le similitudini a definire il nostro rapporto: lei per me è una sorta di zia», racconta.

 

Lasciamo il Cornwall e le sue brughiere, da Exeter ci spostiamo 300 chilometri a Nord per arrivare a Hathern, un piccolo villaggio in collina nelle Midlands Orientali, dove vive Jennie, la madre di Gee. «Desiderare un figlio senza riuscire ad averlo, è un’esperienza devastante. Arrivi al punto di evitare gli amici che hanno messo su famiglia e ti isoli sempre più. Io e Jerry, il padre di Gee, ci avevamo provato in tutti i modi: stimolazioni ormonali, prelievi ovocitari, trasferimenti embrionali. Avevamo provato anche con gli ovuli di una donatrice ma ogni tentativo era stato vano.

 

Kim Cotton prima madre surrogata inglese che nel 1988 ha fondato Cots

Fin quando un giorno, un’amica ci ha parlato di Cots, un’organizzazione no profit che aiutava le coppie infertili a entrare in contatto con una donna disposta a portare avanti una gravidanza per loro. È così che abbiamo conosciuto Suzanne e siamo riusciti a mettere su famiglia. Vivere in un Paese come il Regno Unito in cui la Gpa è legale è stato fondamentale per realizzare il nostro sogno», spiega Jennie.

 

Ma non è stato sempre così semplice. A raccontarlo è Kim Cotton, la prima donna inglese ad aver portato a termine una gravidanza per altri, che nel 1988 ha fondato Cots (acronimo di Childlessness overcome throught surrogacy) l’associazione che ha aiutato i genitori di Gee a creare una famiglia. La incontriamo a East Hatley, nei dintorni di Cambridge. Combinare un appuntamento non è affatto facile, sua figlia sta per partorire e Kim è nel bel mezzo di un trasloco. «La prima volta che ho sentito parlare di Gpa avevo 28 anni e due figli piccoli. Vidi un programma in tv che affrontava l’argomento e pensai che fosse una buona idea, durante la gravidanza sarei potuta rimanere a casa con i miei bambini dando la possibilità a un’altra donna di diventare madre. Ci ho pensato a lungo e un giorno mi sono fatta coraggio e ho contattato un’agenzia americana che se ne occupava. A quel tempo non esistevano realtà simili in Gran Bretagna. Peccato però che il mio gesto sia stato interpretato male. Ricordo ancora i titoli dei giornali: “Nata per essere venduta”. Era la prima volta che nel Regno Unito una donna faceva una Gpa e la stampa gridava allo scandalo. Dopo la bufera mediatica che mi travolse però, ricevetti centinaia di lettere di solidarietà da tutto il Regno Unito: erano donne che condividevano la mia scelta. E così tre anni dopo ho fondato Cots, un’associazione senza scopo di lucro per la maternità surrogata in Inghilterra, un punto di riferimento per le donne interessate a intraprendere questo percorso e per le coppie alla ricerca di un figlio. Oggi grazie alla mia associazione sono nati più di mille bambini. In Inghilterra la Gpa non è un business ma una pratica sociale fondata sulla fiducia e l’amicizia», racconta Kim Cotton.

Un sentimento che finisce per legare tra loro le donne che hanno fatto questa scelta. Ne parliamo con Jo, Bianca e Michelle, tre madri surrogate inglesi i cui destini si sono incrociati nella corsia dell’ospedale dove hanno dato alla luce i bambini che portavano in grembo. Siamo a Tuxford, nella contea di Nottingham. Jo ha organizzato un brunch per il nostro arrivo. A rompere il ghiaccio è Michelle, 47 anni: «Da tempo mia cugina Debe provava ad avere un figlio senza riuscirci, anni difficili in cui si alternavano speranze e delusioni. Non le rimaneva che provare con la surroga di gravidanza ed io ero pronta ad aiutarla. Poi all’improvviso è arrivata la bella notizia: Debe aspettava due gemelli. Io nel frattempo ero entrata talmente in empatia con la sua condizione che avevo voglia di aiutare un’altra donna. Ne ho parlato con mio marito e ci siamo rivolti a Cots. Ci hanno inviato i profili di alcune coppie desiderose di mettere su famiglia. Abbiamo scelto Karen e David, una giovane coppia che viveva a soli 30 miglia da casa nostra. Karen aveva avuto un cancro al seno e i medicinali che le avevano somministrato l’avevano resa infertile. Ci siamo frequentate per 6 mesi e siamo diventate buone amiche. Nel 2008 è nato Daniel. È stata una esperienza bellissima, mio marito Ian, Karen e David, erano con me in sala parto. Non ci sono parole per raccontare l’emozione che abbiamo provato in quella stanza».

 

Aver vissuto da vicino il dramma dell’infertilità è la stessa ragione che ha spinto Bianca, 41 anni, originaria di Sheffield, a fare questo passo: «L’ho fatto per tre coppie diverse. Sono state tutte gravidanze di tipo gestazionale, gli ovuli erano della futura mamma. Certo, rispetto alla surroga di gravidanza tradizionale, è un percorso più complicato, devi fare continui controlli e assumere medicinali che possono avere spiacevoli effetti collaterali, ma se sei decisa a farlo vai avanti e per me ne è sempre valsa la pena. Con alcune famiglie sono in contatto ancora oggi».

 

È la volta di Jo, sorride mentre versa il tè. La sua è una tipica villa di campagna inglese con il prato curato, i tappeti sulla moquette e grandi finestre di legno bianco da cui entrano i raggi del sole tra una nuvola e l’altra. «Avevo visto un programma in tv in cui intervenivano alcune madri surrogate e le loro parole avevano fatto breccia nel mio cuore. Ma è stato solo quando mia figlia è stata ricoverata in ospedale per una brutta polmonite che ho deciso di farlo», racconta. In quei giorni Jo fece un patto con se stessa, se la sua bambina fosse guarita, avrebbe aiutato un’altra donna a diventare madre.

 

«A quel tempo lavoravo in un asilo nido e vedevo nella Gpa una sorta di babysitteraggio estremo. Un gesto a cui però avevo difficoltà a dare un valore in termini economici, anche se si trattava solo di un rimborso spese. Condivisi le mie perplessità con la coppia che avevo scelto di aiutare e insistettero perché non rifiutassi quel compenso. Era la loro maniera di dirmi grazie e così accettai».

 

Del resto Gee Roberts, figlia orgogliosa della Gpa, ne è convinta: «Questa pratica in Inghilterra è legale da prima che nascessi e in genere è accolta positivamente. Confrontandomi con alcuni studenti stranieri che frequentano la mia stessa università, mi sono accorta quanto sia diversa l’opinione al riguardo all’estero, soprattutto dove non è legale. Ma sono loro a ricredersi quando racconto la mia storia e conoscono la mia famiglia. Il problema non sta nella Gpa in quanto tale ma nel modo in cui viene rappresentata».