Non c’è una legge che porti il suo nome, né una particolare causa che egli abbia voluto intestarsi. Ma proprio questo modo di condursi può racchiudere alle volte il senso più riposto della politica. E cioè il tentativo di regolare per quanto possibile l’equilibrio delle forze in campo. La mediazione, in una parola.

Caro direttore, approfitto dell’ospitalità de L’Espresso per un fatto, quasi, solo quasi, personale. Si è aperto in questi giorni il semestre bianco, l’inizio della corsa al Quirinale che verrà. La mia opinione è che i candidati più autorevoli, i più capaci di assicurare la tenuta del sistema-paese siano, per diverse ragioni, Mattarella e Draghi. Se però nessuno dei due dovesse essere disponibile, a quel punto l’argomento finirebbe per riguardare molte persone, tutte con qualche freccia al proprio arco. E tra tutti costoro, anche Pier Ferdinando Casini.
Ora, io sono da anni e anni fuori dall’agone politico e non avrei particolari titoli per dire la mia. Tuttavia il nome di Casini evoca anche per me una lunga storia personale, intessuta di molta vita vissuta. Sono stato a lungo amico di Casini, poi non più. Devo a lui, e non lo dimentico, il mio ingresso in Parlamento. Senza di lui probabilmente non avrei mai varcato la soglia di Montecitorio. Poi, a un certo punto, abbiamo finito per trovarci agli antipodi. Ci hanno diviso un bel po’ di cose. Una soprattutto: la legge elettorale del 2005, che lui ha fortemente voluto e io ho (forse troppo debolmente) avversato. Punto. Di qui è nato uno di quei litigi che noi democristiani amministriamo quasi sempre con un misto di animosità e di pazienza. È storia nota a chi se ne interessa, e non ho altro da aggiungere.


E tuttavia, nel mezzo tra la gratitudine e l’avversione, ci sono sempre le persone con le loro storie politiche. Ed è la politica, per chi la ama, che deve guidare i pensieri e perfino i sentimenti, o quello che ne resta. È con questo spirito che vorrei riconoscere a Casini un titolo che penso lui possa meritare. Se dovesse essere lui il prossimo capo dello Stato oso dire che si tratterebbe di una scelta degna. Discutibile, ma degna. Non la mia preferita, forse, ma pur sempre una scelta che potrebbe avere, e magari avrà, un suo risvolto positivo.


Dei difetti di Casini penso di essere a mio modo un esperto. So che in lui il talento e la furbizia, e l’ambizione e la lealtà, si tengono sempre in precario equilibrio. E che qualche volta proprio l’eccesso della furbizia è stato il limite insuperabile della sua azione politica. Ma il capo dello Stato, ce lo ricorda l’esperienza di molti, si nutre di quella che viene chiamata appunto la «grazia» di Stato. E cioè la capacità di prendersi sulle spalle il carico di un Paese che non sempre è quello che corrisponde alla propria visione (e tantomeno ai propri difetti), ma che sempre merita di essere rispettato per la grande varietà di opinioni, interessi, sensibilità che un presidente della Repubblica non deve mai cercare di comprimere, uniformare, ricondurre a sé e alla propria storia di parte.


Casini è sempre stato una figura totus politicus, come si usa dire. Il suo metro di misura non è mai stata l’azione di governo. E neppure il gioco di squadra, la fantasia progettuale e quell’intensa passione di parte con cui un leader guida il proprio esercito in battaglia. Non c’è una legge che porti il suo nome, né una particolare causa che egli abbia voluto intestarsi. Ma proprio questo modo di condursi può racchiudere alle volte il senso più riposto della politica. E cioè il tentativo di regolare per quanto possibile l’equilibrio delle forze in campo. La mediazione, in una parola.
E di mediatori, grandi e piccoli, per l’appunto il Paese ha ed avrà un gran bisogno. Persone che si faranno valere per il loro talento ma anche per la loro misura; e tra le quali la modestia varrà quanto, se non più, dell’apparente grandezza.
Il mio non è un giudizio da tifoso. Ma il tifo, come ci hanno insegnato i vecchi democristiani, si deve sempre arrestare alle pendici del Quirinale. Senza mai lambire le mura del suo palazzo, né concedere troppo ai suoi aspiranti inquilini.